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UMILTÀ, vedi Orgoglio.

UNO. Che il nostro io non sia uno, è cosa nota fin dai primi giorni della Creazione: ’Elohiym esorta infatti l’’adam a «moltiplicarsi» per «crescere», cioè a scoprire che DIFFERENZIAZIONE ed EVOLUZIONE coincidono; e Yahweh ribadisce: «Non è bene che l’’adam sia uno» (Genesi 2,18), così come non è uno il Dio di cui siamo a immagine e somiglianza: nella Genesi, Dio è dapprima due Persone – ’Elohiym e Yahweh, appunto, – poi «cresce e si moltiplica» lui pure, in ’El Shaddai, nella Sapienza, nella Shekhinah e in tanti altri suoi Nomi; nel cristianesimo Dio è tre; in altre religioni è stato ed è decine, migliaia. Nondimeno, vi è una dimensione in cui tutto quanto è uno soltanto: come il Brahma dell’induismo, l’’Ayn Soph della Qabbalah, e quel «tutt’uno» (en) descritto da Gesù:

perché tutti siano una cosa sola; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi tutt’uno con noi

Giovanni 17,23

Che questo «tutt’uno» possa arrivare a identificarsi in tutti gli esseri viventi, in tutte le cose e in ogni avvenimento, è un’idea cara sia alla mistica cristiana (l’«onnipresenza» divina) sia ai cabbalisti medievali, che la esprimevano nel SIMBOLO dell’«unico Nome di Dio» dal quale deriverebbero, attraverso innumerevoli scomposizioni e combinazione di lettere, tutte le parole della Torah e tutti i mondi che in essa sono descritti o rivelati. E non allude a ciò anche la nostra parola «universo», che letteralmente significa «ciò che si volge (versus) a un unico punto (unum)»?

Per Dante quell’uno è «l’amor che move il sole e l’altre stelle», un simbolo anch’esso, in cui confluiscono al contempo il sentimento d’amore, la teoria dell’emanazione da Dio di tutto il creato, e ciò che qualche secolo dopo divenne la forza di gravità: quel «primo amore delle sustanze» è appunto uno e tutto, e si arriva a scorgerlo in ciò che Dante descrive come il punto più alto della nostra IMMAGINAZIONE, in cima al Paradiso:

Nel suo profondo vidi che s'interna,

legato con amore in un volume,

ciò che per l'universo si squaderna.

Paradiso XXXIII,85-87.

Nell’ALBERO DELLA VITA, l’immagine dell’uno-infinito da cui tutto proviene e a cui tutto si volge è al tempo stesso evidentissima e solitamente inosservata: ed è il bianco della pagina su cui lo schema dell’Albero viene tracciato. La porta d’ingresso di quell’uno-infinito nella dimensione dell’Albero si trova nella Sephirah più alta, Kether, che è quella della volontà: e proprio nell’atto del volere (di poco diverso dall’«amore» dantesco) possiamo anche noi cogliere un’intuizione di quell’unità di tutto, anche nella nostra vita quotidiana.

Quando infatti abbiamo il coraggio di accorgerci di un nostro desiderio autentico, e vediamo come esso stia cominciando a realizzarsi, notiamo anche che già da tempo quella realizzazione si andava preparando, coinvolgendo molte persone e circostanze a noi estranee, e delle quali nulla potevamo sapere prima: e avvertiamo tra noi e quelle persone e circostanze un legame di cui la nostra razionalità non riesce a rendere conto. Il sentimento, sì, può riuscirci – e in ciò sta il senso più profondo della legge evangelica: «Tu ami (e odi) il prossimo così come ami (e odi) te stesso», cioè: è attraverso i tuoi sentimenti, e non attraverso il tuo pensiero, che puoi cogliere ciò che è uno in te e negli altri. Compito del pensiero è semmai trarre deduzioni e conseguenze da quel che il sentimento ha colto in tal modo: e cioè individuare uno dopo l’altro i propri limiti rispetto a quell’uno (per es., il nostro pensare agli ALTRI come se non fossero tutt’uno con noi) e superarli. E il superamento conduce il pensiero sempre più verso quell’uno che è uno in ognuno di noi: quel punto che, dentro di noi, vede e non viene visto, intuisce ma non è mai intuito, e agisce sempre, in tutto, e sceglie e crea per noi ogni cosa. Lì è l’origine e la soluzione di tutti i misteri.