P

PACE INTERIORE. Per molti miei conoscenti, la «pace interiore» è una forma particolare di inerzia che non si rende ben conto di essere tale. E questi miei conoscenti si dividono in due categorie: chi cerca questa inerzia, e solitamente la trova aggrappandosi a qualche autorità spirituale (una Chiesa, o una religione esotica, o un guru); e chi invece la aborre, e vuole a ogni costo sentirsi inquieto, per sentirsi vivo.

Personalmente, penso invece che una vera «pace interiore» si abbia quando tutte le FUNZIONI DELLIO siano sufficientemente differenziate da non intralciarsi l’un l’altra. Quando ciò avviene, d’altra parte, l’individuo ha comportamenti tutt’altro che «pacifici» nel senso consueto del termine: ha grandi progetti e li realizza, è esuberante, pieno di curiosità, sempre intento a superare se stesso, e talmente avido di vita da considerare sprecata qualsiasi ora che non gli abbia portato qualche emozionante scoperta. Certo, è facile che individui del genere finiscano in qualche guaio: nei tempi andati, finivano spesso in galere o sui roghi. Ma chi l’ha conosciuta, porrà di certo il mantenimento di questa «pace interiore» tra i suoi obiettivi fondamentali: nulla, infatti, può darti una più intensa sensazione di autenticità, di crescita e di armonia con tutto ciò che conta nella vita.

PASSATO, vedi PRESENTE e CAUSA ED EFFETTO.

PASSAGGIO DEL MARE. Il prodigioso Passaggio del Mar Rosso è descritto nel capitolo 14 dell’Esodo, versetti 19-21:

19. E l’Angelo di ’Elohiym, che precedeva la carovana di Israele, cambiò di posto e dal davanti passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò indietro.

20. Venne così a trovarsi tra le file degli egiziani e la carovana di Israele. La nube era buia per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri per tutta la notte.

21.Allora Mosè protese la mano sul mare. E Yahweh, durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto. Le acque si divisero.

Nella tradizione religiosa questo racconto viene preso alla lettera: ci si immagina cioè che, tra due muraglie d’acqua, come lungo un canyon, il popolo degli ebrei fuggiaschi giunse indenne da una riva all’altra; dopodiché l’esercito egizio tentò a sua volta di passare allo stesso modo, ma Mosè protese di nuovo il braccio, per ordine di Yahweh, e il mare si richiuse «sommergendo i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del Faraone». In realtà, non vi è motivo di ritenere l’episodio del tutto incredibile: tremila anni fa il Mar Rosso era meno profondo di oggi, e i venti e le maree vi aprivano davvero dei guadi, per poche ore, in alcuni periodi dell’anno; per di più, la storia registra altri e non meno sorprendenti interventi della natura, che capovolsero le sorti di guerre impari: nel 492 a.C. una tempesta distrusse la flotta persiana che doveva sottomettere la Grecia; nell’estate del 1588 tre tempeste fecero lo stesso con l’«Invicibile Armata» spagnola, partita alla conquista dell’Inghilterra.

Ma non è l’attendibilità storica ciò che più importa, in un racconto delle SACRE SCRITTURE, bensì il senso che il racconto – sia nel suo insieme, sia nei suoi singoli dettagli – può avere per chi lo legge, in qualsiasi circostanza della sua vita. Sul senso del Passaggio del Mare, del ruolo che vi ebbero l’Angelo, Yahweh, Mosè e il mare stesso, la teologia delle grandi religioni mediterranee ha svariate opinioni. La mia ipotesi, basata in gran parte sulla QABBALAH, è la seguente:

– quel mare è ciò che nella Mappa di p. 11 chiamo il «mondo degli ALTRI», cioè l’insieme dei condizionamenti che abbiamo subito divenendo ADULTI, e che abbiamo trasformato in altrettanti ostacoli tra il nostro io piccolo e l’Io grande;

– l’esercito egizio è quella componente di ciascuno di noi che, per conformismo, per servitù, o per fedeltà a certi valori che ai capi fanno comodo, non ha modo di superare il «mare», ne viene travolta: viene cioè trascinata via dalle correnti del «mondo degli altri»; ed è la componente di noi alla quale dobbiamo rinunciare, quando vogliamo ritrovare l’ENERGIA del nostro Io grande (v. DOVERI);

– Mosè – che in egiziano significava «il Bambino» – è appunto il nostro BAMBINO interiore, ovvero ciò che in ciascuno di noi può guidare verso quella «Terra Promessa» che abbiamo perduto, e che è al di là del «mare»; e il gesto di Mosè è il momento in cui il Bambino, in ciascuno di noi, entra in azione;

– Yahweh ed ’Elohiym sono, rispettivamente, l’ESSERE e il DIVENIRE, e nel Passaggio del Mar Rosso si trovano – per una volta – esplicitamente concordi: il Divenire guida e sovrasta, l’Essere agisce; è quel che avviene, per usare i termini della teologia cristiana, quando riusciamo ad armonizzarci con la Provvidenza divina: quando cioè ci avviamo coraggiosamente per la giusta via, verso quel futuro che a noi veramente spetta, e tutte le circostanze visibili della realtà cominciano ad agire (quanto spesso prodigiosamente!) a nostro vantaggio;

quanto all’«Angelo», rimando alla voce ANGELOLOGIA: ogni Angelo, per l’antica teologia ebraica, è davvero una sorta di canyon attraverso il «mare», poiché ti apre, nel «mondo degli altri», una via alla tua essenza più profonda e più grande: e tu, percorrendo quella via in tutto ciò che puoi fare nel mondo, vai verso la tua «Terra Promessa», senza timore delle correnti. In questo senso, i tre versetti di Esodo 14 racconterebbero non di un solo canyon che si aprì quel giorno d’aprile per tutto il popolo ebraico, ma del canyon, della via che in ogni istante della tua vita si apre per te dal tuo io piccolo verso l’Aldilà, attraverso la tua esistenza quotidiana.

A conferma di ciò, vi è il particolare «codice segreto» di quei tre versetti: ciascuno di essi è formato, in ebraico, da settantadue lettere, e una semplice ars combinatoria permette di leggere nel brano i Nomi dei settantadue Angeli che, secondo la Qabbalah, aprono a ciascuno una via nel mondo. È sufficiente connettere la prima lettera del primo versetto all’ultima del secondo e alla prima del terzo, e si ottiene il Nome del primo dei settantadue Angeli, così:

images

Poi la seconda lettera del primo versetto alla penultima del secondo e alla seconda del terzo, e si ottiene il Nome del secondo dei settantadue Angeli, e così via, fino a che, connettendo l’ultima lettera dell’ultimo versetto alla prima del secondo e all’ultima del terzo, si ottiene il Nome dell’ultimo dei settantadue Angeli:

images

A tale codice allude, nel versetto 19, quel movimento dell’Angelo «che dal davanti passò indietro»; e alla segretezza del codice stesso allude, nel versetto 20, il fatto che gli «egiziani» non potessero vedere «nella notte», mentre gli «ebrei» sì: cioè, per chi non conosce il proprio Angelo tutto è buio come la notte; mentre non vi è notte, per chi sa.

PAURA. È il contrario di quella «pace interiore» che descrivo due pagine più indietro: la sensazione della paura proviene, cioè, dalle FUNZIONI DELLIO meno differenziate, che interferiscono in vario modo con le nostre attività, con le nostre percezioni e con la nostra fiducia in noi stessi e nell’universo. Ne consegue che facilmente la sensazione della paura precede il verificarsi di circostanze temibili nella nostra vita; è bensì la paura stessa (sono cioè quelle interferenze) a spingerci verso situazioni pericolose o, molto più spesso, a vedere pericoli là dove non ce ne sono.

Il principale errore che si possa compiere con le nostre paure è perciò il non volersene accorgere: da un lato, infatti, il rifiuto di accorgersene costringe a limitare notevolmente sia la nostra visuale, sia il nostro campo d’azione; dall’altro, le paure di cui non ci si vuole accorgere non fanno che aumentare d’intensità, e la riduzione di visuale e di attività che ne deriva fa sì che l’individuo incappi ben presto in qualche pericolo serio.

Viceversa, quando decidiamo di accorgerci delle nostre paure, esse diventano altrettante occasioni di crescita, appunto perché ci indicano quali funzioni dell’io abbiamo trascurato. L’indicazione è sempre netta nei casi in cui la paura riguardi noi stessi: se ho paura di chi è più forte di me, o di qualche problema economico, dovrò certamente esplorare la mia funzione di autodifesa, o il mio rapporto con il denaro. L’indicazione è invece un po’ più complicata quando riguarda altri: se per esempio ho paura che possa accadere qualcosa di male a una persona che mi è cara, la funzione dell’io che richiede la mia attenzione potrà essere il mio rapporto con la sconfitta, o il mio rapporto con le profondità, o una delle funzioni del coraggio – e dovrò accertarmi di quale di queste si tratti. Ciò richiede pazienza ma, in compenso, non vi è tentativo di interpretare in tal modo una nostra paura, che non venga generosamente ricompensato.

PECCATO. È il tema principale delle grandi religioni. Dai sacerdoti, il CREDENTE vuol sapere soprattutto ciò che è giusto o sbagliato, e che gli insegnino a calcolare il prezzo dei suoi «peccati», e come pagarlo o come farselo condonare. Ciò ha indubbiamente ragioni profonde (il senso di colpa è uno dei malanni psichici più diffusi, e le religioni non possono non tenerne conto), ma mi pare altrettanto indubbio che quando in una religione l’idea di peccato prevale, altri e più importanti aspetti della religione stessa ne facciano le spese.

Quanto più il credente si preoccupa dei propri peccati, infatti, tanto più si ripiega su se stesso, e fa della religione una questione privata, invece di trarne alimento per migliorare il mondo in cui vive; chi poi può trarne vantaggio non è certo lui, ma soltanto un clero conservatore e fiacco, giacché occuparsi di consulenze psicologico-morali è molto più comodo dell’opporsi allo status quo in nome delle principali verità della propria fede. A ciò si aggiunge il fatto che, nel cristianesimo, la parola «peccato» ha assunto significati che non c’entrano affatto con quel che ne insegna Gesù Cristo: di modo che il cristiano non soltanto si perde il meglio della sua religione, a preoccuparsi tanto dei «peccati», ma se ne preoccupa per lo più nel modo sbagliato.

Per ricostruire il senso di questa parola, occorre tener presente che i Vangeli vennero scritti in greco, da persone a cui era nota la tradizione ebraica; vennero poi tradotti in latino, e in tale traduzione alcuni concetti subirono notevoli modifiche, che nei secoli seguenti prevalsero sui significati originari. Ciò non poteva non avvenire, dato che il cristianesimo divenne la religione dell’Impero romano, e l’Impero parlava e pensava in latino; ma a noi che cosa importa di più: quel che dei Vangeli venne CAPITO a Roma, o quel che essi contenevano davvero?

«Peccato» è appunto uno dei concetti romanizzati: così come viene usata oggi, questa parola è erede diretta del peccatum latino, che significava fondamentalmente «trasgressione alle norme statuite entro una comunità». Peccare est tamquam transire lineas, «peccare equivale a superare limiti stabiliti», scriveva Cicerone. Perciò appare oggi naturale che un «peccato» richieda un rituale di purificazione (la poenitentia), officiato da uno specialista in materia (un sacerdote), dopodichè il trasgressore potrà sentirsi reintegrato; in tal senso, non vi è grande differenza tra la «penitenza per i peccati» e la multa che bisogna pagare quando si superano certe lineas del codice della strada.

Ma nei Vangeli Gesù non officia mai confessioni, né usa richiedere penitenze ai peccatori, e d’altra parte infrange e insegna a infrangere sistematicamente numerose norme sociali (non soltanto ebraiche), senza chiamare mai tali infrazioni «peccati». Nei Vangeli, infatti, «peccato» è hamartia, che in greco significa «errore», «colpo andato a vuoto»: come tale, il «peccato» non è tanto un fatto sociale, quanto piuttosto un problema personale; non dipende da ciò che per gli ALTRI è giusto o sbagliato, ma dagli obiettivi che tu ti sei posto: hamartia è l’aver fatto qualcosa che ti allontana dalle tue mete; e quando ciò avviene, non vi è alcun bisogno di rituali o di ammende per rimediare, ma soltanto di ACCORGERSI dell’errore e di orientare meglio le proprie azioni.

«Soltanto?» domanderebbe qualsiasi cristiano attuale. «Assurdo!» replicarono invece i connazionali di Gesù: per essi, infatti, il peccato era non soltanto – come per i romani – la trasgressione alla Legge, ma anche un vero e proprio disturbo psichico. Si diceva kheT’e, parola che decifrata nei geroglifici che la compongono significa: «il consolidarsi (kh) di un involucro che blocca (T) le tue potenzialità (’)». Oggi lo dovremmo tradurre dunque «trauma», «blocco della personalità»: e non per nulla era credenza comune, ai tempi di Gesù, che i peccati causassero malattie in chi ne commetteva. Il peccatore era un malato, infettatosi nell’anima e di conseguenza indebolitosi anche nel corpo: l’accorgersene poteva semmai sprofondarlo nello sconforto, e non certo guarirlo. A questa convinzione Gesù si opponeva nel modo più radicale, capovolgendola addirittura: diceva di essere come il medico che viene per i malati, e non per i sani – proprio perché il suo insegnamento poteva essere inteso soltanto da chi in questo MONDO sta male. I «sani», i giusti, per Gesù sono irrimediabili: le norme vigenti in questo mondo sono infatti opprimenti e sbagliate, e chi le rispetta è sbagliato a sua volta e complice dell’oppressione:

Guai a voi, che ora (in questo mondo) siete sazi! Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi, perché così facevano i loro padri con i falsi profeti!

Luca 6,24.26

Chi è a posto con le lineas, è come un animale castrato: non ha amore:

Chi ha pochi peccati da farsi perdonare, è perché ama poco!

Luca 7,47

Altro che peccatum. Quanto al «perdono», dai Vangeli risulta che esso doveva consistere, secondo Gesù, semplicemente nella capacità di separare l’errore da colui che l’ha compiuto – proprio come facciamo noi, ogni volta che vedendo inciampare qualcuno pensiamo non: «quello è uno che inciampa», ma solo: «ha inciampato». E tale perdono non doveva mirare, ovviamente, a una reintegrazione nella comunità, le cui norme non possono non far peccare un individuo capace di amore, bensì a un sempre maggiore contrasto con la comunità stessa.

Così, quando il pescatore Simon Pietro gli dice: «ma io sono un uomo peccatore…», Gesù taglia corto e gli annuncia: «Tu d’ora in avanti sarai un pescatore di uomini» (Luca 5,10). Cioè: nelle tue infrazioni alle norme c’è qualcosa di più grande delle norme; finora hai cercato invano di adattarti, di nascondere tale tua grandezza: non farlo più, e non starci nemmeno a pensare, il passato è passato; d’ora in poi, scopri chi sei davvero.

Ma se la religione cristiana avesse adottato questo punto di vista di Gesù, il mondo sarebbe cambiato troppo, e troppo in fretta: e, un po’ per timore che l’umanità non fosse pronta, un po’ per timore delle conseguenze che tale cambiamento avrebbe avuto anche per la funzione della Chiesa, del clero ecc., parve meglio attenersi a Cicerone. Nulla da obiettare (il passato è passato), se non che sarebbe stato più onesto chiamarlo ciceronesimo, invece che cristianesimo. Ma tant’è.

PENSIERO, vedi DIFFERENZIAZIONE.

PERCEZIONI DELL’ALDILÀ. Chiamo così le impressioni che l’io piccolo riceve attraverso la propria IMMAGINAZIONE, mentre conversa con Spiriti guida o viaggia nell’Aldilà.

Nell’Aldiquà, dire che un’impressione sia «ricevuta attraverso l’immaginazione» è contraddittorio, dato che quando immaginiamo noi produciamo immagini, e non le riceviamo; ma nell’Aldilà l’immaginazione, pur restando una nostra facoltà creativa, diviene l’unico senso di cui possiamo disporre: percepiamo attraverso di essa, scopriamo quel che essa può produrre lì – e si tratta dunque indubbiamente di una scoperta di sé stessi (dato che è la nostra immaginazione a far tutto), ma non di ciò che di noi stessi sappiamo già, come ben dimostra lo stupore che tali percezioni producono. D’altronde, non spiegano già i Vangeli che «il Regno dei cieli è dentro di voi»? E lì, appunto, l’immaginazione vi si avventura.

Questo avventurarsi può assumere quattro differenti aspetti:

– alcuni lo avvertono come un’estensione delle normali percezioni sensoriali: hanno cioè, nell’Aldilà, l’impressione di «aver visto determinate cose» o di «aver udito i discorsi del tale o tal’altro Spirito»;

– ad altri sembra di aver soltanto «pensato» le situazioni in cui sono venuti a trovarsi nell’Aldilà, proprio così come un narratore può pensare le storie che sta costruendo;

– altri ancora esitano a definire le loro percezioni come veri e propri pensieri, perché appaiono loro troppo fulminee: a questi, quando si trovano nell’Aldilà, sembra sempre di stare soltanto ricordando con una certa fatica quel che è sfrecciato attraverso la loro mente qualche secondo prima – e che solo nel loro ricordo assume forme di immagini, o di pensieri;

– altri, infine, nell’Aldilà avvertono soprattutto gradazioni più o meno intense di affetti, e nei loro racconti cercano poi di spiegare (anche a se stessi) queste impressioni affettive inventando figure e sensazioni che ad esse si possano ricondurre: dicono, per esempio: «da quel che provavo per lui, sono certa che quel tale Spirito fosse stato un mio amico di un’altra vita » ecc.

Questa varietà di percezioni dell’Aldilà rispecchia le quattro FUNZIONI DELLIO individuate da Jung: Sensazione, Pensiero, Intuizione, Sentimento; e ho notato che, nell’Aldilà, l’immaginazione di ogni persona agisce prevalentemente secondo la funzione che quella persona ha più sviluppata nell’Aldiquà (o «funzione dominante»). Così,

– sono coloro che Jung definisce i «tipi Sensazione», a narrare per lo più di esperienze visive, uditive, tattili, olfattive addirittura, avute nel loro Aldilà;

– sono i «tipi Pensiero» a temere continuamente, nell’Aldilà, di stare soltanto pensando;

– sono i «tipi Intuizione» ad aver spesso l’impressione di essere troppo lenti per cogliere ciò che là avviene; e

– sono i «tipi Sentimento» a percepire l’Aldilà soprattutto attraverso una sorta di papille affettive.

Tutti questi tipi di percezioni cessano, d’altra parte, non appena una conversazione con i MAESTRI tocca argomenti che ci stanno particolarmente a cuore, e sia durante le domande, sia durante le risposte, l’immaginazione si concentra tutta quanta nello SCRIVERE in modo leggibile: allora, prende il sopravvento quella che Jung chiama la «funzione inferiore», o «funzione meno differenziata» – alla qual cosa si accompagna sempre, all’inizio, un leggero senso di vertigine, o addirittura di salto nel vuoto.

È ciò che io chiamo «il non-sapere», ovvero l’utilizzo di facoltà differenti da quelle che l’io ha più sviluppate nel suo livello di coscienza ordinario: grazie a queste ultime l’io, appunto, sa, e sa ricordare, riflettere, progettare ecc. ma inevitabilmente tale suo sapere, per quanto grande e profondo possa essere, ha dovuto adeguarsi alla porzione di realtà con la quale l’io ha a che fare nel proprio livello di coscienza ordinario, e risente di tutti i conflitti, i condizionamenti e i traumi che l’adeguazione ha certamente determinato in lui – e ai quali la «funzione inferiore» non è stata esposta, appunto perché in quella porzione di realtà non è stata adoperata. La «funzione inferiore» può dunque rappresentare, per l’io, l’accesso sia a facoltà nuove e fresche e più libere, sia ad aspetti della realtà che, nel livello consueto della coscienza, gli erano ignoti: l’unica condizione perché così sia, è che l’io abbia il coraggio di guardare, di giungere oltre il proprio sapere e saper fare, e di inoltrarsi in territori in cui sa di non sapere più. Lì, la «funzione inferiore» potrà venirgli in aiuto: il più oscuro ed esotico dei Re Magi gli porterà, cioè, i suoi doni.

In generale, questo atto di coraggio viene avvertito dall’io, oltre che come un salto nel vuoto, come un affidarsi a poteri ignoti (Castaneda lo descrive in termini romanzeschi come il balzo degli stregoni nella voragine, alla fine de L’isola del Tonal); in particolare, durante le conversazioni nella Stanza Tonda, ciascun individuo si accorge di quel coraggio a seconda del tipo psicologico a cui appartiene:

– i «tipi Sensazione» (la cui funzione inferiore è l’Intuizione) hanno l’impressione di star intuendo le parole che scrivono, di stare, cioè, scegliendole come un giocatore sceglie i numeri alla roulette;

– i «tipi Pensiero» (la cui funzione inferiore è il Sentimento) avvertono sentimenti più intensi, come se a guidare la loro attenzione fosse il desiderio di comprendere profondamente quel che sta dicendo una persona amata (o magari temuta, o irritante, ecc.);

– i «tipi Intuizione» (la cui funzione inferiore è la Sensazione) si sentono spinti a porre particolare cura nel tracciare le lettere, nel tenere le gambe in una posizione armoniosa, e avvertono nettamente l’odore dell’inchiostro, la consistenza della carta sotto la mano e, soprattutto, la sensazione di meraviglioso silenzio interiore che fa da sfondo alle loro conversazioni con i Maestri; e

– i «tipi Sentimento» (la cui funzione inferiore è il Pensiero) hanno l’impressione di star riflettendo intensamente, su idee che si succedono rapide e coerenti.

Poi, a conversazione terminata, o nelle brevi pause della conversazione stessa, ricominciano le percezioni «para-senso-riali», per i tipi Sensazione; o il dubbio di stare inventando, per i tipi Pensiero; o l’impressione di ricordare ciò che è appena avvenuto troppo in fretta, per i tipi Intuizione; o le percezioni a pixels d’affetto, per i tipi Sentimento.

A mio parere, tutto ciò avviene perché, durante quelle conversazioni su ciò che ci sta più a cuore, noi CHIEDIAMO: e chiedere è crescere, cioè superare se stessi, volgendo via la nostra ATTENZIONE dai modi in cui siamo abituati ad adoperarla nell’Aldiquà. Quando invece non chiediamo, o chiediamo meno, la nostra attenzione rimane o ritorna nella modalità percettiva caratteristica della «funzione dominante».

Altra questione è che cosa precisamente venga percepito, nell’Aldilà. In quel «Regno dentro di noi» vi è davvero un mondo, o una serie di mondi paralleli al nostro?

Io ritengo di no. Un mondo come noi lo intendiamo ha bisogno, per esistere, di coordinate spaziali e temporali simili, o perlomeno raffrontabili, a quelle che vigono per noi sul nostro pianeta: e in quella dimensione psichica non vi sono né lo spazio né il tempo come noi siamo in grado di intenderli. Non vi è un confine tra il «prima» e il «poi» e l’«adesso», ma il tempo si può tranquillamente percorrere in ogni direzione così come noi sulla Terra percorriamo lo spazio; quanto allo spazio, nell’Aldilà non vi è alcuna distanza che non possa essere annientata in un attimo, da un semplice «sguardo», per i tipi Sensazione, o da un’intuizione, per i tipi Intuizione, da un pensiero, per i tipi Pensiero, o dal desiderio, per i tipi Sentimento. Dunque non c’è, là, qualcosa che possiamo legittimamente definire un «mondo».

Il che non significa che là non ci sia alcunché. Al contrario, io penso che là ci sia semplicemente tutto: cioè tutto quello che nel nostro universo noi percepiamo nel modo che ci è proprio nell’Aldiquà e, in più, tutto quello che nel nostro universo non percepiamo in alcun modo. Sono inoltre convinto che quel che noi percepiamo nel nostro universo sia ciò di cui ancora non sappiamo abbastanza, mentre quello che non percepiamo sia non soltanto quello che sappiamo perfettamente, ma addirittura il soggetto, il centro del nostro percepire, che dà forma a tutto il resto – proprio così come il nostro occhio dà forma, per noi, al mondo visibile, ed ciò che guardandoci attorno non vedremo certamente mai.

Nel nostro universo noi percepiamo, per esempio, l’acqua, o la luminosità delle stelle: e significa che noi percepiamo un determinato qualcosa (poniamo, come dice Castaneda, un «gruppo di filamenti di energia») sottoforma di ciò che chiamiamo «acqua», e un altro qualcosa (un altro «gruppo di filamenti d’energia») sottoforma di ciò che abbiamo imparato a chiamare «stelle». Che cosa siano, perché ci siano, cosa significhino di per sé l’acqua e le stelle, noi non lo sappiamo né possiamo saperlo, e appunto perciò possiamo percepirle: appunto perciò possiamo, cioè, situarle all’esterno di noi.

Se fossero invece «dentro di noi», se fossero noi, non potremmo vederle, così come la pupilla non può vedere se stessa quando si guarda attorno.

Il problema è se, a trovarsi all’esterno di noi e ad essere dunque percepibili da noi siano quel qualcosa che chiamiamo «acqua» e quel qualcosa che chiamiamo «stelle», oppure l’aspetto che quei due qualcosa hanno per noi. In altre parole: l’acqua e le stelle sono veramente l’acqua e le stelle, oppure sono aspetti della nostra anima che noi ancora non abbiamo compreso, e le parole «acqua» e «stelle» indicano soltanto il modo in cui non li comprendiamo? (Non avviene forse, e spesso, che certi modi d’una persona attirino la nostra attenzione, o perché ci sembrano bellissimi o perché ci disgustano e ci irritano: e poi ci accorgiamo che quel che in essi ci sembrava mirabile o ripugnante era il riflesso di qualche nostra qualità, di cui non avevamo ancora preso coscienza?). A tale problema si sono dedicati, ovviamente, molti filosofi e mistici, i più sostenendo la prima opzione (l’acqua è l’acqua, e stop) e pochi sostenendo la seconda (l’acqua è uno dei veli di Maia ecc.). Io sono tra questi ultimi. Ritengo cioè che l’energia dei «gruppi di filamenti» che noi chiamiamo «acqua» o «stelle» sia quella di cui è costituito anche il nostro Io, e che noi non percepiamo il qualcosa di cui «acqua» e «stelle» consistono non perché si tratti di una qualche «cosa-in-sé» che non ci è accessibile, ma perché quel qualcosa è in noi.

Penso che non sia sempre stato così, e che solo da qualche millennio l’uomo abbia cominciato a esercitare un sistematico sforzo su sé stesso per impedirsi di sapere che l’energia di cui egli consiste è tutt’uno con quella di tutto ciò che nell’universo vi è e diviene: onnipresente anch’essa come il Dio dei monoteismi, e come Lui onnipotente – se essa ha dato forma a tutto. Arrivare a percepire questa unità, arrivare cioè all’Aldilà di ogni cosa e, in esso, alla più profonda essenza di noi stessi, è oggi un culmine dell’esperienza mistica; un tempo, probabilmente, era normale – come lo era per Bellerofonte o per Orfeo o per san Francesco parlare con gli animali, cioè far sì che il qualcosa di cui ciascuno di questi ultimi consiste comunicasse con il qualcosa di cui consiste l’io umano. A tale sforzo millenario do il nome di CONCRETISMO, e fu certamente una limitazione, costò caro, perdemmo tutto, e dunque non lo si sarebbe compiuto se non ci fosse stato un guadagno, uno scopo. Penso che lo scopo fosse quello di dar modo all’uomo di acquistare coscienza di sé in quanto io e individuo – e mi sembra lo testimoni il progresso della civiltà in questi ultimi millenni, dalla completa identificazione del singolo nel clan, nello Stato, nella classe, fino all’emancipazione che finalmente molti riescono a raggiungere da tutte queste strutture. Ma ciò non toglie né che siano possibili altre fasi evolutive diverse da questa, né che l’io, una volta che sia riuscito a guadagnare in tal modo se stesso, possa prendere in considerazione l’idea di recuperare il resto.

È un’idea, questa, ben riconoscibile nella Genesi, nell’episodio che precede immediatamente la cosiddetta «creazione di Eva», cioè la scoperta della facoltà umana di percepire l’invisibile:

E Yahweh disse: «Non è bene che l’’adam sia solo: gli farò un aiuto che lo rispecchi». E Yahweh plasmò dall’’adamah tutte le vite animali che vi sono in natura e che volano nei cieli, e li portò dinanzi all’’adam, per vedere che nome avrebbe dato loro… E l’’adam dava nomi a tutti gli animali che camminano e che volano nei cieli. E l’’adam non trovava in essi un aiuto che lo rispecchiasse.

Genesi 2,18-20

L’’adam è il modo in cui noi ci siamo abituati a percepire la cosiddetta realtà oggettiva, l’’adamah è l’insieme dei qualcosa che, della realtà, non percepiamo (v. EVOLUZIONE). Qui Yahweh vuole appunto mostrare all’’adam quel qualcosa «che lo rispecchia» e che può «aiutarlo»; e l’’adam non lo vede, e «dà i nomi» (al plurale), cioè dirige la propria attenzione, attraverso il linguaggio, sull’aspetto percepibile degli animali, invece che sul qualcosa da cui essi sono stati «plasmati»; Yahweh sembrava aspettarsi un solo nome, che probabilmente era «io» (dato che compito di tutte quelle vite era, nelle intenzioni del Dio, che rispecchiassero l’’adam). Allora, prosegue il racconto, Yahweh «fa scendere un torpore sull’’adam, che chiuse gli occhi» e lo guida alla scoperta di «Eva», dell ’ishah, nella quale vede finalmente uno «specchio» di ciò che vi è in lui, e un «aiuto».

Noi, oggi, con i nostri Spiriti guida – anch’essi autentiche ’ishah – siamo esattamente a questo punto (nulla, infatti, di quel che è narrato nella Genesi è avvenuto una volta soltanto, ma può avvenire sempre): nel nostro Aldilà gli aspetti percepibili della realtà cominciano, appunto, a scomparire, e l’attenzione comincia a cogliere sempre più i qualcosa e, attraverso di essi, l’energia unica e immensa di tutto. È in questa scoperta che noi entriamo, dalla STANZA TONDA in avanti.

L’impresa, lì, consiste nel fare in modo che, in questa scoperta dell’energia unica, non vada perduto il linguaggio, cioè la principale conquista che l’uomo ha raggiunto nella sua fase concretista. Ciò esige quella che in filosofia si chiama una sintesi: un superamento sia dell’unità di tutto, sia della molteplicità espressa dal linguaggio umano, in un diverso sistema, nel quale nessuno dei due elementi sia escluso.

E appunto a ciò mira ogni conversazione nell’Aldilà, quale che ne sia l’argomento: a ritrovare la connessione, l’unità con qualunque cosa o essere vivente di cui si stia parlando; a individuare i LIMITI percettuali che separano la nostra energia dall’energia di quella cosa o di quell’essere vivente (e nelle conversazioni con i Maestri, tali limiti diventano i problemi per i quali si chiede consiglio); e superare quei limiti – per quanto di volta in volta è possibile.

PERDONO, vedi RIVIVERE.

PERIODI DELLE CIVILTÀ. All’inizio degli anni Venti il filosofo tedesco Oswald Spengler spiegava – ne Il tramonto dell’Occidente – che le civiltà attraversano ben precise fasi di ascesa e decadenza. Condivido questa sua idea, e ancor di più le ulteriori elaborazioni che ne diede, una cinquantina d’anni dopo, lo storico russo Lev Gumylëv, le cui opere purtroppo non sono tradotte in Italia.

Secondo Gumylëv, le fasi principali che ciascun ethnos attraversa sempre di nuovo nella propria storia sono sei:

a)  ascesa, quando l’energia dell’ethnos si risveglia e cresce;

b)  acme, quando l’energia dell’ethnos arriva al culmine (e si hanno allora le nascite di imperi, come quello islamico nel VI-VIII sec.);

c)  discesa, quando l’energia dell’ethnos diminuisce;

d)  omeostasi, quando l’ethnos raggiunge un’armonia sia al proprio interno sia con il proprio ambiente (ed è allora particolarmente vulnerabile alle conquiste altrui, come per esempio il Regno di Napoli attorno al 1860, o le tribù degli indiani nordamericani in quello stesso periodo);

e)  decadenza, quando l’energia dell’ethnos si va esaurendo (e si hanno allora i maggiori risultati nelle arti);

f)  relitto, quando l’ethnos, completamente privo di energie proprie, si disgrega (e in questa fase sembra attualmente trovarsi l’Italia).

La durata di ciascuna fase (da alcuni decenni a un paio di secoli) dipende da vari fattori, non solo culturali e politici, ma anche genetici, climatici ecc. ma non mai dall’agire dei singoli individui: il singolo non ha più potere su queste fasi, di quanto ne avrebbe su una valanga, e provasse a opporsi come sia ai processi di esse, ne verrebbe spinto da parte o distrutto.

Ciò che mi piace particolarmente in questa teoria, è proprio il ruolo che essa assegna a ciascuno di noi. Per certo il nostro io non ha alcun LIMITE a cui doversi rassegnare, e può dunque proporsi qualsiasi obbiettivo, non importa quanto impossibile; ma tale illimitatezza vale soltanto quando l’individuo è realmente tale, e non si identifica invece con strutture collettive (partiti, religioni, nazioni ecc.): in questo caso, egli si carica infatti dei problemi e dei limiti che non lui, ma quella particolare struttura collettiva ha prodotto, e che essa soltanto può superare. Compito dell’individuo, nel delineare i propri obiettivi, è bensì quello di valutare con sapienza e adeguati criteri le condizioni delle strutture collettive nelle quali si trova a vivere, non diversamente da come, nell’intraprendere un viaggio, si valutano le condizioni del territorio senza pretendere di cambiarle. Come dice Isacco nella sua benedizione al figlio: «Ti servano le nazioni!» (Genesi 27,29). Cioè, sia la loro storia a servire i tuoi scopi, grandi o piccoli che siano, e non tu a servire gli interessi di chi, guidando le nazioni, approfitta per professione dei loro periodi più o meno buoni.

A integrazione dello schema di Gumylëv, i miei Maestri mi hanno suggerito di considerare anche l’idea di una ciclicità dei periodi storici di ciascun continente, basata su dodici cicli di 6 anni ciascuno. Ogni ciclo ha le sue caratteristiche e offre particolari opportunità. In pratica, si tratta di valutare, per ciascun anno, quel che era avvenuto 72 anni prima: se prendiamo per esempio il famigerato 2012, e ne sottraiamo 72, otteniamo 1940, inizio di un pessimo periodo della storia d’Europa; se dal periodo 1940-1946 sottraiamo ancora 72, si ottiene 1868-1874, cioè gli anni che videro la distruzione di vari Stati italiani, la guerra franco-prussiana, la Comune di Parigi; se sottraiamo ancora 72, si ha 1796-1802, il primo periodo delle guerre napoleoniche. E questo particolare ciclo viene definito dai miei Maestri con il titolo «Non si può aiutare nessuno». Il ciclo precedente, cioè il nostro attuale, è secondo i miei Maestri quello della «Ribellione»: un periodo cioè in cui chi impara e insegna a ribellarsi sta facendo quel che di meglio può fare per sé e per gli altri. Oggi infatti la situazione generale non è molto diversa dal 1934-1939, quando in Paesi sventuratamente obbedienti come l’Italia, la Germania, la Russia ogni persona sensata – se avesse saputo quel che stava per succedere – avrebbe ritenuto giusto ribellarsi o andarsene. Se sottraiamo 72, risulta 1862-1868, cioè il periodo delle guerre risorgimentali, oltre che della guerra di secessione negli USA; sottraiamo ancora 72, e si ha 1790-1796, il periodo della Rivoluzione francese. La validità di tali cicli, cioè le conferme che si trovano sottraendo settantadue a un qualsiasi anno della nostra storia, non risalgono oltre il 1750: attorno alla metà del Settecento si formò infatti quel «soggetto collettivo» di cui questi cicli costituiscono le funzioni, e che è la nostra civiltà occidentale – prima del 1750 non erano ancora entrati a far parte di tale civiltà né l’Impero Russo (che divenne veramente europeo solo con la zarina Elisabetta e le Guerre di Successione), né l’America del nord (che cominciò ad acquistare e a far pesare la sua identità nella civiltà occidentale solo con i fermenti indipendentisti che in quel periodo ebbero appunto inizio).

L’elenco completo di questi cicli è il seguente:

images

I titoli dei vari cicli sono nel consueto stile dei Maestri: quanto più vi si riflette, cioè, tanto più appaiono significativi. A grandi linee:

– «Oggigiorno» indica un periodo in cui ciò che più importa alla maggioranza è il presente, e in cui dunque ha maggior successo ciò che risponde a bisogni attuali;

– «Domani» è un periodo in cui l’attenzione della maggioranza è invece volta all’avvenire, e in cui ha maggior successo tutto ciò che annuncia o promette sviluppi futuri;

– «Sempre» è un periodo in cui, negli avvenimenti, si manifestano con la maggior potenza cose e condizioni che da un lato sono destinate a durare a lungo (per esempio la rivoluzione russa del 1917) e, dall’altro, corrispondono alle più profonde necessità e strutture della natura umana;

– «Problemi con il sempre» è il periodo in cui quel che, nel periodo precedente, era apparso duraturo comincia a incontrare complicazioni, e in cui tali complicazioni attirano più di ogni altra cosa l’attenzione della maggioranza;

– «Dominazioni» è un periodo in cui hanno maggior fortuna coloro che vogliono imporre la propria volontà al prossimo (per esempio il trionfo del nazismo e dello stalinismo, meno di un’ottantina d’anni fa; e i mal dissimulati totalitarismi di G.W. Bush, Putin, Berlusconi ecc. nel periodo precedente a quello in cui ora viviamo);

– «Apice della tensione» è il periodo di situazioni sul punto di esplodere (si pensi alla guerra fredda, una sessantina d’anni fa);

– «Pasqua» è il periodo di un lento, faticoso ristabilimento della normalità;

– «il Muro» è il periodo in cui si forma una chiara idea degli ostacoli che occorre superare per entrare in un’epoca migliore (fu nel periodo del «Muro» che Khruscëv eresse il muro di Berlino);

– «l’Epoca Massima» e «le Cose Mirabili» sono decisamente i periodi migliori, in cui si hanno le grandi realizzazioni e la possibilità di nuovo sentire che accomuni tutti i popoli dell’Occidente.

A quel che ho notato finora, esaminando il ricorrere dei vari cicli, ciascun periodo può agire sul successivo in due modi, uno collettivo e uno individuale, e precisamente:

– quanto più la maggioranza di una nazione attua le potenzialità di un determinato periodo, tanto più lievi sono i problemi che quella nazione incontrerà nel periodo successivo (per es., nel 1935-36, in un periodo di «Ribellioni», la Spagna combatté una dura guerra rivoluzionaria, e nel periodo seguente fu risparmiata dalla Seconda Guerra Mondiale; in Italia, in Germania, in Russia, tra il 1934 e il 1940 non vi furono ribellioni, e nel periodo seguente la guerra fu, in quegli Stati, particolarmente disastrosa);

– quanto più un individuo riesce ad attuare le potenzialità di un determinato periodo, tanto più facilmente verrà a trovarsi in situazioni privilegiate nel periodo successivo – e ne conseguirebbe che chi, nei prossimi due o tre anni, saprà ribellarsi in un qualunque modo, non verrà a trovarsi, nel prossimo periodo, nella situazione di «non poter essere aiutato da nessuno».

POTERE, vedi FUNZIONI.

PREGARE, vedi CHIEDERE e ENERGIA

PREMONIZIONI. Alcuni tengono in gran conto le premonizioni, cioè le percezioni più o meno nette di qualcosa che deve avvenire. Io ritengo invece che sia ottima cosa farne a meno, per due motivi.

– Innanzitutto, la premonizione è una delle misure drastiche a cui le strutture superiori del nostro Io ricorrono quando diveniamo troppo ottusi: è come un’alzata di voce o uno spintone; e ne deriva che abbiamo premonizioni quando non stiamo usando abbastanza le nostre facoltà migliori: altrimenti, andremmo incontro all’avvenire nel modo appropriato, senza bisogno di ricevere alcuna indicazione;

– in secondo luogo, la premonizione accredita facilmente un’idea deresponsabilizzante e fantasmatica del FUTURO, come di qualcosa di «già scritto» che dovrà assolutamente prodursi in certe forme, indipendentemente dal volere dell’individuo: ma un futuro del genere non vi è affatto.

Le cose accadono come e quando tu vuoi che accadano, sia in bene, sia soprattutto in male (tipico della maggioranza delle persone è infatti desiderare pretesti per lamentarsi). Per avere una premonizione è dunque necessario che tu ti sia scisso dalla tua volontà, che crea il tuo futuro, e che l’abbia PROIETTATA su situazioni e persone, di cui hai oscuramente deciso di volerti sentire in balìa; e qualora ti capitasse di sentirti premonire, la prima cosa da fare sarebbe appurare perché tu abbia perso a tal punto il contatto con te stesso – e non certo emozionarsi e vantarsi d’aver ricevuto un «messaggio» dall’invisibile.

PRESENTE. Il presente è l’unica dimensione reale di cui disponiamo: dal nostro presente dipende infatti ogni immagine che possiamo avere del passato; e solo da quel che sappiamo, facciamo e riusciamo a essere nel presente, dipende anche ciò che potrà avvenirci in futuro.

Purtroppo, al nostro TU avviene l’inverso.

Da un lato, il presente del tu risulta ingombro di elementi irrisolti del passato, che per durare ancora esigono continui sacrifici delle nostre capacità, delle nostre aspirazioni, dei nostri rapporti con altre persone, del valore che a esse attribuiamo: quante volte abbiamo detto «Vorrei tanto fare la tal cosa, ma certi impegni che ho preso tanto tempo fa non me lo permettono»? Oppure ci siamo dati il comando: «Ci sono di certo molte persone interessanti, ma non ne incontrerò mai una interessante come quel tale che frequentavo anni fa»?

D’altro lato, il tu è stato addestrato a considerare il presente in funzione di un futuro più o meno lontano – come una somma di denaro con cui acquistare qualcosa che arriverà sempre poi, poi, poi, e mai adesso. Quante persone al mattino si svegliano non per svegliarsi, ma per fare colazione e andare al lavoro? E si addormentano la sera non per addormentarsi, ma per svegliarsi il mattino seguente? Tale addestramento ha inizio fin dalle elementari, quando impariamo a fare i compiti per domani, e perdura fino alla pensione – quando i meglio addestrati (che sono anche, spesso, i migliori addestratori), non avendo più qualcosa di preciso che li attenda in futuro, avvertono il loro presente come inutile, e perciò muoiono.

Per queste ragioni, con il termine «presente» intendo non la condizione in cui chiunque ritiene di trovarsi in questo istante, bensì una conquista da compiere: il presente è, propriamente, soltanto ciò di cui ti accorgi, è l’ACCORGERSI stesso. Nel pensare, nel sentire, nel fare o, soprattutto, nel credere, io posso infatti essere profondamente immerso nel passato mio o altrui, o tutto teso al futuro: ma nell’attimo in cui mi accorgo di qualcosa, sono e posso essere soltanto qui e ora.

Ed è quel che avviene sempre nell’Aldilà, dove tu sei solo se ti accorgi di esserci. Lì il presente è al tempo stesso l’unica dimensione reale, e l’unica immaginabile (e perciò percepibile, dato che lì percepiamo soltanto attraverso l’IMMAGINAZIONE). Anche quando i MAESTRI conducono il nostro io piccolo in qualche punto del passato, per farci rivivere e superare determinati traumi, o quando ci mostrano quel che avverrà in futuro a questa o quella collettività umana, sperimentiamo tutto ciò sempre e soltanto come presente – appunto accorgendocene.

Ciò suscita un certo smarrimento, all’inizio: trovarsi interamente nel presente ha, sulla mente, un effetto paragonabile a quello che un improvviso aumento di luce avrebbe sulle nostre pupille. Ma ben presto diviene piacevole, tanto da dare la sensazione che solo nell’Aldilà si riesca a essere davvero se stessi.

Il problema è che, poi, non se ne ricorda nulla di preciso, appunto perché l’Aldilà è tutto quanto presente, e la nostra MEMORIA può contenere soltanto qualcosa di passato. Anche gli appunti che si possono prendere durante le conversazioni con i Maestri servono a poco: quando li si rilegge nell’Aldiquà, sembra sempre che qualcosa ne vada perduto di minuto in minuto – che cioè dopo averne letto tre frasi, per quanto semplici, non si riesca a ricordarne più la prima; e se si rilegge di nuovo e si tiene a mente la prima frase, sembra di non poter ricordare la terza, e via dicendo. L’assoluto presente dei Maestri si estende, insomma, anche a ciò che da loro si apprende: lo scoprire, l’accorgersi, anzi lo stare accorgendosi, è l’unico modo di avere ciò che essi possono dare – e stare accorgendosi e ricordarsi di essersi accorti non è certo la stessa cosa.

Ho cercato a lungo e in molti modi di risolvere questa incompatibilità, prima di scoprire che era, in realtà, semplicissimo. Paradossalmente, l’unico modo di riottenere quel che si è appreso nell’Aldilà è continuare a scoprirlo, cioè scoprirne di più, trovarne il seguito. Ed è ciò che Gesù spiega riguardo al modo di assimilare il suo insegnamento, quando dice:

chi ha sete venga all’io e beva… e fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo grembo

Giovanni 7,37-38.

L’immagine è, certo, un po’ forte, e tuttavia rende precisamente l’idea.

Per tale ragione, tutte le volte che si prova a comprendere, o a spiegare ad altri, un discorso dei propri Maestri, si riesce nell’intento solo se tale discorso risulterà differente da come lo si era compreso o spiegato la volta precedente: più ampio, più articolato – come se riferendolo si notasse, a ogni frase, qualche significato o implicazione nuova, che fino a quel momento sfuggiva. La verità è che avevi già notato e compreso tutto quel che occorreva, ma che mentre lo comprendi o ne parli quel discorso prosegue.

Viceversa, e per lo stesso motivo, tutte le volte che, riferendo un discorso dei Maestri, hai l’impressione di esporlo esattamente così come lo avevi ricevuto e trascritto, tale impressione è falsa – e stai ingannando te stesso o le persone che ti ascoltano.

Il che esclude, evidentemente, che qualcuno possa farsi nunzio, ànghelos di Maestri invisibili, cioè basare la propria credibilità su una serie di discorsi ricevuti da loro ed esigere che altri li intendano nello stesso modo in cui lui li ha intesi. Se infatti si tratta davvero di discorsi di Maestri, non faranno che evolversi e cambiare sempre, e venir intesi e continuati da chiunque altro in modo diverso. Si può solo, semmai, insegnare ad ascoltarli. Mentre per ciò che riguarda il tuo personale rapporto con ciò che apprendi nell’Aldilà, assai più utile e impegnativo dell’insegnarlo ad altri è il metterlo in pratica: cioè discutere, con i Maestri, di questioni concrete e dare alle loro indicazioni un seguito sottoforma di decisioni da prendere nell’Aldiquà, invece che in forma di parole soltanto.

PROFESSIONE, vedi FARE.

PROIEZIONE. Si ha una proiezione tutte le volte che un io si sforza di trasferire su altre persone un contenuto psichico che appartiene a lui soltanto. Ciò può avvenire perché quel contenuto appare all’io troppo sgradevole, oppure perché quel contenuto gli appare troppo al di sopra delle sue capacità: in entrambi i casi si tratta di qualcosa che l’io non ha il coraggio di riconoscere in se stesso – con la differenza che, nel primo caso, l’io odierà o disprezzerà coloro sui quali ha esercitato la proiezione, mentre nel secondo caso li ammirerà, o se ne innamorerà.

Entrambi i casi sono esaminati nei Vangeli, in passi solitamente molto fraintesi.

Al caso della proiezione spregevole è dedicata l’esortazione a «porgere l’altra guancia», come si legge nelle cattive traduzioni (Matteo 5,39): in realtà, ciò che Gesù intende dire lì è che, chiunque sia la persona con cui stai litigando, la lite viene superata solo se riesci ad accorgerti di star proiettando in quel tuo avversario un aspetto di te, un tuo lato (non una «guancia») che detesti.

Al caso della proiezione mirabile sono dedicati invece i numerosi passi sulla rinuncia ai propri legami, quali per esempio «Se uno viene verso il proprio io e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle…» (Luca 14,26) oppure: «dove è il tuo tesoro, lì è anche il tuo cuore» (Matteo 6,21): anche con ciò, infatti, Gesù intende dire che puoi scoprire il tuo io autentico soltanto quando compi quello che nella psicologia attuale si chiama il ritiro delle proiezioni, quando cioè ti riappropri di quei contenuti che avevi trasferito su altre persone – come appunto i valori della paternità, della maternità ecc.

Solo allora il tuo io diventa abbastanza compatto e forte da apprezzare anche le altre persone per quel che veramente sono, inclusi i parenti: a onorarli, cioè, come dice il celebre comandamento, né più né meno di quel che meritano. Quanto all’«odiarli», come esorta a fare il Vangelo di Luca, o al vedere in essi dei «nemici», com’è in Matteo 10,36, ciò è riferito certamente al senso di fastidio che quel meccanismo proiettivo suscita quando ci si accorge di quanta parte della tua esistenza vi era rimasta imprigionata; come non detestare un’illusione, un inganno, quando li si scopre? E in tal senso, ciò che odierai non saranno certamente le persone che ti sono parenti, bensì il senso dei termini con cui li hai indicati finora («madre», «padre», «moglie» ecc.).

Un’altra implicazione di quell’«odiare» mi si è ben chiarita solo quando, una decina d’anni fa, ne parlai con i miei MAESTRI; riguardo al concetto di «nemici» mi dissero:

«Chi ha dei nemici, è perché non si è ancora accorto di avere certe capacità che quei nemici non hanno. Al contrario, gli amici sono di due tipi: o sono persone che hanno poteri simili a quelli che tu sai di avere, o sono persone che non hanno i poteri che sai di avere tu. E perciò con gli amici ci si intende bene. Con i nemici, invece, non ci si intende in nessun modo. Ti sono nemici appunto perché percepiscono in te poteri che tu non sai di avere, e non possono capire di che cosa si tratta, perché loro quei poteri non li hanno. Ti sentono come estraneo, diverso, e non capisci perché. Ti detestano, litigate. E continua così fino a che non ti accorgi di avere quei poteri che loro sentono in te. Accorgertene è far splendere il sole».

(cfr. Il frutto proibito della conoscenza, p. 240)

Il fenomeno della proiezione, con tutta la capacità d’autosuggestione che richiede, concorre d’altra parte a formare l’immagine degli stessi Maestri, dell’interfaccia cioè tra l’io piccolo e l’Io grande. Anche nei Maestri l’io piccolo proietta infatti contenuti e doti che non può razionalmente ammettere di avere, ma che nondimeno appartengono a quell’Io di cui esso è parte (ciò che propriamente l’io piccolo non osa riconoscere è appunto il suo essere tutt’uno con le altre componenti dell’Io). La differenza, rispetto alle proiezioni che avvengono nell’Aldiquà, è che queste ultime servono a limitare le possibilità dell’individuo a vantaggio di altre persone, mentre la proiezione negli Spiriti guida serve a impedire che l’io piccolo rimanga chiuso entro i suoi limiti abituali, e a permettergli di entrare in contatto con le conoscenze e le capacità di quelle altre componenti del suo Io grande.

Anche queste nostre proiezioni nell’Aldilà possono, e devono, anzi, venir ritirate, a un certo punto: è ciò avviene sempre per iniziativa dei Maestri stessi, i quali annunciano che il loro tempo è finito, e scompaiono, per lasciar posto ad altri Maestri più alti, che a loro volta, dopo qualche mese o anno, scompariranno per lasciar posto ad altri più alti ancora. Il loro scomparire (sempre improvviso) non lascia, inoltre, il tempo di «odiarli» o di avvertirli come «nemici» – e anche in questo vi è certamente, in loro, qualcosa da apprendere.

PSICHE, vedi ANIMA.

PSICOLOGIA. La psicologia è, oggi, lo studio della psiche considerata come un oggetto analizzabile, al pari di qualsiasi altro oggetto della nostra percezione. Ciò, naturalmente, implica una grave contraddizione, dato che quel che secondo la psicologia attuale costituisce il centro della nostra psiche, cioè l’io, è in realtà il soggetto – e non un oggetto – della percezione.

Gli psicologi non si curano di questo impaccio: semplicemente stabiliscono che il loro io può studiare la psiche. Da cosa dipenda questo straordinario privilegio, non si sa; nulla lo differenzia dunque da un atto di fede. Per poter considerare la psicologia attuale una scienza, occorre cioè CREDERE che, per ragioni imperscrutabili o segrete, nel lavoro dei suoi esponenti non valga la consueta differenza tra soggettivo e oggettivo. Nessuno si sognerebbe mai di basare lo studio della storia di un popolo soltanto su ciò che quel popolo dice di sé, o di giudicare una causa in tribunale prendendo in considerazione soltanto le dichiarazioni dell’imputato; chi invece sostiene che la psicologia attuale sia una scienza, crede che sia attendibile e sufficiente ciò che in essa l’io dice di se stesso e di ciò che, secondo lui, nella psiche non è io (l’inconscio individuale, l’inconscio collettivo ecc.).

Io non condivido questa fede, e ritengo perciò che vi siano due sole possibilità: o la psicologia non può conoscere l’oggetto del proprio studio, e in tal caso non è una scienza ma solo un malinteso; oppure tale oggetto non è affatto la psiche reale ma solamente un «poniamo che», una convenzione stabilita un secolo fa da alcuni audaci psichiatri, e in tal caso i suoi concetti sono perfettamente paragonabili ai pezzi degli scacchi, e per cent’anni Freud, Jung e i loro continuatori hanno discusso le regole in base alle quali giocarvi.

A differenza degli psicologi attuali, sono convinto che l’io e ciò che esso chiama psiche possano essere studiati solo a condizione di estendere la coscienza, o ATTENZIONE, molto più di quanto la razionalità è disposta a concedere: a condizione cioè di accedere a un Aldilà, dal quale tutte le strutture e le dinamiche di cui l’io consiste nel mondo divengano osservabili dal di fuori. A quest’altro studio della psiche sono dedicati tutti i miei libri.

Questa mia convinzione contrasta ovviamente con l’idea – molto cara alla moderna civiltà occidentale – che scienza, filosofia e metafisica non debbano sconfinare l’una nel territorio delle altre: se infatti si chiama in causa un Aldilà per l’analisi della psiche, tutte e tre queste specie di conoscenza sono coinvolte. Lo studio dell’io diventa possibile solo se si accompagna allo studio dell’anima, e quest’ultimo è possibile solo se si esplorano le ipotesi che sull’anima sono state elaborate nelle Scritture, nei miti, nelle teologie, nella filosofia ecc. In tal modo, per quest’altra psicologia che sto costruendo, il lavoro di Freud, Jung, Adler, Binswanger ecc. mi è altrettanto utile quanto la Bibbia, i Vangeli, la Qabbalah, i vasi greci, le fiabe da un lato, e Platone, Aristotele, Plotino, Dante, Husserl, Sartre dall’altro (e quanto più scopro in tale prospettiva, tanto più l’idea di tenerli separati gli uni dagli altri mi pare una semplice superstizione); mentre ciò che più di tutto mi è utile, è il contributo di quelli che io chiamo i miei MAESTRI, gli Spiriti guida, con i quali discuto della psiche umana così come discuterei di una catena montuosa con degli specialisti di geografia aerea.

È chiaro che posso permettermi questo approccio «multidisciplinare» anche perché non sono uno psichiatra; l’Ordine dei medici avrebbe altrimenti da ridire. Ma confido che i risultati a cui sto giungendo possano giovare anche sul piano terapeutico. In attesa che i diretti interessati se ne accorgano, il «malato» che più mi interessa è la nostra cultura, con i suoi molti, morbosi tabù, i suoi totem tarlati, le sue compulsioni e ossessioni, di cui la psicologia attuale non parla (e di cui essa è anzi, in larga misura, il prodotto): il mio modello della psiche ha, sotto questo rapporto, un ben preciso intento terapeutico, il cui scopo è cambiare l’immagine del mondo in cui viviamo – né vedo cos’altro si possa onestamente fare, con il MONDO in cui ci è toccato nascere.