TEMPO, vedi ETERNITÀ.
TESTI SACRI. Riguardo alle Sacre Scritture dice bene Paolo di Tarso: «Propter nos scripta sunt», cioè «Sono state scritte per noi» (Prima lettera ai Corinti 9,10). Non vi è infatti miglior modo di leggerle, se non domandandosi a ogni passo «E io che c’entro?» e cercando pazientemente e coraggiosamente la risposta.
Tale è il carattere fondamentale di questo genere letterario: si dicono Sacri i libri in cui gli autori sono appunto riusciti a fissare in parole (così come in fotografia si fissano immagini sulla carta) contenuti dotati di un particolare potere, chiamato sacrum dai latini, che agisce soltanto se le parole di quei libri sono in grado di destare e sviluppare nel lettore certe speciali facoltà d’intuizione e di scoperta della realtà – che io chiamo ACCORGERSI. Quando un libro ritenuto sacro non è più in grado di destare tali facoltà, possono essere avvenute due cose: o i lettori si sono evoluti al punto di non aver più bisogno che qualcuno sviluppi il loro accorgersi nei modi in cui lo sviluppava quel libro; oppure si sono involuti talmente, da non saper più reagire agli stimoli che quel libro dà loro. Il primo caso è raro; il secondo, invece, è assai frequente.
Nell’antichità questo genere letterario era ben noto: gli egizi ne furono i primi maestri, nel bacino mediterraneo; a loro seguirono i greci, con la mitologia; gli ebrei impararono egregiamente dagli uni, prima, e dagli altri, poi.
Una considerevole novità apportata dagli ebrei e più ancora dai cristiani, nei riguardi di questo genere letterario, fu la tendenza a trattarlo in modo diametralmente opposto a quello in cui si trattano di solito le opere d’arte: invece di esporre all’ammirazione generale i libri sacri più belli, ebrei e cristiani cominciarono a nasconderli, a schermarli – perché ciò che vi era in quei libri corrispondeva sempre meno, con il passare del tempo, alle religioni che su di essi dicevano di fondarsi. Talvolta, l’occultamento dei Testi sacri mirava a proteggere i Testi stessi, in attesa di tempi migliori; assai più spesso, si voleva invece proteggere la religione vigente da scomodissime critiche basate su quei Testi. A tale tendenza, già netta nel II secolo d.C., si riferiscono vari passi dei Vangeli, come per esempio:
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il Regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate che vi entrino quelli che vogliono entrare!
Matteo 23,13
All’epoca in cui vennero scritte queste parole, i farisei non esistevano più da un pezzo, e l’invettiva si riferisce chiaramente a tutte le autorità religiose cristiane che allora e anche in seguito si comportarono così. Non per nulla, quattordici secoli dopo, quando Lutero tradusse la Bibbia in una lingua accessibile a tutti i suoi connazionali, venne immediatamente scomunicato, e ne seguirono furiose guerre di religione; non per nulla, meno di due secoli fa, tra i libri «all’indice» - cioè sconsigliati dalla Chiesa – vi era ancora la Bibbia. E che avverrebbe, ancor oggi, se fosse incoraggiata la lettura dei Vangeli stessi, in cui compaiono frasi come «Quando pregate non fate come gli ipocriti, che amano pregare nei templi e sulle piazze» (Matteo 6,5)?
Certo, oggi i Testi Sacri di tutte le religioni sono facilmente reperibili in edizioni economiche, ma ciò è potuto avvenire proprio perché – dopo sedici secoli di schermature, di divieti di divulgazione, di persecuzioni di interpreti ecc. – si è ottenuta proprio quell’involuzione del pubblico, che lo rende insensibile alle parole dotate di sacrum. Tale insensibilità è evidente appunto nel fatto che chi prova a sfogliare Bibbia e Vangeli abbia la netta impressione che san Paolo si fosse sbagliato: che ben poco di quel si legge lì ci riguardi personalmente, e quasi tutto si riferisca invece ad altre persone vissute in epoche lontane.
Perciò può avvenire che un simbolo magnifico come quello di Maria di Nazareth, bambina incinta, diventi oggetto di un culto idolatrico, e che non se ne colga il significato. Se invece, leggendo l’annunciazione nel Vangelo di Luca, ci si domandasse «E io che c’entro?» sarebbe semplice accorgersi che Maria è il lettore stesso: e che, entrando in un Testo Sacro, convenga essere immensi e aperti come bambini (e non ottusi e presuntuosi come gli adulti), perché soltanto in tal modo se ne rimane incinti – soltanto in tal modo, cioè, viene concepita e comincia a crescere nel lettore una vita diversa, che è quella di un Figlio di Dio – quella di un io in grado, cioè, di accorgersi di quel che leggerà nel Testo.
TRAGITTO. La connessione tra Aldiquà e Aldilà viene chiamata in antropologia break-through-in-plane, cioè «varco da aprirsi tra i piani», e per «piani» si intendono sia i livelli della coscienza, sia le dimensioni dell’esistenza.
Molti di questi break-throughs sono documentati e studiati fin dall’antichità: dalle salite di Mosè sul Sinai, o di Gesù sul monte Tabor, alle discese agli Inferi di Odisseo, di Orfeo, di Enea; dalle ascese in cielo di Paolo o Maometto, al cammino di Dante lungo i rilievi della «selva oscura». Ne sono monumenti i cunicoli inclinati delle Piramidi, i dromoi («corridoi») dei templi greci e i labirinti raffigurati sul pavimento delle cattedrali gotiche. La forma del breakthrough è sempre quella di un tragitto ascendente o discendente, che l’ATTENZIONE dell’io riesce a percorrere senza disintegrarsi, con o senza l’aiuto di esseri spirituali (Angeli, animali-guida, Spiriti-guida ecc.); e le somiglianze tra i vari tragitti sono tali, che si potrebbe tranquillamente parlare di un ARCHETIPO che li accumuni, o di una geografia psichica, di cui tutti quei profeti, eroi, mistici, iniziati, sciamani dovettero diventare esperti, per «varcare i piani».
Non sapevo gran che di queste cose, quando nel marzo del 1986 mi venne fatto scoprire il mio personale tragitto verso l’Aldilà. Un’amica mi aveva quasi obbligato a seguire un seminario di Psicodinamica, e lì gli istruttori mi fecero immaginare situazioni e paesaggi, attraverso i quali «giunsi» nel cosiddetto Laboratorio interiore (un termine evidententemente preso dall’alchimia medievale, che aveva anch’essa i suoi break-throughs): lì avrei dovuto incontrare quelli che la Psicodinamica chiama Assistenti, e che sono un tipo molto servizievole di Spiriti guida; invece, in quel Laboratorio della mia mente mi venne incontro una figura femminile, dai lunghi capelli neri, maestosa e molto seria: «Fin qui ti ho portato» mi disse, «adesso devi darti da fare un po’ anche tu» e se ne andò. Subito dopo mi si avvicinarono due figure chiare: «Noi» dissero, «non siamo di questo seminario; ma è molto utile, seguilo pure con attenzione: ci rivedremo dopo, a casa, e lì ti spiegheremo» e scomparvero anche loro. Durante queste due brevi conversazioni avevo continuato, senza quasi accorgermene, a ridere piano tra me e me – con notevole disappunto degli istruttori del corso, a cui cercai poi invano di spiegare che non ridevo del loro lavoro. Al contrario, sia allora sia in seguito il tragitto di guided imagery della Psicodinamica mi è sempre sembrato ottimo, direi classico addirittura. E i miei due MAESTRI – nei giorni e negli anni seguenti – non hanno fatto altro che precisarlo ed estenderlo, spiegandomene i dettagli ogni volta che lo domandavo. Attualmente il mio tragitto consiste dei seguenti passaggi:
– la chiusura degli occhi, che rappresenta la decisione di cominciare a percepire attraverso l’IMMAGINAZIONE invece che attraverso i cinque sensi ordinari (e da qui in avanti tutto viene infatti immaginato);
– una carezza sulle palpebre, che rappresenta la presa di coscienza dei LIMITI dell’io piccolo, e il congedo da essi;
– i sette colori dell’arcobaleno, che rappresentano il mettere ordine nel proprio mondo interiore (v. FREQUENZE) e, al contempo, il distacco dall’immagine che diamo solitamente di noi nel mondo (come un togliersi il trucco e gli abiti);
– un tratto di strada lungo cui camminare di buon passo, il che rappresenta l’incominciare a muoversi in una dimensione diversa da quella del livello di coscienza consueto;
– una cornice da costruire e da superare, che rappresenta l’uscita dai limiti che ci pone il nostro TU, cioè la nostra consueta immagine di noi stessi (come i limiti della cornice d’un ritratto);
– un pendio, che rappresenta la percezione di una forza d’inerzia che (una volta usciti dalla cornice) conduce l’attenzione verso altre dimensioni più vaste;
– un tratto di mare da attraversare su una barca non guidata dall’io piccolo, e ciò rappresenta l’accorgersi di una forza propulsiva che conduce avanti;
– un’altra riva a cui si giunge, e che rappresenta il raggiungimento di un primo lembo di terreno solido nell’Aldilà;
– una caverna, che rappresenta tutto ciò che comunemente può associarsi, nella fantasia, all’idea di una caverna;
– una scala a due rampe che finalmente conduce nella STAN-ZA TONDA, prima vera e propria stazione d’arrivo nell’Aldilà.
Tutto quanto il tragitto non richiede più d’un paio di minuti.
Solo da una decina d’anni ho capito alcune cose fondamentali sia riguardo al mio tragitto, sia riguardo a tutti i break-throughs in plane di cui si abbia documentazione: – l’estensione psichica lungo la quale si snodano tutti i breakthroughs in plane corrisponde alle aree che nella Mappa di p. 11 sono indicate come «TU» e «GLI ALTRI».
– La distanza che riusciamo a immaginare tra il nostro livello di coscienza ordinario e l’Aldilà non è mai casuale: esprime bensì una determinata differenza di potenziale psichico, che rende disponibile una certa quantità di ENERGIA; questa energia permette di incontrare e interpellare i propri MAESTRI, di compiere viaggi nell’Aldilà e di fare, là, una quantità d’altre cose interessanti, così come la corrente d’un circuito permette di accendere lampadine: più che un vero e proprio percorso in cui qualcosa resta indietro e si raggiunge qualcos’altro, il tragitto costituisce un circuito, ciascun punto del quale continua ad agire per tutta la durata della connessione con l’Aldilà – un po’ come in qualsiasi nostro comportamento, o decisione, o opera, continuano ad agire una determinata serie di nostre esperienze passate, strettamente connesse l’una all’altra, ed è l’insieme di tali esperienze a rendere possibile il tal comportamento, o decisione, o opera. Dunque, ciò che di noi «varca i piani» non è tanto quell’aspetto di noi, più o meno nitido, che la nostra immaginazione ci raffigura mentre percorre il tragitto (quell’aspetto di noi rappresenta piuttosto una serie di interruttori del circuito), quanto l’immaginazione stessa e l’attenzione con cui seguiamo il viaggio di quell’aspetto di noi.
– Così come un circuito elettrico può funzionare solo se è costituito da un filo d’una particolare lega di rame, allo stesso modo la connessione con l’Aldilà funziona perché è costituita, in ogni suo tratto, da SIMBOLI il più possibile semplici. Tutti i simboli, infatti, sono dei «conduttori» di energia spirituale, e come tali sono sempre stati usati dall’umanità: ma il loro potere di conduzione aumenta tanto più, quanto più essi assumono l’aspetto di cose consuete, e non di oggetti, situazioni o esseri fantastici, astrusi, o ieratici (che darebbero una sensazione d’irrealtà e di artificiosità). Perciò i simboli più forti sono stati, in ogni epoca, oggetti d’uso comune: il pane e il vino dell’ultima cena, il Graal, che è un calice ecc. E per la stessa ragione Mosé, nel suo primo incontro con Dio, deve compiere gesti del tutto consueti per rendere possibile la comunicazione (si toglie i sandali, sta fermo, si vela) e Dante indugia nella descrizione delle difficoltà, del tutto plausibili, della sua camminata nel bosco, per descrivere il modo in cui giunse fino al suo primo Spirito guida, Virgilio.
– Tutto il tragitto, e ogni tragitto verso l’Aldilà, sono certamente opera dell’immaginazione, ma ciò non significa che siano soltanto un prodotto della fantasia. L’immaginazione è una nostra facoltà creativa per ciò che riguarda il modo in cui presenta i suoi prodotti all’attenzione, e percettiva per ciò che riguarda il contenuto di quei suoi prodotti. Chi percorre un tragitto verso l’Aldilà ha dunque di continuo l’impressione di star costruendo tutto quanto nella sua mente, proprio così come un artista crea le proprie opere migliori, dapprima abbozzandole e poi precisandone i dettagli, fino a che non occorra più modificarne nulla; ma al tempo stesso si accorge sempre più che quel precisarle non è affatto arbitrario, che certi dettagli che potrebbe aggiungervi non c’entrano e portano in direzioni inutili – come se quell’impressione di star costruendo sfumasse nell’impressione di star invece constatando, scoprendo qualcosa. Walt Disney disse bene, a questo proposito:
If you can dream it, you can do it
cioè: «se riesci a immaginare una cosa con la nettezza di un sogno, vuol dire che la puoi ottenere»: ciò vale indubbiamente nell’Aldiquà (se non hai la forza di immaginare una cosa, non hai nemmeno la forza di farla) e ancor più nell’Aldilà, dove tra dreaming e doing non vi è più differenza alcuna (v. anche FARE).
TRAUMI, vedi RIVIVERE e CHAKRA.
TU. Con l’espressione «il nostro tu» indico quegli aspetti di noi stessi, che abbiamo plasmato e accuratamente rifinito allo scopo di mostrarli agli ALTRI – a coloro che, appunto, parlando con noi chiamano quegli aspetti «tu».
Per lo più, il nostro tu è ciò che in noi si è adeguato alle esigenze dell’epoca e del luogo in cui viviamo, in modo da ridurre al minimo eventuali attriti o conflitti; talvolta, è anche ciò che in noi si oppone alla nostra epoca, o a una parte dei nostri contemporanei (alla generazione precedente, per esempio, o alla successiva): ma anche in questo caso, il tu è il risultato non tanto di una nostra scelta autonoma, quanto piuttosto di un nostro modo di reagire a determinati condizionamenti che abbiamo subito. Se quei condizionamenti non vi fossero stati, o se li avessimo bellamente ignorati o superati, il nostro tu sarebbe stato cioè completamente diverso.
A causa di questa sua componente d’adeguamento o reazione, e dunque della sua fondamentale mancanza di libertà, il nostro tu è non soltanto inevitabilmente diverso dal nostro io, ma anche assai inferiore sia a ciò che sappiamo di essere, sia – in misura addirittura enorme – a ciò che non osiamo sapere di essere e di poter diventare.
Nella Mappa a p. 11 raffiguro il tu come una robusta muraglia eretta tutt’attorno all’io piccolo: il fatto che una muraglia sia fatta di mattoni mi è sembrato un tratto utile a rappresentare il lungo lavoro che la costruzione del tu richiede; e suppongo che per questo stesso motivo l’Esodo narri che gli ebrei in Egitto, simbolo anch’essi dell’esilio dell’io piccolo nel MONDO, si fossero specializzati proprio nella costruzione di mattoni (Esodo 1,14). La costruzione di una tale muraglia è la nostra CRESCITA nel mondo degli ADULTI.
Non che il tu, così inteso, costituisca in tutto e per tutto un elemento spiacevole dell’esistenza. Da un lato, esso ci permette anche di porre un limite all’influsso, alla pressione che gli altri esercitano su di noi – dato che tale influsso e pressione vengono esercitati sul tu e non direttamente sull’io piccolo. Dall’altro, il nostro tu dovrebbe aiutarci a distinguere che cosa, nella nostra vita, provenga dall’influsso altrui, e che cosa invece da ciò che vi è dentro di noi. Ma dico «dovrebbe», soltanto, poiché per poter esercitare questa funzione di discrimine, occorrerebbe che l’individuo fosse ben consapevole del proprio tu: a moltissime persone avviene invece di identificarsi totalmente con il loro tu – al punto che, anche quando sono da sole, non riescono a concepire nessun pensiero, idea, sentimento o sensazione che non provenga dal tu. Il loro io è divenuto per esse un Aldilà estraneo, ignoto e per lo più temibile. Per costoro nessuna ricerca spirituale è possibile, se non dopo una lunga ricerca del proprio io.
Quando ha inizio la ricerca spirituale propriamente detta, cioè la scoperta dei rapporti tra l’io piccolo e quello che io chiamo l’Io grande, il tu diventa un problema tanto complicato quanto entusiasmante: né il tu, infatti, né l’io piccolo che esso delimita si rivelano, ben presto, in grado di albergare i contenuti delle scoperte compiute nell’Aldilà. Sono gli «otri vecchi» di cui parla il Vangelo, e il «vino nuovo» non può non spaccarli (Luca 5,37-38).
Per potere contenere ciò che scopre via via nell’Aldilà, l’individuo deve abbattere la muraglia del tu: deve cioè cambiare comportamenti, eliminare abitudini, smantellare certezze e divieti, smettere di rassegnarsi a ciò a cui si rassegnava prima, entrare – inesorabilmente – in conflitto con una serie sempre più numerosa di condizionamenti subìti, e con coloro che, nella sua esistenza, sono divenuti le personificazioni di quei condizionamenti. Tale opera di smantellamento della muraglia e di ampliamento dell’io è sempre faticosa – sempre meno, comunque, di quanto lo era stata la costruzione della muraglia stessa. Solo da tale smantellamento e ampliamento dipende la possibilità di interpretare nell’Aldiquà le scoperte compiute nei mondi invisibili, e di mettere in pratica tutto ciò che in esse conduce al miglioramento della nostra esistenza.