SAPIENZA. Con questa parola indico la scoperta dell’Aldilà, inteso come dimensione psichica di cui non conosciamo i confini.
Non ho trovato, nelle lingue attuali, un termine migliore. Psicologia, teologia, mitologia non fanno al caso, benché i temi di queste tre discipline siano gli stessi di quella che chiamo sapienza. La sapienza infatti non è una -logìa: il suo scopo non è quello di imporre un ordine razionale, logico, ai fatti che osserva e alle conoscenze di cui dispone. Sapienza, nel senso stretto della parola, è bensì il sapere cosa significhi ciò che si è arrivati a conoscere – e la RAZIONALITÀ non è che uno dei tanti modi di conoscere, e non certo il migliore. Ha troppo bisogno, la razionalità, del consenso dei MOLTI, e di coerenza, e di limitazioni (per esistere deve infatti escludere l’irrazionale); la sapienza, al contrario, non valuta i propri risultati in base al fatto che i molti l’approvino o meno, né dovrebbe porsi limiti in alcuna direzione, se non per trovare il modo di superarli.
Un termine che le si avvicina molto è, quanto a questo, l’antica Gnosis, la «Conoscenza» cioè: così era chiamato un insieme di dottrine esoteriche che tra il II secolo a.C. e il IV d.C. fiorirono in tutta l’area del Mediterraneo centro-orientale, riunendo in sé elementi egizi, ebraici, greci, persiani e, molto probabilmente, anche induisti e buddisti. La Gnosi diede forma a diverse correnti cristiane (fin dal I secolo ebbe come sua figura emblematica la Maddalena, e tra i testi gnostici si può certamente annoverare il Vangelo di Giovanni), venne duramente perseguitata e alla fine dispersa dalla cosiddetta «Grande Chiesa», o cristianesimo romano. Molto di ciò che si legge nei Testi Gnostici è utile e addirittura indispensabile alla sapienza come la intendo io, ma dirsi «gnostici» al giorno d’oggi sarebbe un goffo arcaismo, oltre che una superflua provocazione nei riguardi del cristianesimo ecclesiastico.
Per la stessa ragione decido di non usare, invece di sapienza, il termine eresia, che pure potrebbe servire da sinonimo: deriva infatti dal greco hàiresis, «libertà di scelta», e una sapienza non può essere che libera per definizione. Ma eresia sa di rogo, e questo non rientra nelle mie intenzioni.
Quanto al termine filosofia, è decisamente troppo vago, e anche un po’ pleonastico: significa infatti, letteralmente, «il bisogno di sapienza» – e che la sapienza sia un bisogno per l’uomo è già ovvio di per sé, senza che una parola d’origine greca si incarichi di precisarlo. Noto inoltre in filosofia un’ombra di pessimismo, come lo noterei in chi dicesse non che ama, ma che «ha bisogno di amare», e in tal modo ponesse lui stesso tra sé e l’amore un senso di dolorosa privazione.
Meglio dunque sapienza, semplicemente.
Questa sapienza dell’Aldilà – e dell’Aldiquà considerato dal punto di vista dell’Aldilà – è oggi apprezzata e cercata da molte più persone di quanto non avvenisse una trentina d’anni fa. Non tutti, naturalmente, la cercano o la praticano allo stesso modo: di sapienze contemporanee, per ora, ne ho distinte tre, accomunate fra loro dai termini che usano più spesso (Aldilà, io, anima, felicità ecc.) ma non dal senso in cui li intendono. Di queste tre, le prime due mantengono – proprio come la razionalità – alcuni limiti operativi, la terza no; e sono le seguenti:
– La sapienza di carattere consolatorio: è la più innocua; si propone di descrivere livelli di realtà separati dalla nostra vita quotidiana, nei quali tutto sia più bello o comunque più interesè sante che in quest’ultima. Rientrano in questa sapienza consolatoria certi modi «facili» di intendere la reincarnazione («in un’altra vita ero una zarina!») o la vita dopo la morte, e certe angelologie in cui gli Angeli fungono da premurosi e beneducati aiutanti degli uomini. Il principale problema di questa sapienza è il CONCRETISMO, che inevitabilmente la conduce a questioni a cui non sa come rispondere, non appena si prova a connettere il suo idilliaco Aldilà con l’Aldiquà (per esempio: «Se gli Angeli aiutano gli uomini, perché c’è stata Auschwitz?»). Il suo limite consiste dunque nello sforzo di ignorare queste questioni – che, d’altra parte, sono fondamentali.
– Un po’ più emozionante è la sapienza utilitaristica: quella cioè che mira a scovare nei mondi invisibili maniere di guadagnare di più, di migliorare il proprio grado di adattamento psicofisico all’ambiente attuale, o di realizzare vecchi desideri, quali l’individuazione dell’anima gemella (karmica o meno) e altre cose del genere. Anche in questa, il principale problema dato dal rapporto con l’Aldiquà, e precisamente con le norme e strutture vigenti nel MONDO: la sapienza utilitaristica, di solito, non le mette in discussione, e intende bensì servirsene per fini personali del singolo. Ciò va benissimo, per il lato pratico; ma pone all’orizzonte di questo secondo tipo di sapienza una lunga serie di limiti, sottoforma di off limits, di tabù e di totem. È un po’ come se un seguace di Gesù, nel suo insegnamento, avesse deciso di praticare la sapienza in tutto, meno che su argomenti come denaro, residenza, carriera, auto, moda, potere, tecnologia d’avanguardia ecc.
– infine, vi è la sapienza di carattere più propriamente eretico: ed è quella che non pone né tabù né totem da nessuna parte. Ricorda anzi la fenomenologia, nel suo voler riscoprire (e talvolta scoprire, anche) non soltanto il senso autentico dei concetti usati da filosofi, teologi, scienziati, psicologi, ma anche ciò che per le più varie ragioni quei concetti non riescono a cogliere nelle cose che vogliono indicare. Tutto ciò che è scienza – della materia o dello spirito – diviene per questa sapienza una «ipotesi di lavoro» suscettibile di ulteriore, amplissima evoluzione. È un po’ l’atteggiamento che Gesù incoraggia, quando dice:
(…) se il vostro bisogno di giustizia non supererà quello degli scribi e dei farisei, non enterete nel Regno dei cieli.
Matteo 5,20
Scopo di questo terzo tipo di sapienza è appunto entrare nel «Regno» – nell’Aldilà, cioè – e ampliarne talmente gli ingressi, da trasformare in una sua soglia ogni punto del MONDO, oltre che ogni risultato delle varie -logìe e filosofie. Ciò è d’altronde meno complicato di quel che si potrebbe credere: è sufficiente esplorare ciò che quelle -logìe e filosofie hanno ignorato – soprattutto i Testi sacri, i miti antichi – e toglierne la polvere, come da una lampada di Aladino.
SCELTE. Uno degli scopi principali della SAPIENZA è trovare un punto di vista che permetta non solo di compiere le proprie scelte di vita in modo più saggio e coraggioso, ma anche di essere liberi rispetto alle proprie scelte – sia quelle compiute in passato, sia anche quelle che si stanno compiendo ora.
Ciò avviene quando si impara ad accorgersi che «scelte sbagliate» e «scelte giuste» non sono, rispettivamente, sinonimi di «scelte cattive» e «scelte buone». Qualsiasi scelta può rivelarsi ottima, se è seguita da un’altra scelta che la renda tale. La saggezza, il coraggio consistono appunto nel sapere che, se compi una scelta giusta, ti si aprono una gran quantità di strade lungo le quali fare esperienze utili, utilissime oppure del tutto inutili; mentre, se compi una scelta sbagliata, ti si aprono altrettante strade, lungo le quali fare un ugual numero di esperienze utili, utilissime, o del tutto inutili.
Inoltre, quanto più si frequenta l’Aldilà, tanto più ci si accorge che, spesso, quelle che sembrano essere le scelte più giuste da ogni punto di vista momentaneamente noto sono invece molto meno produttive di quelle che, in un dato momento, ci sembrano evidentemente sbagliate. Quando, per esempio, si domanda ai propri MAESTRI: «Riuscirò a far bene quella tal cosa?», è facile notare che, se rispondono affermativamente, hanno un’aria insoddisfatta, mentre se rispondono negativamente sono gioiosi. E quando se ne domanda loro la ragione, dicono: «Se una cosa che ti sei proposto di fare ti riuscirà bene, significa che quella tal cosa rientra pienamente nelle tue possibilità attuali, e che dunque non ti richiede nessuna crescita, nessuna nuova scoperta. Se invece ti accorgi di non essere in grado, adesso, di fare una cosa alla quale hai pensato e che desideri, significa che puoi cambiare e crescere fino al punto di riuscire a farla: e perciò proprio questa, che sembrerebbe ora inopportuna, è invece la migliore meta alla quale puntare».
SCRIVERE. L’atto di scrivere è, secondo la mia esperienza, indispensabile nelle conversazioni con i MAESTRI. Gli Spiriti guida non possono comunicare, infatti, né attraverso voci che ci sembri di udire, e nemmeno attraverso i nostri pensieri, poiché sia le eventuali voci allucinatorie sia qualsiasi nostro pensiero devono, per non scomparire immediatamente, venir afferrati e conservati nella nostra MEMORIA, che è un contenitore tutt’altro che affidabile: troppe censure più o meno inconsapevoli agiscono sempre in essa, troppe aspettative, ansie, certezze e incertezze, dimodochè se anche vi fosse in una nostra voce interiore o nostro pensiero qualcosa che provenga dai Maestri, nell’arco di pochi secondi verrebbe inevitabilmente manipolato e stravolto.
I Maestri comunicano bensì attraverso il tuo scrivere le domande che poni loro e le loro risposte, a condizione che tu scopra queste ultime via via che le scrivi, parola dopo parola, e non prima di muovere la penna sulla carta. Anche Dante sembra esser stato dello stesso parere, se dice che
(…) a sé torce tutta la mia cura
quella matera ond’io son fatto scriba (…)
Paradiso X,26-27
cioè che della «matera», degli argomenti dell’invisibile l’io può divenire non depositario (come sarebbe se la sua memoria servisse alla comunicazione con l’Aldilà) ma appunto scriba, che nello scrivere (e non nel voler ricordare) concentra («torce») tutta la sua attenzione («cura»). Così pure Maometto si sforzava di ripetere (qur’an, in arabo, da cui «Corano») le rivelazioni celesti mentre le riceveva, perché i suoi discepoli le trascrivessero immediatamente, prima cioè che la memoria di Maometto stesso potesse alterarle. E nell’antico Egitto, la fondamentale importanza dell’atto di scrivere come mezzo di comunicazione con l’Aldilà era espressa in Thot, Dio della scrittura e appunto perciò intermediario tra il divino e gli uomini.
Anche la neurologia concorda: l’atto di scrivere favorisce, attraverso la stimolazione delle terminazioni nervose dell’indice e del pollice, quel particolare equilibrio tra i due emisferi cerebrali, che occorre per utilizzare funzioni superiori della coscienza: non per nulla, dall’azione di quelle due dita dipendono tante arti, e il tiro con l’arco; e anche il cosiddetto «mudra della preghiera» (cioè, di nuovo della comunicazione con il divino) è una posizione dell’indice e del pollice congiunti come a reggere una penna. Solo grazie a quel particolare equilibrio tra i due emisferi si colgono appunto i discorsi dei Maestri, che divengono irraggiungibili quando quell’equilibrio cessa. E quanto più, durante le conversazioni nell’Aldilà, l’io «torce tutta sua cura» nel prendere nota, tanto più emozionante sarà poi il rileggere quel che avrà scritto: avrà davanti agli occhi frasi di suo pugno, che contengono intuizioni e ragionamenti di cui non sarebbe mai stato capace. (Riguardo alla giusta calibrazione della «cura», si vedano anche le voci CONFERME e FREQUENZE).
SCRITTURE, vedi TESTI SACRI e VERSIONI CONSUETE.
SÉ. Con questo termine, oggi molto usato, Jung indicava prudentemente un postulato (cioè un’ipotesi non dimostrabile): la possibilità che tutti i fenomeni consci e inconsci della psiche formino un intero, e che tale intero si manifesti in determinati simboli e archetipi, sia nei sogni, sia nelle religioni, nelle arti ecc. senza che nessuno di tali simboli e archetipi, e nessuna descrizione psicologica arrivi mai a cogliere l’intero stesso, a circoscrivere il Sé, poiché esso è di troppo più grande dell’io.
Tale ipotesi è bella e utile, a mio parere, soprattutto perché allontana la psicologia dalla scienza come la si intende di solito in Occidente, e la avvicina all’autentica ricerca spirituale: il compito che solitamente si pone la scienza occidentale è quello di scoprire l’ignoto a partire dal noto, dal già CAPITO; compito dell’autentica ricerca spirituale è invece quello di interpretare il noto dal punto di vista di un Aldilà che l’io cosciente non capisce, e può solo immaginare. E sono certo che se Jung avesse preso più sul serio quel suo postulato, sarebbe giunto a risolvere appunto in termini spirituali il principale problema della psicologia: cioè la mancanza di una leva di Archimede, di una dimensione esterna all’io, dalla quale considerare sia l’io sia il mondo come l’io lo può intendere. Sarebbe bastato riconoscere che:
– se il nostro io può immaginare quel cosiddetto «Sé» come una realtà che va ben al di là dei suoi confini, vuol dire che in qualche modo siamo già giunti oltre quei confini;
– e se vi siamo giunti, possiamo tornarvi, trascendendo l’io, come evidentemente hanno fatto tutti coloro che di quel cosiddetto «Sé» hanno colto simboli e archetipi;
– e se possiamo tornarvi, possiamo anche osservare l’io stesso dal di fuori, dal punto di vista del cosiddetto «Sé», utilizzando strumenti più ampi e più veloci della razionalità, alla quale l’io è vincolato.
Ma per far ciò, Jung avrebbe dovuto innanzitutto trovare un altro termine, per quel suo postulato: «Sé» è infatti troppo riflessivo, e induce irresistibilmente a figurarsi quell’incircoscrivibile come un rapporto dell’io con sé medesimo, come un suo ripiegarsi appunto su sé stesso – cosa che evidentemente non ha nulla a che fare con quella totalità dei fenomeni consci e inconsci della psiche, che il «Sé» dovrebbe indicare.
In secondo luogo, Jung e gli junghiani parlano del Sé al singolare, come se fosse uno solo. Perché mai? Penso sia proprio per effetto di quel termine tanto riflessivo: gli psicologi credono infatti che anche l’io sia uno – e tale sembrò giusto che fosse anche il suo Sé. E se invece il Sé fosse plurale o senza numero (come gli Dei di tutte le principali religioni, ad eccezione dell’Islamismo)? Evidentemente, ciò che a Jung premeva più di tutto, era proprio di non distanziarsi troppo da quel che la psicologia del suo tempo sapeva dell’io: quasi che l’idea di quel «Sé» l’avesse intimorito e, subito dopo averla formulata, si fosse affrettato a porvi la dicitura Hic sunt leones – come gli antichi geografi la ponevano sui territori inesplorati – senza volervisi avventurare. E quella dicitura è rimasta, nella psicologia junghiana: dal postulato del «Sé» si sono tratte, nell’ultimo mezzo secolo, soltanto altre ipotesi indimostrabili e vaghe, quasi jolly da giocare ogni volta che nell’analisi di sogni, miti od opere d’arte si profilavano problemi insolubili – con la differenza che il jolly, in certi giochi di carte, può voler dire tutto, dato che gli si può attribuire qualsiasi valore, mentre il cosiddetto «Sé», a forza di adoperarlo, ha finito per non valere pressochè niente.
Per tutte queste ragioni, nella mia psicologia preferisco usare, invece di «Sé», il termine «Aldilà», che è certamente più compromettente, ma che, trattandosi di un termine spaziotemporale, non corre il rischio di venir inteso come una terza persona singolare. A differenza del «Sé», inoltre, «Aldilà» è un concetto relativo (così come relativi gli uni agli altri penso siano tutti i fenomeni della psiche, noti e ignoti): l’Aldilà è infatti Aldilà soltanto nella misura in cui vi è un Aldiquà, e i due termini non valgono mai di per se stessi, ma ricevono il loro pieno significato solamente l’uno dall’altro. In tal modo essi risultano entrambi inesauribili, per ragioni non postulate bensì evidenti, poiché qualunque settore dell’Aldilà io riesca a esplorare diverrà per ciò stesso un elemento del mio Aldiquà, rispetto al quale vi sarà sempre un Aldilà ulteriore – senza che ciò mi impedisca di osservare qualsiasi settore del mio Aldiquà dal punto di vista di ciò che scopro superandolo.
Si hanno in tal modo diversi gradi di Aldilà, e diversi io: ciascuno di questi ultimi diviene un «sé» (con l’iniziale minuscola) di ciò che in lui stesso l’ha trasceso – e si tratterà di un «sé» tutt’altro che misterioso o incircoscrivibile, mentre misterioso e incircoscrivibile davvero rimane sempre il territorio di me, via via sempre più ampio, che compie queste scoperte e questi superamenti. Così le dita diverrebbero il «sé» della mano, e la mano diverrebbe il «sé» del braccio, e il braccio diviene il «sé» del torace, per chi stesse scoprendo la struttura del corpo umano. A questa ricerca psicologica «trascendentale» lavoro con grande gioia e, mi pare, con qualche risultato, da alcuni anni; in particolare si vedano, al riguardo, le voci FUNZIONI DELL’IO, IO ed EVOLUZIONE.
Posso in tal modo ipotizzare che a me sembri che il mio io sia uno solamente perché nel mio Aldiquà esso mi appare così, mentre se lo vedessi dall’esterno mi apparirebbe multiplo, plurale: dopodiché potrei verificare se l’immagine di un mio io plurale mi permetta di scoprire e interpretare più aspetti della mia vita, di quanti non si riesca a coglierne in base alla mia idea di un io unico. Una volta stabilito che così è davvero, posso benissimo immaginare che ciò che accumuna tutti i miei io sia un soggetto trascendente – come appunto il Sé di cui parla Jung – ma senza escludere che anche tale soggetto sia a sua volta plurale (costituito, per esempio, da un «Padre», da un «Figlio» e da uno «Spirito santo»). E di questo soggetto trascendente il mio io cosciente, plurale, diverrebbe davvero il «sé» (con l’iniziale minuscola), cioè qualcosa che il soggetto trascendente possa avvertire come un aspetto di sé stesso. Al contempo, mi accorgerei che sia quel mio io minuscolo, sia quel suo soggetto superiore mi appaiono tali soltanto l’uno rispetto all’altro, e solo perché io li sto immaginando come diversi l’uno dall’altro; potrei invece, da un Aldilà ancor più alto, vedere il loro rapporto come quello che vi è tra la mano e l’intero corpo, o magari tra l’occhio e la psiche… e tutto ciò ci porta ben più lontano dell’idea junghiana del Sé, nell’esplorazione di quella stanza per noi buia che è la nostra anima infinita (e, secondo me, anche innumerabile).
SENSAZIONE, vedi FUNZIONI e PERCEZIONE.
SENTIMENTO, vedi FUNZIONI e PERCEZIONE.
SENTITO DIRE. Molte persone non «pensano con la loro testa», né desiderano con il loro cuore: credono, invece, di dover pensare e desiderare quel che gli ALTRI intorno a loro dicono di pensare e di desiderare. In tal modo, la facoltà che in queste persone finisce per svilupparsi maggiormente (e a danno di tutte le altre facoltà) è la MEMORIA: appunto perché occorre tenere ben presente quel che si è sentito dire dalla maggioranza, se non si vuol correre il rischio di pensare e desiderare qualcos’altro.
Si sa, d’altronde, che la memoria è la principale facoltà dei bugiardi, dato che quando uno dice la verità, non ha bisogno di ricordarsi quel che dice: ed è infatti impossibile adeguarsi più di tanto agli altri (cioè convincersi di star pensando come loro) senza mentire a se stessi (senza fingere cioè di non pensare in modo diverso da loro). Questa memoria-menzogna è purtroppo ciò che dà forma, il più delle volte, ai recipienti del nostro CAPIRE, con la conseguenza che falso, e basato in ultima analisi sul sentito dire, è anche ciò che riusciamo a capire di noi stessi e del mondo.
Se ciò è deprimente nel mondo quotidiano, ancor di più lo diviene quando ci volgiamo verso l’Aldilà: lì, fidarsi del sentito dire soffoca qualsiasi possibilità di reale scoperta e di evoluzione. Basti pensare a come ciò che si è sentito dire sulle Scritture abbia escluso la maggioranza dei credenti da ciò che le Scritture veramente dicono: solo il sentito dire ha reso possibili controsensi assoluti come le guerre di religione, i massacri e roghi «in nome di Dio» e via dicendo. Per guarire e difendersi dagli effetti del sentito dire, conosco un solo mezzo efficace: pensare e chiedere «Perché?» ad ogni occasione opportuna (e sono moltissime ogni giorno), proprio come fanno i bambini, e come gli ADULTI smettono generalmente di fare.
SIMBOLO. Questa parola viene udita spesso, perché è stata molto importante nella storia dell’umanità; ma pochi sanno cosa significhi precisamente: alcuni la usano per indicare un segno distintivo (per es.: «la croce è il simbolo dei cristiani»), altri per indicare un’allegoria («la Dea bendata è il simbolo della giustizia»), o un emblema («la colomba è il simbolo della pace») – e nessuna di queste accezioni permette di cogliere l’importanza e i benefici dei simboli, di capire perché i templi e i Testi sacri di ogni religione ne siano pieni.
In realtà, simbolo è un qualsiasi oggetto, situazione o essere vivente, la cui immagine sia ben chiara nel MONDO, ma il cui significato non si possa cogliere pienamente, se non nell’Aldilà; in tal senso, il termine originario greco, symbolon – che letteralmente significa «lo sforzo necessario a connettersi (sym-)» – è il contrario di diabolos, cioè di «colui che si sforza di separare (dia-)», di impedire le connessioni tra l’io e le sfere superiori dell’Aldilà.
Proprio per contrastare l’azione di ogni sorta di diaboloi, tutte le tradizioni religiose hanno fabbricato simboli particolarmente evidenti, e per così dire “facilitati”: immagini appositamente enigmatiche, incongrue (per esempio, gli Angeli raffigurati come strani ibridi tra l’uomo e varie specie d’uccelli; Maria vergine eppure incinta; l’Arca di Noè che contiene coppie di tutti gli animali del mondo ecc.) dinanzi alle quali la gente imparasse a domandarsi «Ma che cosa significano queste cose, e perché son fatte così?» e a cercare le risposte in una dimensione spirituale. Lo scopo era, naturalmente, che la gente cercasse e trovasse proprio quest’ultima, e lì poi si accorgesse di poter conoscere, insieme a quelle risposte, anche tante altre cose.
Purtroppo, ciò che più d’ogni altra cosa intralcia tale desiderio di conoscenza (e permette ai diaboloi di prevalere) è la fede così come viene intesa dalla parte più ottusa del clero di ogni religione: cioè il non percepire, nei simboli, enigmi da risolvere, ma il credere che le loro immagini bastino a se stesse – e che dunque gli Angeli siano davvero così alati, e il concepimento di Gesù sia stata davvero un’eccezione genetica, e l’Arca di Noè fosse davvero gigantesca. Quando li si intende così, i simboli tradizionali hanno un effetto dannoso: indeboliscono le menti, disinformandole, a esclusivo vantaggio di chi su quelle menti vuole imporre il proprio potere. Se infatti le mie conoscenze escludono che possa esservi ibridazione tra l’uomo e i volatili, o che una vergine possa essere incinta, o che un natante di legno possa navigare con a bordo milioni di animali, posso credere in queste cose, cioè costringermi a ritenerle vere, solo a condizione di ritenere infondate le mie conoscenze, e dunque sbagliato il mio modo di conoscere. Allora potranno avvenire due cose:
– o esiterò a pormi domande non soltanto sui simboli, ma anche su ciò che mi circonda e su me stesso (tanto a che servirebbe, se il mio modo di conoscere è sbagliato?) e, per timore che qualcuno mi imbrogli (è facile, infatti, che succeda, se non ho fiducia in me stesso) mi aggrapperò a qualche autorità spirituale che molti ALTRI onorano;
– oppure mi rifiuterò di credere ai simboli religiosi, e facilmente arriverò a pensare che siano disonestamente oscuri, che mirino solo a confondere e a intimidire l’intelligenza dei fedeli.
La prima via viene seguita dalle persone deboli; la seconda, condanna chi la segue all’ignoranza, al RIDUTTIVISMO, al CON-CRETISMO. Ciò che va perso, nell’uno e nell’altro caso, è l’accesso individuale a una connessione con l’Aldilà, con tutta l’ENER-GIA che tale connessione renderebbe disponibile.
Di questa energia i simboli sono i veicoli, i veri e propri conduttori, quando si riesce a intenderli correttamente – cioè a domandarsi «Perché?» a loro riguardo. E la cosa più bella è che, una volta che si sia stabilita la connessione (una volta, cioè, che cominci a trovare nell’Aldilà il significato di qualche simbolo religioso), l’energia che ne trai ti fa cogliere simboli anche fuori dai templi e dai Testi sacri: ti spinge cioè a considerare come enigmi da risolvere nell’Aldilà anche situazioni, cose ed esseri viventi che incontri nella tua vita quotidiana – e ciascuna di quelle situazioni e cose, e ciascuno di quegli esseri viventi diviene un’ulteriore connessione, e rende disponibile un’ulteriore quantità di energia.
Così, quando ti domandi «Perché gli Angeli hanno le ali?», «Perché Maria è una bambina incinta?» o anche soltanto «Perché i re Magi sono tre?» o «Perché nel presepe ci sono il bue e l’asino?» (anche questi ultimi infatti sono simboli), e pian piano scopri che le ali degli Angeli rappresentano la connessione dell’io con l’Aldilà; e che Maria rappresenta il tuo io tornato vergine, liberatosi da ciò che ha imparato dagli ALTRI, e perciò divenuto capace di generare in te una vita nuova e salvifica; e che i Magi rappresentano le funzioni dell’io meno usate; e che il bue e l’asino rappresentano il Toro Apis e il Dio Seth, cioè i patroni dell’iniziazione egizia (alla quale Francesco si ispirò per il suo presepe): nel procedere di tutte queste tue scoperte, sviluppi le abilità e il coraggio necessario anche per domandarti – proprio come fanno i bambini – perché tante persone fanno un lavoro che a loro non piace, oppure perché il secondo CHAKRA sia così importante nella generazione, oppure perché i bambini chiedano tanto spesso «Perché?» e gli adulti smettano di farlo, e così via all’infinito, in un infinito incremento di energia spirituale e vitale, e in un infinito sbocciare di risposte (in base all’antichissima legge: «se chiedi, ti viene dato»).
Per te, allora, tutto diventa simbolo – mentre per tanti altri, dice Gesù: «tutto è in parabole» (Marco 4,11): parabolè, in greco, era letteralmente «ciò che viene messo accanto», ovvero ciò a cui tu passi accanto senza accorgerti che c’è, una domanda inascoltata, un’occasione perduta di risveglio, di crescita spirituale. (V. anche FUNZIONE TRASCENDENTE).
SOGGETTIVITÀ. L’obiezione che viene mossa più di frequente alla SAPIENZA è che si tratti di esperienze e scoperte solamente soggettive, fondate cioè su convinzioni personali e non su dati di fatto oggettivamente verificabili. Questa obiezione appare a tutti talmente forte, e anche nell’animo di molti ricercatori spirituali riecheggia tanto insistente, che questi ultimi riescono di rado a replicare in modo convincente.
Ma da quasi un secolo questo modo di intendere la soggettività e l’oggettività ha perso ogni fondamento, sia nella scienza sia anche nella filosofia occidentale. A chi non ha fretta e non teme la terminologia filosofica consiglio, in proposito, la lettura di qualche libro di meccanica quantistica, oppure di Husserl – in particolare La crisi della scienza europea – o anche dell’-husserlianissimo L’arte del sognare di Carlos Castaneda; per chi invece teme il parlare difficile, riassumo qui brevemente alcune idee di Husserl, a mio parere le più brillanti espresse in Europa riguardo a quell’ottusa e ormai superstiziosa obiezione degli «oggettivisti».
Alla base di tutte le nostre percezioni e di tutti i nostri giudizi non vi è – dice Husserl – il mondo cosiddetto reale: vi è invece la nostra soggettività, che fabbrica di continuo l’immagine di quel mondo e lo considera reale. «Conosci te stesso» dicevano gli antichi, e avevano perfettamente ragione: il mondo intero è una tua formazione soggettiva; tu hai cioè deciso a priori che cosa sia mondo e che cosa non lo sia: poi hai razionalizzato questa decisione (cioè le hai dato una forma il più possibile coerente) e hai cominciato a percepire, intorno a te e anche in te, soltanto quello che ti dimostrava che la tua decisione era giusta.
«Ma io percepisco le cose, e dunque sono reali!» obbietta l’oggettivista. Ma ogni cosa che tu percepisci è etwas aus der Welt – dice Husserl – cioè è qualcosa che fa parte di quel mondo che hai deciso di vedere; e una qualsiasi cosa è una determinata cosa, ai tuoi occhi, solo perché i dati sensibili che tu accetti di ricevere da essa sono già stati selezionati e riuniti in modo da corrispondere, appunto, alla tua idea del mondo e di quella cosa in particolare – e ciò senza che tu ne sappia il perché: cioè senza che la ragione di tutto ciò venga mai indagata, né da te, né da coloro che ritengono questo mondo reale.
«Ma allora» replicherebbe l’oggettivista, «tutti quelli che parlano di oggettività non sanno cosa dicono?». Quella che tutti chiamano oggettività è il prodotto, innanzitutto, di una serie di istinti di gruppo, del bisogno cioè di non contraddire la maggioranza di coloro che ti circondano; in secondo luogo, in sedi più «scientifiche», è il tentativo di giustificare ciò che quegli istinti e il mondo che hanno formato ci permettono di percepire (e tale giustificazione si occupa di coordinare le specie, i generi, i nessi e le distinzioni, i mutamenti e le permanenze delle forme delle cose, e le leggi che regolano tali forme); in terzo luogo, la cosiddetta oggettività è costituita da numerosissime idee banali, svuotate, da concetti puramente verbali appesantiti da tante e tante interpretazioni più o meno in contraddizione l’une con le altre.
L’ignorata ragione di questa perenne creazione umana collettiva va cercata – secondo Husserl – al di là del momento in cui l’io decide di accettare quell’immagine del mondo, cioè di percepire soltanto nel campo percettivo che essa prestabilisce. Al di là di quella decisione (che Husserl chiama intenzionalità dell’io cosciente) e al di sopra di quella presunta «realtà oggettiva», tu sei ancora libero in un universo in cui tutto, per quel che ne sai, è ancora possibile, e in cui sicuramente è possibile molto più di quel che comunemente si ritiene nel cosiddetto «mondo reale». Quell’al di là e quell’al di sopra sono d’altra parte assai meno lontani di quanto si potrebbe credere: ogni volta che guardi una qualsiasi cosa (un oggetto, il cielo, il tuo corpo) puoi accorgerti che tu percepisci sempre, in essa, qualcosa di più di ciò che quella cosa ti offre; e proprio da quel di più incomincia la strada verso l’al di là e l’al di sopra.
Castaneda, a questo proposito, parla dell’energia dei brujos, degli «stregoni»:
«Don Juan mi spiegò che percepire l’essenza energetica delle cose rappresenta la meta più alta… Qualsiasi cosa noi percepiamo è energia, ma poiché non siamo in grado di percepirla direttamente, trattiamo la nostra percezione in modo che si adatti a una forma. Questa è la parte sociale della percezione, e va separata… perché riduce la portata di quanto può essere percepito e ci fa credere che le forme a cui abbiamo adattato le nostre percezioni siano le sole cose che esistano. Sono sicuro che per sopravvivere, oggi, l’uomo debba cambiare la base sociale della sua percezione».
L’arte del sognare, capitolo 1
Con questa sua idea, Castaneda compie, tra l’altro, un passo dinanzi al quale Husserl aveva sempre esitato: lo spingere l’attenzione dell’io e la ricerca filosofica fin nell’invisibile, costruendo nell’io un ponte tra Aldiquà e Aldilà, dal quale considerare come un limite superato tutta quanta la cosiddetta «realtà oggettiva» e i processi attraverso i quali essa si forma. Non che questo passo sia nuovo: molte culture antiche l’avevano compiuto con successo, nelle loro teologie e mitologie; ma evidentemente doveva essere riscoperto e compiuto di nuovo, dopo i lunghi abusi di razionalità degli ultimi quattro secoli, e dell’Ottocento in particolar modo – al quale gli attuali oggettivisti sono ancora tanto affezionati.
SOGNI. Nei sogni l’immaginazione può agire più liberamente di quanto non avvenga di solito durante la veglia, e perciò molte persone abituate a esercitare un eccessivo controllo sulla propria immaginazione credono che il sogno sia una dimensione eccezionale e talvolta profetica.
Eccezionale e profetica, in realtà, è soltanto l’immaginazione stessa: ciò a cui essa si sottrae durante il sogno sono le limitazioni imposte dalla nostra RAZIONALITÀ, cioè dal nostro bisogno di adeguarci ai criteri, al linguaggio, ai valori del gruppo a cui abbiamo deciso di appartenere – e da ciò deriva la frequente impressione che i tuoi sogni siano qualcosa di veramente tuo. Tale impressione, d’altra parte, non è sempre veritiera: sia perché con l’affievolirsi della razionalità, prendono spesso il sopravvento gli impulsi del desiderio e della paura, che nella maggior parte delle persone sono anch’essi notevolmente condizionati dal gruppo d’appartenenza; e sia anche perché dei nostri sogni noi abbiamo, al risveglio, solamente il ricordo, e la nostra MEMORIA è sempre potentemente censurata dalla razionalità.
Ciò che comunemente si chiama «sogno» è solo il racconto di quel che la memoria è riuscita a conservare di un sogno, e se potessimo confrontare tale racconto con il sogno a cui si riferisce resteremmo probabilmente sorpresi dalle discordanze.
Quando sognamo, è come se stessimo dipingendo su un’ampia tela con pennelli intinti in colla trasparente; e quando cominciamo a svegliarci, è come se prendissimo manciate di vario materiale depositato nella nostra memoria (ritagli, spezzoni di ricordi dei giorni precedenti) e lo scaraventassimo in fretta sulle linee tracciate da quei pennelli: al risveglio, ciò che la maggior parte delle persone riescono a vedere del dipinto sono soltanto alcune piccole aree del collage e, quando raccontano un sogno, stanno soltanto tentando di spiegare razionalmente perché alcuni di quei ritagli e spezzoni siano venuti a trovarsi accanto ad altri – senza prestare attenzione alle linee del dipinto nel suo insieme. Per questo motivo l’interpretazione dei sogni, tanto cara agli psicologi, si rivela non di rado uno strumento d’analisi inutile e fuorviante.
Per interpretare correttamente un sogno occorrerebbe invece compiere una serie di operazioni assai complessa, e cioè:
– coglierne il disegno complessivo (le pennellate di colla) sia attraverso sia, anche, nonostante il racconto del sognatore;
– intuire le ragioni per cui il sognatore abbia scelto di raccogliere le manciate di ritagli proprio in certi punti della sua memoria e non in altri;
– decifrare le «casuali» combinazioni dei materiali stessi nel collage (in base al doveroso presupposto che nulla sia mai totalmente «casuale»); e infine
– valutare esattamente l’incidenza che sulla memoria e sul racconto del sognatore hanno avuto i criteri, il linguaggio, i valori del gruppo a cui egli ha scelto o crede di appartenere.
E poiché tutte queste operazioni, per essere efficaci, andrebbero compiute contemporaneamente e integrate le une alle altre nel minor tempo possibile, ne consegue che l’interpretazione dei sogni sia possibile soltanto attraverso il ricorso a facoltà superiori della coscienza, a quelle forme speciali di intuizione e di elaborazione che divengono accessibili solo con l’aiuto di Spiriti guida o di un qualsiasi altro Spirito superiore.
Non per nulla gli antichi la consideravano un’arte sacra, e nella Genesi il più celebre tra gli interpreti di sogni, Giuseppe egizio, usava dire che «Le interpretazioni dei sogni appartengono a ’Elohiym» (Genesi 40,8). Non a Yahweh, dunque: non al Dio dell’ESSERE, delle cose-così-come-stanno-e-come-appa-iono, ma a quel Dio del DIVENIRE che guida sempre al di là dei limiti a cui giungono le parole. Mi si obbietterà che in tal modo viene a cadere il primo dei fondamenti della psicologia attuale (i principi interpretativi che Freud cominciò a esporre nell’Interpretazione dei sogni, centonove anni fa) e non ho infatti alcuna difficoltà a riconoscerlo: nei sogni, come in tutte le attività psichiche in cui la razionalità ha un ruolo diverso da quello che svolge nei più ordinari stati di coscienza, la psicologia attuale è soltanto lo sforzo di ridurre il maggior numero possibile di elementi a un livello sufficientemente banale da corrispondere ai modelli costruiti dalla psicologia stessa, secondo i quali l’uomo in generale – e il paziente dello psicologo in particolare – è fondamentalmente un essere banale.
SOLDI. Tra elementi fondamentali del «mondo degli ALTRI» vi è senza dubbio il denaro, di cui i bambini ignorano il significato. L’ADULTO, dal canto suo, attribuisce al denaro un’importanza tale, da sacrificare a esso gran parte della propria esistenza e dell’esistenza delle persone a lui care: ma non perché ne colga il significato meglio dei bambini. Al contrario, quanto meno l’adulto capisce che cosa sia il denaro, tanto più se ne lascia dominare; e quanto più se ne lascia dominare, tanto più teme quel che avverrebbe se tale dominio cessasse.
È insomma quel che, secondo gli antichi, avviene con i demoni: un demone comincia ad agire su di noi quando lo alimentiamo con una parte delle nostre energie psichiche, e quanto più lo alimentiamo di ciò che è nostro, tanto più forte diviene lui e tanto più deboli noi; se invece smettiamo di alimentarlo, il suo potere su di noi si vanifica. Nel caso del denaro, ciò che alimenta il suo potere sugli adulti è precisamente il significato che essi gli danno e che, per poterglielo dare, tolgono a se stessi. Di tale significato il denaro ha assoluto bisogno, per poter esistere: esso è, infatti, soltanto il significato che ha – una banconota non sarebbe che un rettangolo di carta, se non fosse per la cifra che ha stampata sopra. Tale significato, cioè la realtà del denaro, è fondato sull’esigenza di trovare un criterio di misurazione del valore delle cose agli occhi della collettività. Noi disponiamo di misure di peso, di lunghezza, di volume, di tempo ecc. che determinano la nostra esistenza assai meno di quanto non faccia il denaro, e non certo perché i pesi, le lunghezze, i volumi o il tempo contino meno del denaro; queste misure ci preoccupano meno, richiedono meno sacrifici da parte nostra, semplicemente perché sono più attendibili del denaro. Il denaro infatti, più che misurare il valore delle cose, lo determina – così come un metro influirebbe sulla lunghezza di qualcosa se lo si potesse allungare o accorciare a piacimento. Così, per esempio, una cosa priva di senso può tutt’a un tratto valere moltissimo se ne viene alzato il prezzo, mentre una cosa estremamente preziosa può valere poco se nessuno è disposto a comprarla. Dunque, come strumento di misurazione del valore, il denaro non funziona gran che: e, poiché sono stati gli adulti a inventarlo, è evidentente che non volevano affatto che funzionasse, ma che permettesse loro di manipolare tale misurazione, a seconda delle circostanze. Perciò, come avviene per tutte le cose che non funzionano, anche nel denaro occorre innanzitutto credere, e credere che occorra credervi.
Vi sono tre modi di credere che il denaro sia davvero lo strumento per misurare il valore di qualcosa agli occhi degli altri:
– il servirlo, dedicandovi tutta la propria esistenza;
– il disprezzarlo, il che equivale ad arrendersi alla constatazione dell’enorme potere del denaro e il cercarne scampo fuggendo;
– lo stabilire un compromesso, dedicando una parte del proprio tempo al guadagno, e il tempo che resta a «ciò che non ha prezzo».
La maggioranza segue naturalmente la terza via, più comoda delle due precedenti, ma anch’essa deleteria: innanzitutto, quel compromesso, infatti, non può non produrre una scissione della personalità (molto simile a quella di una prostituta che abbia un amante); in secondo luogo, la scissione tende irresistibilmente a estendersi a ogni aspetto della nostra esistenza: irresistibilmente, cioè, ci si rassegnerà a non vivere, a non essere abbastanza in una parte del nostro mondo – il che, anche se non ce ne accorgiamo, è uno sforzo costosissimo in termini di energia vitale.
Conviene dunque considerare qualche altra soluzione. Assai utile, a tale riguardo, è l’impostazione del problema del senso del denaro che viene data nei Vangeli, in alcuni passi molto equivocati, nei quali il denaro stesso viene inteso come un criterio di misurazione oppressivo e come un fondamentale ostacolo alla connessione tra io piccolo e Io grande.
Per esempio, l’episodio in cui compare la famosa frase «Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio» (Matteo 22,18 ss.). Solitamente la frase viene intesa come una giustificazione del compromesso di cui ho appena detto; ma nel testo si tratta di tutt’altro. Gesù pronuncia questa frase riguardo a una moneta, sulla quale sono impressi il volto e il nome dell’imperatore: Gesù domanda «se questo oggetto è di Cesare, dato che c’è scritto il suo nome, perché lo tenete voi e non glielo restituite?». La stessa cosa potremmo domandarci oggi riguardo alla Federal Reserve, per il dollaro; o alla Bank of England, riguardo alla sterlina; o alla Banca Centrale Europea riguardo all’euro. Per quale motivo o accordo – non siglato da nessuno di noi – siamo obbligati a utilizzare, per la misurazione del valore delle cose, per i nostri scambi, per i nostri rapporti, oggetti di carta e di metallo fabbricati soltanto da un piccolo gruppo di persone, che evidentemente traggono da tale obbligo notevoli vantaggi? Sarebbe molto più sensato restituire quegli oggetti al fabbricante, esigendo onestamente il controvalore, poniamo in oro, o in platino, o in altre ricchezze autentiche. Senza dubbio, se tutti o anche soltanto molti facessero ciò, ne deriverebbe la più grande trasformazione mai avvenuta in una società umana; e nulla, obiettivamente, impedisce di farlo.
Altri passi dei Vangeli dedicati al denaro sono quelli, numerosi, in cui si narra delle cosiddette «moltiplicazioni» dei pani e dei pesci, con le quali Gesù riuscì a nutrire più volte migliaia di persone che seguivano la sua predicazione. È sufficiente leggere quei passi per accorgersi che lì, in realtà, Gesù non «moltiplicò» nulla. Si limitò a far disporre la gente «a gruppi d’una cinquantina di persone» (Luca 9,14), prese del cibo e semplicemente mostrò quel che occorreva fare, dividendo il cibo in porzioni e distribuendolo a chi gli stava vicino. Il cibo lo prese a un bambino che aveva «cinque pani e due pesci», e lì è la chiave del passo: perché quel bambino aveva una tale scorta? È facile da intuire: veniva da un luogo vicino, e non aveva ancora esaurito il cibo che aveva portato con sé da casa. Altri, nelle migliaia che seguivano Gesù, venivano da più lontano e non avevano con sé più nulla da mangiare: «State insieme e dividete quel che c’è» disse dunque Gesù, e i Vangeli narrano che il cibo bastò per tutti e ne avanzò addirittura, senza che nessuno avesse bisogno di comprarne dell’altro – senza, cioè, che occorresse ricorrere al denaro. Giovanni nota che «vedendo ciò, alcuni dei presenti volevano fare di Gesù un re» (Giovanni 6,15): alcuni, cioè, intuirono le enormi conseguenze politiche ed economiche che questo principio di condivisione avrebbe avuto in qualsiasi nazione, e vollero trarne un’ideologia (il che avvenne infatti, diciotto secoli dopo). Ideologia o no, anche questo metodo di prescindere dal denaro non incontrebbe obiettivamente alcun ostacolo, se lo si volesse applicare oggi.
Infine, vi sono nei Vangeli due passi assai imbarazzanti, riguardo al denaro: in uno, Giuda protesta, vedendo il balsamo costoso che la Maddalena adopera per ungere i piedi di Gesù: «Si sarebbe potuto vendere quel balsamo, e dare il ricavato ai poveri!». E Gesù risponde: «I poveri li avete sempre con voi. Ma non sempre avete l’io» (Giovanni 12,5-8). In un altro, Gesù rimprovera Pietro per essere stato troppo pavido davanti agli esattori delle tasse; poi, vedendolo confuso ed esitante, lo conforta dicendo: «Be’, non scandalizziamo troppo quella gente: fa’ così, va’ al mare, getta l’amo, e il primo pesce che abbocca prendilo, aprigli la bocca e ci troverai una moneta d’argento. Prendila e con quella paga le tasse per me e per te» (Matteo 17,27).
Il senso dei due passi è il medesimo: non lasciare che il denaro determini i tuoi bisogni, i tuoi piaceri, i tuoi comportamenti; il denaro non è che un modo di misurare il valore delle cose: sii tu, a stabilire il valore delle cose e di te stesso e, più ancora, lascia che a stabilirlo sia quel tuo io autentico a cui talvolta hai accesso (in tal senso «non sempre avete l’io», cioè: i bisogni degli altri li conosci, ma conosci i tuoi?); poi, commisura quel valore anche al denaro, e procuratene quanto te ne occorre per vivere in pace. Facile a dirsi! Ma in realtà è ancor più facile a farsi, quando al denaro si impara a dare meno importanza: ogni nostro obiettivo non diventa tanto più raggiungibile, quanto più riusciamo a sfrondarlo delle convinzioni e delle credenze che gli altri nutrono riguardo a esso? E perché mai il denaro dovrebbe fare eccezione? A ciò si riferiscono sia quella «moneta d’argento nella bocca del pesce», sia il passo:
il Padre vostro che è nei cieli sa di cosa avete bisogno; perciò, cercate prima di tutto il Regno di Dio e ciò che è giusto per esso, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta.
Matteo 6,32-33
La Commedia vi fa eco:
… Se segui tua stella
non puoi fallire a glorioso porto
se ben m’accorsi ne la vita bella
dice ser Brunetto a Dante (Inferno XV,55-56), cioè: se fai quel che davvero piace al tuo Io, raggiungi di certo i tuoi scopi con successo. Dall’incapacità, dalla paura di accorgersene dipende molto di ciò che preclude la «vita bella».
STANZA TONDA. Con questo termine indico il principale punto di raccordo tra l’Aldiquà e l’Aldilà, secondo il mio TRA-GITTO: si presenta come una vera e propria stanza dal pavimento circolare e dal soffitto a volte. Come tutto quel che si riesce a immaginare nell’Aldilà, anche la Stanza Tonda ha un significato simbolico: rappresenta l’io in tutta la sua ampiezza – l’io, cioè, com’era prima che vi prendessero piede gli ALTRI e il TU (v. la Mappa a p. 11). Perciò, quando vi si arriva la prima volta, la Stanza Tonda è vuota, a differenza dell’io di qualsiasi adulto, che è invece ingombro d’una quantità di cose – e in particolar modo di cose che piacciono o servono o sono sembrate importanti agli altri. E proprio perché è così vuota, l’io piccolo può scorgere le molte porte della Stanza Tonda, ciascuna delle quali conduce verso territori dell’Aldilà; da alcune di queste porte entrano, quando li si chiama, vari tipi di MAESTRI: i primi due, il Maestro del Desiderio, l’Alleato ecc. e nella Stanza Tonda si svolgono buona parte delle conversazioni tra l’io piccolo e loro. Sono certo che qualcosa del genere avvenga spesso anche nell’io di un adulto nel suo stato di coscienza ordinario, ma che l’adulto non sia in grado di accorgersene proprio a causa delle tante cose che lo ingombrano.
Una volta che ci si sia familiarizzati con il tragitto e la Stanza, è utilissimo esercizio arredare quest’ultima, senza fretta, con quel che piace solamente all’io. «Chi arreda bene la sua Stanza Tonda, arreda bene la sua vita» mi dicevano fin dall’inizio i miei Maestri, accompagnandomi in una stanza adiacente, chiamata il «magazzino», in cui si trova tutto quel che si è capaci di immaginare. Ma a quei tempi non avevo ancora capito tante cose, e mi occorsero diversi anni per accorgermi di cosa intendessero.
La Stanza Tonda, via via che la si arreda, rivela una sua strana caratteristica: è sconfinata, e può perciò contenere non soltanto arredi d’appartamento ma vallate, foreste, fiumi, deserti, città. Attualmente, la mia Stanza Tonda è suddivisa in diversi settori: al centro, è il centro di una sala con molti divani e poltrone, sulla destra è un tratto del Grand Canyon, sulla sinistra c’è un tratto di costa brettone, con un piccolo porto. Ma ho cambiato molte volte l’«arredamento» e di certo lo cambierò ancora: quando mi accorgo di ciò che uno di quei miei paesaggi rispecchia di me, mi appare subito angusto e banale; lo riporto nel magazzino e scelgo qualcos’altro, che mi colpisca per ragioni che ancora non so.
SUCCESSO, vedi SCELTE e SOLDI.