ÈÒÀËÜßÍÑÊÈÉ ßÇÛÊ
Dino Buzzati
Il deserto dei tartari
4.

Molte volte egli era stato solo: in alcuni casi anche da bambino, smarrito per la campagna, altre volte nella città notturna, nelle vie abitate dai delitti, e persino la notte prima, che aveva dormito per strada. Ma adesso era una cosa ben diversa, adesso ch'era finita l'eccitazione del viaggio, e i suoi nuovi colleghi erano già a dormire, e lui sedeva nella sua camera, alla luce della lampada, sul bordo del letto, triste e sperduto. Adesso sì capiva sul serio che cosa fosse solitudine (una camera non brutta, tutta tappezzata di legno, con un grande letto, un tavolo, un incomodo divano, un armadio). Tutti erano stati gentili con lui, alla mensa avevano aperto una bottiglia in suo onore, ma adesso di lui se ne infischiavano, l'avevano già completamente dimenticato (sopra il letto un crocefisso di legno, dall'altra parte una vecchia stampa con una lunga scritta di cui si leggono le prime parole: "Humanissimi Viri Francisci Angloisi virtutibus"). Nessuno per la durata dell'intera notte sarebbe entrato a salutarlo; nessuno in tutta la Fortezza pensava a lui e non solo nella Fortezza, probabilmente anche in tutto il mondo non c'era un'anima che pensasse a Drogo; ciascuno ha le proprie occupazioni, ciascuno basta appena a se stesso, persino la mamma, poteva darsi, persino lei in questo momento aveva in mente altre cose, di figlioli non c'era soltanto lui, a Giovanni aveva pensato tutto il giorno, adesso toccava un po' anche agli altri. Più che giusto, ammetteva Giovanni Drogo senza ombra di rimprovero, ma intanto egli era seduto sul bordo del letto, nella camera della Fortezza (incisa nel legno della parete, adesso notava, colorata con straordinaria pazienza, una sciabola in grandezza naturale, che poteva a prima vista sembrare anche vera, meticoloso lavoro di qualche ufficiale, chissà mai quanti anni addietro) era seduto dunque sul bordo del letto, la testa un po' piegata in avanti, la schiena curva, gli sguardi atoni e pesanti, e si sentiva solo come mai nella vita.
Ed ecco Drogo alzarsi con uno sforzo, aprire la finestra, guardare fuori. La finestra dava sul cortile e non si vedeva niente altro.
Poiché guardava verso sud, Giovanni cercò invano di distinguere, nella notte, le montagne che aveva attraversato per giungere alla Fortezza; esse risultavano più basse, nascoste dal muro di fronte.
Solo tre finestre erano illuminate, ma appartenevano alla sua medesima facciata, cosicché dentro non si vedeva; il loro alone di luce, e quello della stanza di Drogo, si stampavano sul muro opposto ingigantiti e in uno di essi si agitava un'ombra, forse un ufficiale stava spogliandosi.
Chiuse la finestra, si spogliò, si mise a letto, restò qualche minuto a pensare, fissando il soffitto, pure rivestito di legno. Si era dimenticato di portarsi da leggere, ma quella sera non gli importava perché sentiva un gran sonno. Spense la lampada, dal buio a poco a poco emerse il rettangolo chiaro della finestra e Drogo vide brillare le stelle.
Gli parve che un torpore improvviso lo trascinasse nel sonno. Ma ne aveva troppo coscienza. Una baraonda di immagini, quasi di sogno, gli passarono davanti, cominciavano persino a formare una storia; ma dopo qualche istante si accorse di essere ancora sveglio.
Sveglio più di prima, perché lo colpì la vastità del silenzio.
Lontanissimo, ma era poi vero? giunse un colpo di tosse. Poi, vicino, un flaccido "ploc" d'acqua, che si propagò per i muri. Una piccola stella verde (egli vedeva rimanendo immobile) stava, nel suo viaggio notturno, raggiungendo il limite superiore della finestra, fra poco sarebbe sparita; scintillò un attimo proprio sul bordo nero e poi infatti scomparve. Drogo la volle seguire ancora un po', spostando in avanti la testa. In quel punto si udì un secondo "ploc", simile al tonfo di un oggetto nell'acqua. Si sarebbe ripetuto ancora? Aspettò in agguato il suono, rumore da sotterranei, da acquitrini, da case morte.
Passarono minuti immobili, il silenzio assoluto pareva, finalmente, incontrastato signore della Fortezza. E di nuovo premevano intorno a Drogo insensate immagini della vita lontana.
"Ploc!" eccolo ancora l'odioso suono. Drogo si mise a sedere. Quello era dunque un rumore a ripetizione; gli ultimi tonfi non erano poi stati minori del primo, non poteva essere dunque stillicidio in via di esaurimento. Come era possibile dormire? Drogo si ricordò che di fianco al letto pendeva un cordone, forse di un campanello. Provò a tirare, il cordone cedette e in un remoto meandro dell'edificio rispose, quasi impercettibile, un breve tintinnio. Che stupidaggine, pensò adesso Drogo, chiamare gente per una simile inezia. E chi sarebbe poi venuto?
Nel corridoio, fuori, risuonarono dopo poco dei passi, si fecero sempre più vicini, qualcuno bussò alla porta. "Avanti!" fece Drogo.
Comparve un soldato con una lanterna in mano: "Comandi, signor tenente?»
"Qui non si può dormire, perdio!" fece Drogo arrabbiandosi a freddo.
"Che cos'è questo schifoso rumore? Qualche tubo che spande, guarda di farlo finire, non si può assolutamente dormire: alle volte basta mettere uno straccio sotto.»
"E' la cisterna" rispose il soldato immediatamente, come se fosse pratico della cosa. "E' la cisterna, signor tenente, non c'è niente da fare.»
"La cisterna?»
"Sissignore" spiegò il soldato. "La cisterna dell'acqua, proprio dietro quel muro. Tutti si lamentano, ma non si è potuto far niente.
Non è mica solo qui che si sente. Anche il signor capitano Fonzaso ogni tanto urla, ma non c'è niente da fare.»
"Va', va' pure, allora" fece Drogo. La porta si chiuse, i passi si allontanarono, si ampliò nuovamente il silenzio, brillarono le stelle nella finestra. Giovanni ora pensava alle sentinelle che a pochi metri da lui camminavano come automi su e giù senza un respiro di pausa.
Decine e decine erano gli uomini svegli, mentre lui giaceva nel letto, mentre tutto pareva immerso nel sonno. Decine e decine — pensava Drogo — ma per chi, per che cosa? Il formalismo militare, in quella fortezza, sembrava aver creato un insano capolavoro. Centinaia di uomini a custodire un valico da cui nessuno sarebbe passato.
Andarsene, andarsene al più presto — pensava Giovanni — uscir fuori all'aria, da quel mistero nebbioso. Oh, la onesta casa; a quest'ora la mamma certo stava dormendo, le luci tutte spente; a meno che non pensasse ancora per un momento a lui, era anzi molto probabile, egli la conosceva bene, per la più piccola cosa stava in ansia e di notte si rigirava nel letto senza trovare riposo.
Ancora il rigurgito della cisterna, ancora un'altra stella che sconfinò dal riquadro della finestra e la sua luce continuava a raggiungere il mondo, gli spalti della Fortezza, gli occhi febbrili delle sentinelle, ma non più Giovanni Drogo, che attendeva il sonno, ora tormentato da sinistri pensieri.
E se le sottilizzazioni del Matti fossero tutte una commedia? Se in realtà, anche dopo i quattro mesi, non lo avessero più lasciato partire? Se con sofistici pretesti regolamentari gli avessero impedito di rivedere la città? Se avesse dovuto rimanere lassù per anni e anni, e in quella stanza, su quel solitario letto, si fosse dovuta consumare la giovinezza? Che ipotesi assurde, si diceva Drogo, rendendosi conto della loro stoltezza, eppure non riusciva a scacciarle, esse dopo poco tornavano a tentarlo, protette dalla solitudine della notte.
Gli pareva così di sentire crescere attorno una oscura trama che cercasse di trattenerlo. Probabilmente non si trattava neppure del Matti. Né questi, né il colonnello, né alcun altro ufficiale si interessavano menomamente di lui: che rimanesse o partisse certo era loro del tutto indifferente. Tuttavia una forza sconosciuta lavorava contro il suo ritorno in città, forse scaturiva dalla sua stessa anima, senza ch'egli se ne accorgesse.
Poi vide un atrio, un cavallo su una strada bianca, gli sembrò che lo chiamassero per nome e fu preso dal sonno.