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RAZIONALITÀ. Benché tanti non lo sappiano, né ci abbiano mai pensato, si definisce razionale tutto ciò che è conforme a quel che avviene solitamente nel MONDO; e razionalità, o ragione, è quella componente dell’io piccolo alla quale tocca il compito (non difficile, tutto sommato) di precisare quella conformità e di farla rispettare.

Questa definizione diventa, tuttavia, soltanto l’inizio di una definizione, non appena la si consideri da un punto di vista spirituale – cioè ponendo accanto al cosiddetto «mondo» la dimensione dell’Aldilà.

Dal punto di vista dell’Aldilà, il cosiddetto «mondo» è, infatti, soltanto il prodotto di una limitazione percettiva, per la quale la maggior parte della gente crede soltanto in ciò che vede e, di conseguenza, vede soltanto ciò in cui crede. In tale limitazione, la razionalità diviene non tanto il modo di adattarsi al «mondo» stesso, quanto piuttosto la custode dei limiti che vengono posti alla nostra visuale.

E questi limiti sono piuttosto angusti. Perché si possa vedere, nel «mondo», ciò in cui si crede, bisogna che in esso si trovi soltanto una piccola parte del nostro io: solo alcune delle sue facoltà, e anch’esse per lo più in modo incompleto. E queste, così incomplete, vengono dette appunto razionali; le altre (a partire da certe forme di intuizione, di ispirazione, tutt’altro che rare) sono bollate dalla razionalità come illegittime, e perciò imbarazzanti, nonché pericolose – perché, se le si prendesse sul serio, ciò che sappiamo del «mondo» vacillerebbe.

Così, potendo usare tranquillamente soltanto alcune delle nostre facoltà (e anche quelle solo fino a un certo punto), le persone razionali vivono nel «mondo» in uno stato d’incertezza e stress, paragonabile a quello di un individuo a cui sia stato impedito di muovere una caviglia o di volgere il capo da una parte, pur essendo la sua caviglia e il suo collo perfettamente sani. E, nel cattivo rapporto con se stessi che ne consegue, hanno bisogno di regole da rispettare, di spiegazioni, di incoraggiamenti a credere che, nonostante tutto, il loro modo di muoversi sia armonioso e piacevole nonostante quei divieti: appunto a ciò provvede la razionalità, fornendo vari strumenti quali la logica, il buon senso, il senso di appartenenza al gruppo (il conformismo, cioè), che permettono di muoversi con una certa disinvoltura anche senza piegare la caviglia e senza voltarsi mai dalla parte proibita.

Questo contributo della razionalità alla nostra esistenza è utile soprattutto per una cosa: perché suscita in noi (o almeno nei più sensibili di noi) il bisogno e il gusto di domandare «ma perché?». Ai tali nostri «perché?» la razionalità riesce a rispondere, ovviamente, soltanto in minima parte, cioè soltanto là dove la risposta non corra il rischio di far sembrare insufficienti i criteri su cui la razionalità stessa si impernia. E là dove quei criteri non bastino più, e i «perché?» continuino cionondimeno a moltiplicarsi, si può ben dire che la razionalità abbia svolto del tutto il suo compito, e che abbia inizio un territorio ulteriore, che per essa è nuovo.

A quel punto la nostra ragione ha due opzioni: o fermarsi sdegnata, cercando di frenare chi vuol esplorare quel che vi è oltre; oppure cominciare anch’essa a esplorare, accogliendo quei «perché?», lasciandosene guidare verso ciò che non sa ancora, modificando, di scoperta in scoperta, i propri criteri.

Nel primo caso, le esplorazioni di ciò che vi è oltre conducono alla trance e a esperienze estatiche di vario genere, alle quali appunto la ragione non partecipa, e per le quali personalmente non provo nessun interesse.

Nel secondo caso, si ha un aumento di conoscenza e uno sviluppo nuovo e imprevedibile della nostra razionalità, dal quale sono sempre dipese e ancor oggi dipendono le possibilità di evoluzione della specie umana.

REGNO DEI CIELI, vedi ALDILÀ.

REINCARNAZIONE. C’è chi crede nella reincarnazione e chi si sforza di non crederci: da un pezzo non mi capita di conoscere qualcuno che non appartenga né all’una categoria né all’altra.

Da un lato, me ne rallegro: è bello che tanta gente sia incuriosita da qualcosa di antico. Dall’altro, mi rammarico che anche nei riguardi della reincarnazione l’attuale mentalità occidentale incorra in due errori già commessi tante volte nel considerare cose antiche:

– il ritenere che un’idea elaborata qualche millennio fa debba per forza essere più rozza del modo di pensare odierno;

– il non accorgersi di come ciò che in essa appare rozzo sia in realtà espressione e proiezione di ciò che nel modo di pensare odierno è inferiore alle idee antiche.

Avviene, in tal modo, che la stragrande maggioranza degli occidentali consideri la reincarnazione innanzitutto come un esercizio di egocentrismo: come un modo, cioè, di inflazionare l’io piccolo, pensando che la sua dignità attuale aumenti grazie a ciò che egli avrebbe fatto o subìto in altre sue vite, e che a questo stesso scopo (cioè, in sostanza, per vantarsi) l’idea della reincarnazione venisse usata dagli antichi. In secondo luogo, la stragrande maggioranza degli occidentali ritiene che la reincarnazione sia un articolo di fede: cioè un dato di fatto che si possa decidere se accettare o no, a seconda della propria disponibilità a mettere a tacere le obiezioni della razionalità, del buon senso o magari di qualche religione (come quella cristiana attuale) che si oppone alle religioni in cui la reincarnazione è ben vista.

In realtà, la reincarnazione è sempre stata ed è ancora un efficacissimo metodo di analisi, che, grazie all’uso del pensiero mitico, della simbologia, permette di indagare aspetti della nostra personalità troppo vasti e complessi per gli strumenti di cui dispone la mente razionale.

Questo metodo consiste, propriamente, in una particolare forma di PROIEZIONE, grazie alla quale certi problemi dell’io vengono trasferiti su persone vissute in altre epoche, in modo che l’io stesso possa analizzarli senza interferire con quelle resistenze emotive che certamente si avrebbero, se quegli stessi problemi venissero analizzati in lui. «Quel tale vissuto trecento anni fa non sono io», pensa chi si sottoponga a questo metodo di analisi, «e dunque posso considerarlo con una certa equanimità e spirito critico»; e al contempo pensa: «ma in una certa misura, quello ero io: ed è una bellissima cosa che quei suoi/miei problemi siano tanto lontani nel tempo» e ciò contribuisce a preparare l’io attuale al superamento del problema in questione, facendoglielo avvertire come già superato in qualche modo.

Quanto al «contenuto di verità» di una reincarnazione – quanto cioè al fatto che tu sia stato veramente la tal persona vissuta trecento anni fa, – tutto dipende da come si intenda il verbo «essere»: l’occidentale odierno, che, per tutti i limiti del suo CONCRETISMO, intende il verbo «essere» come un segno d’uguale, potrà credere o meno che il suo io sia stato anche quel tale tanto tempo fa; la mente antica era invece più agile: «tu sei stato quel tale» esprimeva per loro non tanto un’identità quanto un parallelismo: significava cioè «il modo in cui tu riesci a essere ora è perfettamente uguale al modo in cui quel tale era allora», il vostro modo di essere è ciò che avete in comune, e sta a te decidere se limitarti a questo modo di essere, che vedi riflesso in lui, oppure cominciare a essere in modo diverso:

– nel primo caso, tu certamente sei ora soltanto ciò che era lui allora; la tua realtà, la tua immagine del mondo, le tue possibilità sono le sue, e in tal senso ciò che tu ora chiami io è ciò che lui chiamava io;

– nel secondo caso, tu sei stato ciò che era lui; la tua realtà, la tua immagine del mondo, le tue possibilità sono state anche le sue: ma appunto perché ora l’hai scoperto, puoi non esserlo più.

Quanto invece all’elemento più prodigioso del metodo della reincarnazione, cioè al fatto che chi individua una tua vita precedente riesca a cogliere con sicurezza, tra i miliardi d’individui vissuti sulla terra, proprio quell’individuo la cui vita (o una parte della cui vita) mostri davvero e fin nei dettagli il parallelismo con la vita che tu stai conducendo, anche in ciò si evidenzia una superiorità degli antichi rispetto ai moderni: caratteristica degli antichi è infatti la fiducia nei poteri straordinari dell’IMMAGINAZIONE, e la capacità di elaborare tecniche per adoperarli al meglio, a differenza dei moderni, che dell’immaginazione hanno, da qualche secolo, sempre più paura.

D’altra parte, come ogni altro metodo di analisi, anche quest’immaginare vite precedenti deve rispettare condizioni precise, per poter essere affidabile. Tali condizioni sono sostanzialmente due:

– per «vedere» o comunque individuare le altre vite, occorre che l’immaginazione sia veramente tale: che, cioè, abbia preso le distanze dal livello consueto della coscienza, o attraverso la diretta connessione con un qualche Aldilà, o attraverso sistemi di meditazione che permettano di «distrarre» la mente razionale e di «ricevere» indicazioni senza che essa se ne accorga (per esempio l’astrologia karmica, i cui calcoli sono appunto un tale sistema di meditazione);

– una volta individuata una vita precedente, è indispensabile che essa venga confermata in breve tempo da qualche coincidenza significativa: le coincidenze significative si verificano infatti tutte le volte che la nostra ATTENZIONE si sta improvvisamente ampliando; tale ampliamento si avrà certamente, se l’immaginazione ha colto in una vita precedente qualcosa di importante che ci riguarda davvero: e dunque qualche coincidenza dovrà rapidamente verificarsi.

Non sempre la seconda condizione si verifica dopo la prima: può facilmente accadere che una vita precedente si annunci, sottoforma di coincidenze significative, prima che qualche specialista di reincarnazione te ne parli – e ciò significherà, semplicemente, che il problema che in quella vita precedente si evidenzia ha cominciato a urgere talmente dentro di te, da richiamare la tua attenzione come qualcuno che bussi alle porte della tua coscienza.

A intenderla in tal modo, cioè come metodo di analisi, la reincarnazione implica anche un altro aspetto, che raccomando alla riflessione: ed è che non necessariamente una o più vite precedenti che tu sia riuscito a scoprire, debbano restare tue per sempre; se il tuo io piccolo si evolve e cambia, individuerai tue «altre vite» diverse da quelle, e magari contemporanee a quelle, senza che vi sia in ciò contraddizione. Potrà quindi avvenire che un problema manifestatosi, poniamo, in una tua «altra vita» vissuta nel XV secolo, trovi la sua soluzione in un’altra tua «altra vita» vissuta dieci secoli prima, o magari in quello stesso secolo – e nulla esclude che gli io di queste due «altre vite» contemporanee si siano incontrati, amati, odiati o magari ignorati. In tal senso, sono quasi certo che colui che viene indicato dalla tradizione come l’autore della Genesi, cioè Mosé, abbia narrato in essa le sue vite precedenti: non soltanto in Caino, in Noè, in Abramo, in Giacobbe, ma anche in Isacco, che pure era figlio di Abramo, e in Giuseppe, che pure era figlio di Giacobbe (e che la Genesi sia, dunque, anche una sorta di «introduzione karmica» all’Esodo, in cui Mosè sembra appunto riprendere, portare a termine e superare ciò che tutti quei protagonisti della Genesi avevano fatto). Sempre in tal senso, Erode può sospettare addirittura che Gesù sia la reincarnazione di Giovanni Battista (Matteo 16, 2), benché Gesù avesse conosciuto personalmente il Battista.

Di certo queste concomitanze di vite risultano un passo troppo difficile da compiersi, per la nostra razionalità: ma i limiti di quest’ultima, come ho detto, non sono proprio ciò che il metodo della reincarnazione permette di lasciarsi alle spalle? Assai rozza e goffa, in confronto, è invece l’idea occidentale che nell’Aldilà il tempo proceda in forma lineare proprio come nell’Aldiquà, e che si possano dunque avere soltanto reincarnazioni una dopo l’altra, separata ciascuna da un intervallo di qualche anno – come se morendo ci portassimo dietro l’orologio, il calendario e l’agenda.

RELIGIONI. «Religione» deriva dal latino religare, cioè «tener legati». Alcuni sostengono che il religare delle religioni si riferisca soprattutto ai testi, ai riti, alle tradizioni di cui ciascuna religione è costituita, e che una religione sia dunque una specie di archivio ben ordinato. Ma è ben evidente che il religare delle religioni si riferisca anche e soprattutto alle loro greggi: al tener vincolate, cioè, il maggior numero possibile di persone, perché non si appassionino di altre religioni o non decidano magari di amarle tutte quante, e dunque di non farsi religare da nessuna di esse.

Il principale svantaggio culturale dell’aderire a una sola religione consiste appunto in questa limitazione dell’orizzonte – che dai religati non è avvertita come tale, bensì come certezza che «solo noi abbiamo ragione, mentre tutte le altre religioni del mondo hanno torto». E il principale rischio psicologico a cui ciò conduce, è la cosiddetta ipercompensazione del dubbio: fastidiosissimo fenomeno, per il quale il credente reprime in sé i dubbi che gli possono sorgere sulle ragioni della fede alla quale deve religarsi, e manifesta perciò un crescente nervosismo nei confronti di chi, nella sua religione, non appaia abbastanza represso, cioè degli eretici, dei mistici, dei liberi pensatori.

I vantaggi, invece, dell’aderire a una religione sono numerosi, soprattutto nell’adolescenza, nella vecchiaia e nei momenti critici della vita: la sensazione di far parte di una comunità più o meno compatta, di avere una patria spirituale, un prontuario di risposte precise su problemi morali, etici e metafisici, e – soprattutto – un fiducioso accesso a rituali elaborati nel corso di millenni, scopo dei quali (in tutte le religioni) è aumentare l’energia personale e medicare i traumi interiori. Quanto a questo, la più generosa tra le religioni è certamente il cattolicesimo, capolavoro di psicologia delle masse e del singolo: i suoi innumerevoli crimini non impediscono di apprezzare i risultati a cui l’hanno potuta condurre il fatto di avere, da quasi due millenni, una sede stabile, un’efficiente gerarchia e quel mirabile strumento di analisi che è la confessione.

Per i più colti, inoltre, l’appartenenza a una religione garantisce l’accesso facilitato a millenarie tradizioni di pensiero simbolico e filosofico, ignote alla stragrande maggioranza dei «non-credenti»; mentre, per i più ribelli, l’essere appartenuti a una religione diviene – per contrasto – ottimo stimolo per un’ancor più appassionata ricerca d’indipendenza e libertà.

Pur con tutto ciò, io preferisco i vantaggi offerti dallo scoprire e amare il maggior numero di religioni possibile. Chi, in un modo o nell’altro, è cresciuto entro una determinata religione, non può che gioire e crescere nel conoscerne altre, non importa se minoritarie, sconfitte o antiche e antichissime: ciò amplia infatti i suoi orizzonti, gli rivela aspetti nuovi del pensiero e dello spirito, gli fa apparire come facilmente risolvibili o insignificanti problemi che, ai mono-religiosi, possono invece apparire insolubili.

RESISTENZA. Intendo con questo termine una sensazione ben precisa, e ben nota a chiunque abbia tentato una qualsiasi forma di ricerca spirituale o di autoanalisi: a un certo punto qualcosa, non sai cosa, ti impedisce di continuare, ti fa sentire debole, confuso, incapace, e quanto più ti sforzi di scuotertelo di dosso, tanto più quel qualcosa acquista forza e ti paralizza. Può avvenire mentre stai pensando, o mentre conversi con i tuoi Spiriti guida, o mentre preghi o, soprattutto, mentre stai precisando qualche desiderio che ti sembra particolarmente importante.

Molti, in questi casi, si arrendono e dichiarano «Non ci riesco! Non fa per me…». Altri, più agili, chiedono aiuto a chi ne sa più di loro. Altri ancora, e io sono fra questi, imparano prima o poi che le resistenze sono in realtà i momenti più preziosi della crescita interiore, la quale in sostanza altro non è se non la ricerca e il superamento di nostre resistenze via via più grandi.

Si riferisce a ciò il passo dei Vangeli: «Si fa più festa in cielo per uno che si sia ACCORTO dei suoi peccati, che non per novantanove giusti i quali non abbiano bisogno di accorgersi di nulla» (Luca 15,7). La resistenza è infatti il momento in cui ci si sta accorgendo di qualche nostra situazione dolorosamente irrisolta, mentre i «novantanove giusti» sono ciò che in noi non ha appunto bisogno di accorgersi di nulla, poiché sta già procedendo egregiamente: e «si fa più festa in cielo» per le nostre resistenze, che non per il nostro buon procedere, semplicemente perché laddove vi sia una resistenza abbiamo modo di superare noi stessi, e dunque di crescere, di scoprire cose nuove, mentre là dove tutto in noi va bene tendiamo a rimanere dove già siamo. (Un equivalente tecnologico di tale situazione è dato dalla lampadina, nella quale il filo elettrico corrisponde ai «novantanove giusti» e il filamento di tungsteno, che dà luce, è appunto la resistenza; non mi stupirebbe, anzi, se dovesse risultare che Edison la inventò traendo ispirazione da quel passo evangelico).

Fare in modo che le nostre personali resistenze diano luce è d’altronde abbastanza facile. Quando se ne percepisce una, è sufficiente domandarsi (o, nell’Aldilà, domandare ai propri MAESTRI): «Perché mi sento così, adesso? Che cosa ho trovato nel mio animo, che mi intralcia? Cosa mi fa paura?». E, non appena la resistenza si sia trasformata in una domanda di questo genere, essa è già il filamento di tungsteno, che si illuminerà, e illuminerà molte cose, quando verrà attraversato dalla corrente, cioè dall’autentico desiderio di ottenere una risposta.

In chi impara a frequentare l’Aldilà, tali resistenze non sono, dapprima, ostacoli particolarmente emozionanti: la risposta si trova rapidamente, e non aggiunge molto a quel che già si sapeva. Poi, quanto più in alto si sale, tanto più le resistenze diventano significative, profonde, vertiginose – ma tanto più lungo e robusto sarà diventato, nel frattempo, anche il filo elettrico dei nostri personali «novantanove giusti» interiori, lungo il quale passa l’ENERGIA del desiderio di conoscenza. E va da sé che quanto più profonda e minacciosa è una resistenza che incontriamo in noi, tanto più ampio è anche il territorio che essa illumina quando se ne cerca la ragione e il modo di superarla.

Conviene perciò diffidare di chi affermi di aver trovato la pace dell’animo: o è un bugiardo, o si è perduto da qualche parte e crede di essere arrivato. Quella pace, l’hanno soltanto le persone ottuse, contente dei pochi libri che sono riuscite a leggere e della mezza dozzina di «giusti» che hanno scovato in se stessi, che costituiscono il loro «circuito» interiore. Quando invece si fa sul serio, le resistenze non finiscono mai e non fanno che aumentare di dimensioni, per fortuna nostra e per maggiori feste lassù.

RICERCA SPIRITUALE, vedi SAPIENZA.

RIDUTTIVO. Si dicono riduttivi tutti quei modi di pensare che mirano a poter dire di qualcosa «non è null’altro che…»: e se, in apparenza, questa espressione può suscitare in alcuni un qualche senso di sollievo, in realtà ciò che la muove è sempre, da un lato, un greve pessimismo nei confronti dell’uomo e dell’universo, e, dall’altro, un nevrotico timore di ciò che è nuovo e creativo.

È riduttivo, per esempio, domandare all’autore di un’opera d’arte: «In sostanza, che cosa hai voluto dire con quel che hai creato?». È riduttivo interpretare un sogno come semplice effetto di un’impressione ricevuta dal sognatore il giorno prima. È riduttivo vedere in un SIMBOLO religioso il prodotto della trasformazione di un qualche culto precedente o il riflesso di un sistema sociale.

In chi voglia far questo è ben evidente il bisogno che tutto rimanga com’era prima che quell’opera d’arte, quel sogno o quel simbolo attirassero la sua attenzione. Tale bisogno va di pari passo con altre noie umane: per esempio, con il voler credere che il passato sia una sorgente di senso e di valori più decisiva del presente e del futuro, o che il gruppo, famiglia, massa o nazione o cos’altro, siano più significativi del singolo individuo – poiché è dagli individui che provengono sempre le cose nuove e importanti. Tutto ciò è sia frustrante, sia espressione di frustrazioni; la miglior cosa, dunque, ogni volta che ci si accorga di assumere un atteggiamento riduttivo, è mettersi alla ricerca di quelle nostre frustrazioni che inevitabilmente lo stanno alimentando, e che in esso cercano di giustificarsi e possibilmente di contagiare qualcun altro (v. anche VAMPIRO).

RIVIVERE. La tecnica del rivivere i traumi allo scopo di superarli è antichissima. Il poeta greco Bacchilide (V secolo a.C.) narra di come venne resuscitato il piccolo Pelops, fatto a pezzi e cotto in un calderone dal padre Tantalo, che voleva offrirlo come leccornia agli Dei: due di questi, Hermes e Rea, rimisero i pezzi del bambino nel calderone, li fecero cuocere di nuovo – gli fecero cioè rivivere tutto l’orrore che aveva subito – e poco dopo Pelops ne uscì di nuovo vivo e bellissimo. Bacchilide attinse indubbiamente ai miti egizi dello smembramento e della resurrezione di Osiride, noti già mille e più anni prima; mentre a Bacchilide sembra attingere Gesù (ne parlo in Quando hai perso le ali) nel discorso dell’ultima cena. Lì infatti l’accenno al mito di Pelops è ben chiaro, quando Gesù offre il pane e il vino ai discepoli, dicendo che sono la sua carne e il suo sangue; e le parole

Questo è il mio corpo, che è offerto per voi; fate anche voi così, per ricordarvi dell’io

Luca 22,19

sono precisamente un rivivere: significano infatti «voi, come tutti gli ADULTI, avete offerto il corpo del vostro io-Bambino al mondo, agli ALTRI, che l’hanno divorato; rivivete, ora, questo vostro trauma fondamentale, ricordatevi del vostro io autentico, e superatene l’orrore, per guarirne». Quanto questo modo di rivivere sia impressionante ed efficace, si può facilmente verificare durante un qualsiasi pasto con amici: è sufficiente offrire loro del cibo pronunciando parole simili a quelle di Gesù, e restare a guardare mentre masticano e deglutiscono.

In seguito, nel cristianesimo, la tecnica del rivivere divenne il punto focale del sacramento della confessione, durante il quale il sacerdote aiuta appunto il fedele a rivivere i propri errori, per poterli superare (v. CONTENENZA); e alla confessione si ispirò direttamente la psicanalisi, che rilanciò il rivivere i traumi fino a farne, nel secolo scorso, la terapia più famosa del mondo. Ma, nonostante la sua notorietà e la sua storia millenaria, ciò che di questa tecnica rimane ignoto è come e perché precisamente essa funzioni. Si sono formulate al riguardo molte ipotesi contrastanti; la mia ipotesi è la seguente:

Un trauma deriva da esperienze capitate a una persona quando il suo io non era sufficientemente ampio e robusto da poterle comprendere (per esempio, un complimento audace rivolto a una bambina di cinque anni può facilmente produrre un trauma, mentre rivolto a una signora cinquantenne non causa particolari problemi); tali esperienze possono diventare semplici ferite e cicatrici, se chi che le ha subite trova in sé, di lì a poco, la forza di ricordarle, di parlarne a qualcuno o anche soltanto a se stesso; diventano invece traumi propriamente detti quando la persona si sforza e riesce a ignorarle, e continua a vivere come se quelle esperienze non fossero mai accadute. Il prezzo di quel «come se» è molto alto: l’intera personalità comincia infatti a modificarsi, a deformarsi. L’ATTENZIONE (l’orizzonte della coscienza, cioè) si riduce, in modo da non cogliere nulla che possa associarsi con quelle esperienze, e ciò determina una corrispondente riduzione della realtà in cui quella persona esiste: intere aree del suo mondo esterno, e innumerevoli possibilità e doti dell’io, che in quelle aree avrebbero trovato applicazione, rimangono fuori dal suo campo visivo, e divengono preda di quello che gli psicologi chiamano «l’inconscio», o di quelle che alcuni popoli arcaici chiamavano entità ostili, spiriti bassi, demoni ecc.

Tell truth and shame the devil, ammoniva Shakespeare: e, certamente, riuscire a «dire la verità», a ricostruire nella memoria – da soli o parlandone con altri – una nostra esperienza traumatica può perlomeno farci comprendere perché, dopo di essa, molte cose non siano andate nel verso giusto. Ma quasi mai ciò è sufficiente a superarla: l’io di una persona traumatizzata rimane infatti a lungo troppo debole per affrontare davvero il trauma, e la rimemorazione di quest’ultimo può facilmente produrre soltanto un ulteriore senso di inadeguatezza, di sconfitta. Per poter invece rivivere davvero il trauma, occorre avere accanto qualcuno che

– lo riviva insieme a te, e che

– ti appaia dotato di un’autorità, di un potere speciale, di quello che gli antropologi chiamano mana e che gli antichi chiamavano sacrum.

Il rivivere deve cioè venir avvertito come un’esperienza soprannaturale, mistica, o perlomeno arcana.

Nel mito, il piccolo Pelops aveva Hermes e Rea: e se invece di due Dei vi fossero stati degli uomini non sarebbe avvenuto nulla, ai suoi resti cucinati dal padre. Gli apostoli, durante l’ultima cena, avevano il loro guru Gesù. Nella Divina Commedia (ricchissimo catalogo di tecniche di superamento dei traumi) Dante ha sempre accanto Virgilio o Beatrice. Nelle psicoterapie il paziente ha accanto a sé un medico, che ai suoi occhi, grazie al transfert, ha acquisito un valore trascendente.

La differenza di potenziale tra l’io e questi assistenti a lui tanto superiori rende disponibile quell’ENERGIA che, se ben diretta, permette di superare l’esperienza traumatica.

E a questo punto sorgono i principali problemi, che riguardano appunto il modo di dirigere tale energia.

Un primo problema è dato dal senso che si dà al superamento di un trauma: per alcuni, superarlo deve significare risolverlo, cioè capirlo, perdonare ecc. Ma a me non risulta che i traumi risolti in questo modo diventino davvero innocui: non ritengo cioè che farsi una ragione di una nostra esperienza dolorosa, rassegnarci al fatto che sia avvenuta, comprendere in quale misura ne siamo stati, magari, noi stessi responsabili, e perdonare chi ne ha la principale colpa, porti poi a un notevole miglioramento della nostra esistenza. Viceversa, il risolvere così un nostro trauma determinerà facilmente una riduzione delle nostre aspettative riguardo a noi stessi e all’umanità intera, e un conseguente calo della nostra capacità e volontà di utilizzare la nostra energia – nella convinzione che quanto più pessimisti si è, tantomeno si sarà delusi. Questo genere di risoluzione dei traumi, purtroppo molto praticato da psicologi e terapeuti, non può venir definito una terapia, a meno che chi lo pratica non si ponga esplicitamente come obbiettivo quello di incrementare il conformismo, la senilità precoce e il VAMPIRISMO.

Superare efficacemente un trauma significa invece superarlo e basta: lasciarselo alle spalle, accorgersi che appartiene al passato e che il passato è ciò che non c’è più, così come non c’è più, è rimasto alle nostre spalle anche quel nostro modo di essere che dall’esperienza traumatica era stato sconfitto. Chi la rivive in questo senso, si accorge di essere cambiato dall’epoca di quell’esperienza, o di poter cambiare ora che la affronta di nuovo – o eventualmente di dover cambiare di più, nel caso che perda la sfida e il trauma risulti ancora troppo forte per lui. Quanto al perdono, non vi è ragione di considerarlo né indispensabile e nemmeno utile a superare i traumi: si può certamente concedere il perdono a chi lo chieda (e d’altronde il perdono è realmente tale soltanto se viene richiesto), ma per lasciarsi alle spalle sia un nostro trauma sia il nostro modo di essere che l’aveva reso possibile e ne era stato sconfitto, vale molto meglio lo sdegno – cioè il saper disprezzare onestamente la malvagità, la vigliaccheria di chi sia stato responsabile del trauma in questione, e l’accorgersi di volere e di poter fondare d’ora in avanti la propria vita su principi che con tale malvagità e vigliacchieria non abbiano nulla a che vedere.

Dal significato che si attribuisce al superamento del trauma dipende anche il secondo grande problema della tecnica del rivivere: il ruolo del terapeuta, o in ogni caso di colui che affronta il trauma insieme con chi l’ha subito.

Nei casi in cui l’intenzione è quella di risolvere il trauma, il terapeuta rischia di diventare una sorta di guida, di maestro di vita dal quale il paziente non vorrà staccarsi volentieri (il che, quando si tratta di terapie a pagamento, andrà ovviamente a tutto vantaggio del terapeuta stesso): è grazie al terapeuta-mae-stro, e con il suo aiuto, che il paziente avrà infatti imparato a sopportare le proprie esperienze traumatiche, e facilmente gli sembrerà che senza di lui non possa riuscirvi più.

Nei casi in cui invece si mira a superare il trauma, la figura del terapeuta somiglia più a quella di una levatrice: egli assiste infatti alla nascita di una personalità nuova; e una volta condotto a termine il «parto», ha esaurito il suo compito. L’inconveniente è che, ogni volta che superiamo un trauma, diveniamo più forti e coraggiosi, e dunque in grado di individuare traumi ancor più grandi, di cui prima non avremmo osato accorgerci: non solo nostri, ma anche dei nostri genitori, o nonni (traumi che essi hanno subìto e non sono riusciti a superare, e che noi abbiamo assorbito vivendo accanto a loro); e per ciascuno di questi ulteriori traumi occorrerebbero «levatrici» via via più energiche e coraggiose, come raramente se ne trovano tra i terapeuti visibili. Sia i miti, sia Dante, sia i Vangeli e i profeti suggeriscono perciò di ricorrere a terapeuti invisibili, cioè alle figure che la nostra IMMAGINAZIONE riesce a individuare in quello che io chiamo l’Io grande: Spiriti guida, Angeli, Aspetti della divinità. Io ho provato: funziona; e ne narro in tutti i miei libri, in particolar modo ne Il frutto proibito della conoscenza e ne L’arca dei nuovi maestri.