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PARTE 4
APPENDICI
 
◗PAROLE STRANIERE
La lingua italiana annovera una discreta quantità di termini stranieri, il cui
numero è in costante aumento. In merito al loro impiego grammaticale
si possono distinguere (si badi, è una divisione approssimativa):
●Termini acquisiti da lungo tempo e divenuti di uso talmente comune
da non essere piú percepiti come estranei alla nostra lingua: è il caso, per
fare qualche esempio, di sport, bar, ring, tennis. Queste parole si comportano
in italiano come invariabili al plurale (vedi pag. 43) e non richiedono
una particolare connotazione grafica.
●Termini di uso poco frequente o specialistico, che seguono invece le regole
della lingua di origine per la formazione del plurale ed è uso che siano
evidenziati in carattere corsivo (es. policeman p policemen; flèche p
flèches). Occorre però osservare che il contesto è determinante per stabilire
che cosa verrà percepito dal lettore come estraneo: ad esempio, in un
libro di informatica piuttosto evoluto termini come interrupt e shell probabilmente
saranno considerati noti e quindi non scritti in corsivo.


AL FRANCESE LA SUA PRONUNCIA
Per quanto riguarda la pronuncia delle parole acquisite dal francese, va tenuto
presente che l’accento tonico cade quasi sempre sull’ultima sillaba e
che le consonanti finali d, p, s, t, x, z e la vocale e sono mute. Ad esempio,
dépliant si pronuncia depliàn (non dépliant ), e l’accento acuto sulla e indica
solo la pronuncia chiusa. Altri esempi sono collant (pronuncia colàn,
non còllant ) e crème caramel (pronuncia crèm caramèl, non càramel ).



Per quanto riguarda l’autentica invasione di termini della lingua inglese
che si è verificata negli ultimi anni (favorita da un’accettazione a dir poco
entusiastica), si tratta di un fenomeno che andrebbe analizzato piú che altro
su basi psico-sociologiche, il che esula dagli scopi di questo libro. Da un
punto di vista linguistico si noterà che il proliferare di nuovi termini può
essere motivato dalla nascita di nuove scienze, nuove scoperte e nuovi “oggetti”
che prima non esistevano; poiché tutto ciò proviene per lo piú da Paesi
anglofoni, la denominazione sarà elettivamente quella della lingua di origine:
coniare un termine “nostrano” equivalente può far rischiare il ridicolo.
Tra le curiosità che vale la pena di citare c’è però il termine informatico
mouse, che per gli Italiani è rimasto esattamente come in inglese, mentre in Francia, Germania e Spagna è stato puntualmente tradotto nel significato
letterale (= topo) ed è diventato rispettivamente souris, maus e ratón!
Quando invece un termine straniero non serve a descrivere qualcosa di nuovo
ma a ribattezzare ciò che già ha un nome, ecco che andrebbe guardato con
sospetto. In fondo, per fare qualche esempio, un meeting non è altro che un
incontro di lavoro e un report una relazione: i termini italiani non hanno ragione
di essere spodestati dai cugini d’Oltralpe. Seguire acriticamente una
moda esterofila porta, di fatto, a un impoverimento della nostra lingua.
◗ Il calco semantico
Capita che un vocabolo italiano acquisisca un significato che non gli è
proprio su “imitazione” del termine equivalente appartenente a un’altra
lingua: è il fenomeno detto calco semantico. Ad esempio, “rendersi conto”
non è uno dei significati originari del verbo realizzare, mentre lo è per
l’inglese to realize.
 


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