VAMPIRI. Le storie di morti bevitori di sangue sono più veridiche di quel che non si creda, se le si intende come un discorso MITICO – cioè come un ricorso all’immaginazione per descrivere e spiegare un fenomeno psichico. Di pericolosissimi vampiri se ne incontrano infatti molti: sono le persone che non cercano, non desiderano più nulla, e fanno il possibile per scoraggiare chi cerca e desidera, perché proprio dallo scoraggiamento altrui traggono giustificazione. Non portano mantelli, non hanno canini aguzzi, non dormono in vere e proprie bare, ma altri tratti che la tradizione attribuisce loro sono perfettamente riconoscibili: temono la luce; affascinano; e, soprattutto, sono contagiosi: chi viene ferito da un vampiro diventa vampiro a sua volta: chi, cioè, frequenta questi scoraggiatori senza sapersene difendere tenderà ben presto a imitarli – dapprima senza neppure accorgersene.
Difendersene, d’altra parte, è abbastanza facile, e quando lo si impara si arriva anche ad apprezzare il ruolo che svolgono in natura: come tutti i predatori, anche i vampiri servono a mettere alla prova, attaccano i deboli per spingerti a fortificarti. Se, dunque, ti accorgi di attrarre scoraggiatori, devi dedurne che ti stai indebolendo: bada allora a rinvigorire le tue aspirazioni, i tuoi desideri, e ad essere più sincero (poche cose sono più debilitanti della menzogna), e i vampiri ti troveranno subito sgradevole, e si rivolgeranno altrove. Grave errore è invece vedere nel vampiro un bisognoso da aiutare, o una persona confusa da riorientare: «Voglio insegnargli a smettere, voglio che impari a reggersi sulle sue gambe…». È una trappola fatale: ti divorerà. Li si può aiutare e guarire soltanto con l’esempio: come dice una volta Gesù nei Vangeli,
Questa specie di demoni non si scaccia se non con la preghiera e con il digiuno
Matteo 17,20
Non, cioè, sforzandosi di voler cambiare la loro vita, ma preoccupandoti di rendere più intensa e più disciplinata la tua.
VEDERE, vedi PERCEZIONE.
VERSIONI CONSUETE DEI TESTI SACRI. Intendo con questo termine le versioni della Bibbia attualmente in commercio, o disponibili su internet. Salvo rare eccezioni (si veda il documentatissimo sito www.e-sword.net), tali versioni presentano una serie di errori grossolani, che non possono venir spiegati come semplici sviste.
Me ne accorsi una trentina d’anni fa, dapprima grazie a Tolstòj, che in vecchiaia aveva ritradotto i Vangeli e scritto molti saggi di teologia e di esegesi; e poi grazie a La langue hebraïque restituée (1815) di Antoine Fabre-D’Olivet, libro altrettanto importante per la interpretazione del Vecchio Testamento, quanto i lavori di Champollion lo furono per la decifrazione dei geroglifici egizi. La sorpresa, lo sdegno, la gioia furono tali, che abbandonai i miei precedenti studi di storia della letteratura per dedicarmi totalmente allo studio delle Scritture nelle loro lingue originali.
Le mie scoperte e il mio stupore non fecero che aumentare, a lungo: nella Genesi – in ebraico antico – non vi è né un unico Dio, né l’«immagine e somiglianza», né la «costola», né la «foglia di fico»; Adamo non è un maschio, Eva non è una donna, l’arca non è una barca, Caino non è un malfattore e Abele non è un buono… e così via. Versetto dopo versetto, tutto quel che mi avevano insegnato sulla Bibbia si disintegrava, e si delineavano contenuti meravigliosamente più profondi, più vasti e soprattutto più coerenti (quale lettore non si è sentito scoraggiato dalle contraddizioni e dalle strambe oscurità del racconto biblico della Creazione, così come viene tradotto di solito?).
E lo stesso avveniva con i Vangeli; in questi, le scoperte principali furono due:
– Gesù, quando dice «io», intende non sé stesso ma «l’io», quell’io che in ciascuno di noi è sempre più grande di ciò che sappiamo di noi stessi (l’«Io grande», come cominciai a chiamarlo poi; e mi accorsi di come quella stessa accezione di «io» compariva più e più volte anche nei discorsi di Dio riportati nella Bibbia); e
– i quattro Vangeli cosiddetti canonici, comparsi tutti quanti dopo il 140 d.C. (a giudicare sia dalla lingua che usano, sia dalle citazioni degli autori contemporanei) narrano non tanto di quel che era avvenuto un secolo prima a Gerusalemme, quanto piuttosto di un modo di intendere gli insegnamenti di Gesù completamente diverso da come li intendeva allora la Chiesa romana: gli «scribi e farisei» che compaiono nei Vangeli sono, cioè, non i dotti e pii ebrei, bensì aspetti ben riconoscibili di quella Chiesa, che gli evangelisti indicavano come avversaria di Gesù stesso; e personificazione di essa è anche Simon Pietro, cioè il discepolo ottuso che rinnega Gesù per paura dell’autorità, e che viene contrapposto al «discepolo che Gesù amava davvero» e che, nelle intenzioni degli evangelisti, sembra essere ciascun lettore.
Ciò mi chiarì la principale ragione dei molti errori delle versioni consuete: abituati, addestrati a pensare che i Vangeli fossero il fondamento della dottrina cristiana, i traduttori non riuscivano ad accorgersi (e, se se ne accorgevano, non riuscivano ad ammettere) che in essi si trovassero tante critiche alla dottrina stessa.
Così, per esempio, nel cap. 21 di Giovanni, la conversazione tra Gesù e Pietro sull’amore viene tradotta solitamente come segue:
Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?» Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi ami?» Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi ami?» Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le mani, e altri ti cingeranno la veste e ti porteranno dove tu non vuoi». Gli disse questo per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio.
In questa traduzione rimangono oscuri sia il senso della triplice richiesta, sia quella profezia sul vestirsi da sé e il venir vestito da altri; in compenso, si ha l’impressione che Pietro venga in qualche modo perdonato per aver rinnegato Gesù, e che sia investito del ruolo di pastore. Nel testo originale, il passo è ben più tormentoso:
Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, tu mi ami di amore profondo e appassionato (nell’originale: agapas me), più di costoro?» Gli rispose: «Sì, Signore, tu lo sai che ti voglio bene come a un amico (nell’originale: philo se)». Gli disse: «Pascerai i miei agnelli». Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi ami di amore profondo e appassionato (agapas me)?» Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene proprio come a un amico (philo se)». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, dunque mi vuoi bene soltanto come a un amico (phileis me)?» Pietro rimase addolorato, perché la terza volta Gesù gli aveva detto: Mi vuoi bene soltanto come a un amico? e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene soltanto come a un amico (philo se)». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le mani, e altri ti cingeranno la veste e ti porteranno dove tu non vuoi». Gli disse questo per indicare con quale morte avrebbe potuto, lui, glorificare Dio.
Qui cambia tutto: Pietro non soltanto non sa amare appassionatamente Gesù, ma non si rende neppure conto della differenza tra il grande amore (agape) e il semplice affetto (philia): proprio perciò Gesù insiste, fino a che l’apostolo non capisce e si addolora. «Ecco perché potrai soltanto pascolare pecorelle» gli spiega Gesù, «ed ecco perché in futuro gli altri (i romani, s’intende) ti faranno fare quel che vogliono loro».
Quella confusione tra agape e philia compariva già nella traduzione latina del Vangelo di Giovanni, redatta a Roma nel IV secolo. Altri errori non meno clamorosi si aggiunsero in seguito, quando – a partire dal XVI sec. – i Vangeli vennero tradotti in lingue moderne. Per esempio, nel primo capitolo di Giovanni si legge (sia nel testo greco, sia in quello latino):
Era la luce vera, che illumina
Ogni uomo che viene al mondo
Mentre nelle versioni consuete:
Veniva nel mondo la luce vera
Che illumina ogni uomo.
La consapevole intenzione è qui evidente: se chiunque viene al mondo è illuminato dalla «luce», non solo cade, rispetto a quest’ultima, ogni differenza di razza e di religione, ma non vi è bisogno del battesimo (e il Vangelo precisa infatti che «Gesù non battezzava», Giovanni 4,2). Oppure il passo sulle «tenebre», di Giovanni 1,5: in greco e in latino è
La luce splende nelle tenebre
E le tenebre non l’hanno potuta imprigionare
Mentre nelle versioni consuete diventò:
La luce splende nelle tenebre
E le tenebre non l’hanno accolta.
La differenza tra le «tenebre» che non possono fermare la «luce» e le «tenebre» che non la accolgono è, ovviamente, enorme: nella versione consueta prevale il pessimismo, la certezza cioè che gli uomini non siano in grado di comprendere le verità superiori; nel testo originale si afferma invece che gli uomini non possono opporsi a essa, se non rifugiandosi nelle tenebre. E in un Testo Sacro, cosa è più tenebroso di una traduzione consapevolmente sbagliata? Quanto a questo passo di Giovanni, tuttavia, una piccola soddisfazione l’ho avuta: nel 2008, dicevo, la Sacra Bibbia nell’edizione CEI ne riportava una traduzione corretta. Nessuno dei miei libri sui Testi sacri, da I miracoli di Gesù (1989) a Il codice segreto del Vangelo (2004) è stato recensito da teologi ecclesiastici, e dubito perciò che la CEI abbia preso in considerazione quel che dicevo lì sulla «luce» nel Vangelo di Giovanni, ma quella correzione mi fa pensare che il mio stesso interesse per gli originali sia – finalmente! – condiviso anche dall’attuale papato; ora, c’è da auspicare che si cominci a correggere anche le centinaia di altre manipolazioni che ancora rimangono.
E non sarà facile. Le critiche alle versioni consuete non sono cosa recente: già i Vangeli avevano molto da eccepire sull’interpretazione consueta delle Scritture, ai tempi loro; poi, nel IV s. d.C. vi fu un’aspra disputa tra Agostino e il traduttore latino dei Vangeli, Gerolamo: Gerolamo sosteneva che la Bibbia andasse tradotta daccapo dall’ebraico, perché le traduzioni allora in uso erano scadenti, ma Agostino si irritava: «Se quelle che abbiamo sono davvero traduzioni scadenti» diceva, «Dio non avrebbe permesso che il cristianesimo si formasse proprio su di esse! E se sono diverse dall’originale, vuol dire che sono migliori dell’originale, almeno per noi…» Argomento, questo, meno assurdo di quel che sembra: Dio, per Agostino, era soprattutto ciò che i cristiani si erano abituati a pensare che fosse, in base alle traduzioni delle Scritture di cui disponevano, e se quel Dio era, in tal modo, diventato diverso da Yahweh, da Elohiym e dunque anche dal Dio dei Vangeli, adesso non ci si poteva fare più nulla, se non a costo di sbalestrare la mentalità delle masse. Dodici secoli dopo, la questione delle inesattezze delle versioni consuete fu sollevata di nuovo al Concilio di Trento: ma di nuovo si decise di lasciare tutto com’era, perché la tradizione non subisse cambiamenti - «benché» ammise il Concilio, «la versione abbia qua e là qualche imperfezione».
A me, dello sbalestramento della tradizione ecclesiastica importa ben poco. Troppo grande mi pare invece la «luce» che le Scritture contengono, perché si possa essere complici delle «tenebre» una volta che la si sia intravista. Grande e certamente benefico è anche il cambiamento interiore a cui porta l’accorgersi di aver ritenuto vero (da millenni) quel che invece era falso: chi se ne accorge non può non rallegrarsene, e non sentire ben presto il bisogno di compiere analoghe scoperte in altri campi. Quante delle cose che, nel nostro modo di pensare, ci sono apparse vere e fondamentali da secoli, sono invece mistificazioni ed equivoci? La critica delle versioni consuete delle Scritture diviene, in tal modo, la preparazione alla critica delle versioni consuete dell’intera nostra realtà.
VIAGGI NELL’ALDILÀ, vedi IMMAGINAZIONE, STANZA TONDA, ASCENSORI.
VITA. A considerarla dal punto di vista dell’Aldilà, la vita umana consiste in un’ENERGIA, cioè nell’impiego che possiamo fare di una ben precisa differenza di potenziale. Tale differenza di potenziale è data dalle connessioni che il nostro io stabilisce con il suo Aldiquà e il suo Aldilà: cioè, da un lato, con quello che i suoi sensi riescono a percepire degli altri esseri viventi, degli avvenimenti e delle cose; e, dall’altro, con quello che il nostro io può scoprire soltanto attraverso l’IMMAGINA-ZIONE. Quanto più ampie e profonde sono le connessioni con l’Aldiquà, tanto più concreta diviene quell’energia che chiamiamo vita; e quanto più siamo consapevoli delle nostre connessioni con l’Aldilà, tanto più la nostra vita diviene intensa e significativa.
Da tale definizione (in pratica, non molto diversa da quella classica di Kant, per il quale «la vita è la capacità di agire secondo la facoltà di desiderare») deriva ovviamente che non tutte le persone siano vive allo stesso modo: se uno prova poco amore, pochi impulsi, poco interesse verso il prossimo e verso se stesso, e se è poco o per null’affatto consapevole del suo Aldilà, il suo grado di vita è minimo o addirittura nullo, o negativo (v. VAMPIRO); se invece prova forti impulsi e sentimenti verso il prossimo, e desidera conoscere se stesso e superare quel che sa di sé per scoprire di più, il suo grado di vita è considerevole.
Inoltre, il nostro grado di vita cambia indubbiamente nei diversi periodi della nostra esistenza, e ciò esclude che la nostra vita vissuta sia misurabile, come avviene di solito, soltanto in termini di tempo lineare, cioè per somma aritmetica di anni – proprio così come non avrebbe senso misurare soltanto in termini di tempo una qualsiasi altra energia, poniamo il calore. Dire di qualcuno «Ha quarant’anni» o domandarsi «Quanti anni mi restano da vivere?» è un modo di esprimersi altrettanto infondato quanto il sapere che una stufa è accesa da mezz’ora, senza precisare a quale temperatura e in quali condizioni ambientali. Viceversa, può esserci più vita in un’ora che in un intero anno; e per stabilire utilmente quanti anni hai (cioè quanti anni hai vissuto) sarebbe giusto sottrarre dalla tua età anagrafica tutti quegli anni, mesi e giorni in cui il tuo grado di vita era minimo – e il cui unico scopo era quello di prepararti al momento della morte, nel quale il grado di vita diventa veramente uguale a zero.
Questo grado zero, il momento della morte, non è sempre la fine della vita. È solamente il punto in cui cessa la differenza di potenziale data dai due tipi di connessioni: sia quella tra l’io e l’Aldilà, sia quella tra l’io e ciò che è oggetto di sue percezioni sensoriali.
Per alcune persone, quel punto di cessazione è, sì, la fine; non ha cioè alcun esito: di ciò che essi sono riusciti a essere non rimane nulla dopo la morte, soltanto un vuoto, simile a un guscio, che può divenire ricettacolo di altre forme di energia diverse dalla vita umana – e penso che questo sia ciò che nel Medioevo cristiano era descritto come «l’eterno castigo» successivo al Giudizio Universale.
Per altre persone la morte fisica sembra essere invece una soglia, oltre la quale si stabiliscono connessioni di nuovo tipo, sia con il nostro Aldiquà (che diventa allora un altro Aldilà, per quelle persone) sia con dimensioni più alte e più vaste, nelle quali il loro nuovo io può crescere e trasformarsi ancora.
A quanto ne dicono le religioni a me più note, ciò che decide quali persone proseguano oltre quel grado zero e quali no, è proprio la vita veramente vissuta, cioè l’energia-vita di cui hai saputo fare uso. E penso sia vero; è un po’ come se tale uso preparasse negli individui le capacità necessarie a stabilire le nuove connessioni là – invece di lasciarsi spegnere nella morte, come una lampadina che si rompa. Ne consegue che là si debbano trovare molti meno io di quelli che hanno vissuto sulla Terra – così come il numero di figli che una persona può avere è assai inferiore al numero di ovuli o spermatozoi che il suo corpo produce.
Il problema è se il fondamento di ciò che ognuno di noi chiama «io» e ciò che riusciamo a essere durante la vita siano tutt’uno; e io penso di no.
Penso che il primo sia un’entità superiore che, come dicono i Vangeli, «discende dal cielo» e «viene nel mondo» (Giovanni 3,13); ed il principale argomento dei Vangeli: ciò che Gesù intende ogni volta che parla dell’«io» (v. VERSIONI CONSUETE). Nel mondo, questo io superiore tenta di dar forma a un individuo, che è appunto quel che noi riusciamo a essere e a diventare durante la vita. Il tentativo può riuscire o no:
– se riesce, se cioè l’io superiore riesce a far crescere nella vita un individuo autenticamente tale, consapevole di sé, alla fine di una vita sia hanno due «io»: quello superiore, che era disceso nel mondo, e quello che nel mondo ha preso forma, ed entrambi passano nell’Aldilà;
– se il tentativo non riesce, se cioè quel che uno è riuscito a essere nel mondo ha utilizzato troppo poco e male quell’energia che chiamiamo vita, dopo la morte vi è soltanto quell’«io» che era disceso nel mondo e che ne risale, mentre ciò che il suo tentativo aveva prodotto diviene il ricettacolo che dicevo.
Di conseguenza, benché non tutti coloro che sono vissuti possano «ritrovarsi in cielo», la popolazione del «cielo» stesso aumenta di continuo, con anche il nostro contributo – se con «cielo» si intende una dimensione superiore, sì, alla nostra, ma nella quale vi sia ancora quella differenza di potenziale che chiamiamo vita.
Non ho trovato, finora, un’ipotesi che meglio di questa permetta di conciliare tra loro le descrizioni che dell’Aldilà della vita sono state date dai maggiori profeti e dalle grandi religioni, e che al tempo stesso coincida con ciò che la mia mente e il mio cuore arrivano a percepire di quell’Aldilà, nei loro momenti migliori.
VIZI CAPITALI. Li aveva individuati Aristotele, poi il Cristianesimo li fece propri. Sono, com’è noto, sette diffusissimi modi di sprecare il proprio tempo e le proprie forze:
– ira, cioè l’impulso aggressivo determinato dalla certezza di aver ragione;
– superbia, cioè lo squilibrio determinato dal sentirsi troppo superiori agli altri per fare qualcosa di utile al prossimo;
– invidia, cioè lo squilibrio determinato dal basare i propri desideri e le proprie scelte su comportamenti altrui, invece che su una autentica ricerca interiore;
– gola, cioè la perdita di autenticità, di spontaneità nei propri bisogni (e sono dunque conseguenze della gola sia l’ingordigia sia l’anoressia);
– lussuria, cioè lo squilibrio determinato da una eccessiva dipendenza dal piacere fisico (e sono dunque conseguenze della lussuria sia l’eccesso sessuale, sia la castità);
– accidia, cioè lo squilibrio determinato dal rifiutarsi di trovare motivazioni, impulsi al proprio agire;
– avarizia, cioè lo squilibrio determinato da una refrattarietà a dare, a impegnarsi in qualcosa.
Dopo aver creduto per molto tempo anch’io, come tutti, che si trattasse soltanto di una tipologia di difetti, mi sono accorto d’un tratto (durante una conferenza; v. INSEGNAMENTO) che si trattava invece di un magnifico strumento di autoanalisi, un vero e proprio test che chiunque può sperimentare quando vuol scoprire quale sia la vera ragione di un problema difficile da superare. È sufficiente domandarsi «Da cosa dipende questo mio problema?» e rispondere elencando quei sette vizi: «Dunque vediamo: invidia, lussuria, gola, ira, superbia…» Si arriverà a ricordarne, al massimo, sei: uno (ogni volta diverso, per lo più) sfuggirà tenacemente alla memoria, occorrerà sforzarsi, concentrarsi, e si avrà l’impressione di lottare contro qualcosa. In quell’ultimo vizio risiede, per l’appunto, la vera ragione del mancato superamento di quel determinato problema: e si fa tanta fatica a individuarlo nella memoria, appunto perché è il vizio che in quel momento sta agendo in noi, è «dentro di noi» e ci determina.
Quando alla fine si riesce, finalmente, a oggettivarlo, si prova solitamente una sensazione di delusione verso se stessi, di stizza quasi: «Possibile che si tratti proprio di questo? Sono così meschino?». E la risposta è, naturalmente, sì: un breve ragionamento conduce infatti, sempre, alla presa di coscienza dell’influsso che quell’ultimo vizio ha esercitato su di noi, rispetto al problema in questione.
E sia l’oggettivazione, sia le sensazioni sgradevoli che essa ha suscitato costituiscono già una piccola «terapia»: se infatti sei riuscito ad accorgerti del vizio che contribuiva ad aggravare il problema in questione, se hai capito quale limite ti poneva, sei già al di là di quel limite – dato che un limite può fermarti soltanto quando non sai dov’è e cos’è, mentre se l’hai visto in te stesso significa che hai visto, in te stesso, anche ciò che vi è al di là di esso. Poi, si tratterà soltanto di far fruttare quella scoperta nel proprio modo di comportarsi: di non arginare cioè i cambiamenti che essa sta producendo in te.
Questo test «aristotelico» è il più semplice tra i metodi di autodiagnosi a me noti, poco più d’un gioco, ma – a quel che ho potuto constatare – decisamente benefico.
VOLERE. Nella celeberrima esortazione «Chiedete e vi sarà dato» è sottinteso l’elemento decisivo: il volere. Noi infatti possiamo chiedere con eguale successo qualunque cosa, sia ciò che vogliamo, sia anche ciò che non vogliamo – e quest’ultimo caso è, a quel che ho visto, di gran lunga il più frequente, dato che la grande maggioranza delle persone faticano molto ad accorgersi di quel che vogliono, e temendo troppo la felicità, ed essendo certi di non meritarla, si rassegnano a chiedere e a ottenere cose a loro del tutto superflue o dannose.
Ma – si potrebbe obbiettare – chiedere quel che non si vuole, non è pur sempre una scelta, cioè un’espressione della volontà? Oppure vanno immaginate altre forze, superiori alla nostra volontà, divine, che determinino le nostre possibili scelte, limitandole? Da questa questione è derivato nella filosofia occidentale il lungo dibattito sul libero arbitrio, ovverosia sulla libertà del volere umano, in cui ancor oggi gli appassionati di spiritualità finiscono talvolta per ingarbugliarsi.
In realtà, rispetto alle influenze divine sul volere dell’uomo la questione era già stata risolta nel IV sec. d.C., con il parere di Agostino, secondo cui il fatto che possa darsi una Causa prima d’ogni essere – e cioè Dio – non toglie affatto che ciascun essere umano sia poi causa e unico responsabile della propria volontà e di ciò che con essa riesce a fare. Né in filosofia né in teologia si è aggiunto nulla di sostanzialmente nuovo a questa idea agostiniana, benché pochi se ne ricordino. E ciò che vale per il divino può valere benissimo anche per qualsiasi altra forza che trascenda il singolo io: che un politico sia stato eletto da forze progressiste non toglie affatto che, nell’esercizio della sua carica, egli possa poi compiere reati; che il tuo oroscopo, il tuo karma, o il tuo Angelo ti indichino chiaramente particolari occasioni o necessità, non toglie affatto che tu possa infischiartene e provare a fare tutt’altro, ecc.
Rispetto invece ai limiti che noi stessi poniamo al nostro volere, le idee più brillanti e audaci vennero espresse duemila anni prima di Agostino, dagli egizi, secondo i quali la nostra libertà e il limite del nostro volere coincidono sempre, poiché riuscire a volere qualcosa significa – sempre e comunque – non riuscire a volere di più. Ma, precisano i testi egiziani, solo gli iniziati lo sanno davvero.
Leggiamo infatti nei Testi delle Piramidi, nel Discorso delle due vie, questa solenne dichiarazione di chi è giunto al termine della propria iniziazione:
Io faccio ciò che voglio.
Non vi è opposizione in me.
Ovverosia: io adesso so che faccio sempre ciò che voglio, io so che né io posso oppormi a ciò che voglio, né vi si può opporre il mondo intero, che è per me ciò che io ho voluto che fosse; ogni circostanza del mio agire, ogni possibilità che mi si apre, sono e saranno sempre quelle che l’orientamento del mio volere mi ha permesso di vedere e immaginare, e non altre; ma proprio perché so tutto questo, e perché da ciò che ora sto facendo e volendo conosco me stesso, io posso scorgere e superare i limiti attuali del mio volere, e vedere cosa altro c’è, in me e nel mondo intero, oltre a ciò che per ora io sono riuscito a volere.
In una versione più moderna, ne Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas (al cap. LXXXVII) quella frase faraonica diventa deliziosamente: «Io faccio quello che voglio e, credetemi, è sempre fatto benissimo», ovvero: io mi impegno anche a trattare bene quel me stesso che, per ora, non arriva a volere più di tanto; se infatti il mio scopo è conoscerlo, per quale ragione dovrei forzarlo, falsarlo e rovinargli l’esistenza, imponendogli di volere ciò che non vuole?
Per adottare un simile atteggiamento nei confronti del proprio volere, occorre naturalmente aver costruito un’ottima CONTENENZA e un solido rapporto con la propria FUNZIONE TRASCENDENTE: con la propria via, cioè, verso l’Io grande, dal cui punto di vista la volontà dell’io concreto appare tanto degna della massima considerazione, quanto sempre insufficiente.
Viene a cessare, in questo caso, qualsiasi voglia di compiangersi: se mi sono accorto che le condizioni in cui vivo sono inferiori alle qualità che so di avere, ciò significa soltanto che potrò mutare quelle condizioni. Vengono a cessare il bisogno di attribuire a un qualche volere divino quelle condizioni insufficienti, e così l’impulso a fingere i propri desideri – ad alimentare cioè desideri che non abbiano alcun reale rapporto con il nostro io: e poche cose danno più sollievo e più gioia, dell’accorgersi che un nostro desiderio a lungo alimentato sia in realtà falso, e possa essere abbandonato (tanto più che i desideri falsi hanno il tremendo potere di ostacolare la realizzazione dei desideri veri). Viene a cessare anche ciò che in moltissime persone frena segretamente la realizzazione (e spesso anche l’espressione) di desideri che a loro sembrano particolarmente importanti: cioè la paura che, una volta realizzati quelli, non si abbiano più scopi nella vita, nulla più da attendere, da conquistare… Viceversa, tutti i nostri principali desideri sono soltanto modi per intravvedere, più in là, desideri ancora più grandi, che diano ancor più significato alla nostra vita.