M

MAGIA, vedi FARE.

MALATTIE, vedi ANGELI e CHAKRA.

MAESTRI. Chiamo così gli Spiriti guida, cioè le immagini di esseri viventi attraverso le quali si riesce a stabilire una connessione utile e durevole tra l’io piccolo e l’Aldilà.

Alcuni credono fermamente che quelle immagini siano esseri viventi (per lo più, defunti illustri, ancora vivissimi fuori dal nostro mondo), ma non mi risulta che ciò sia indispensabile né per stabilire la connessione, e nemmeno per migliorarla. Penso anzi che il considerarli come una specie di fantasmi sia RIDUT-TIVO, non soltanto nei loro riguardi ma, di riflesso, anche nei riguardi nostri: se, infatti, i Maestri si differenziano da noi solo per il fatto di essere anime prive di corpo, allora anche noi, rispetto a loro, siamo soltanto anime vincolate al nostro corpo – e ciò può piacere ai principianti della spiritualità, ma di certo non è vero: noi siamo, e i Maestri sono, molto di più. La mia ipotesi, anzi, è che il nostro essere molto di più e il loro essere molto di più abbiano un’estensione tale, da arrivare a un certo punto a compenetrarsi.

Alla scoperta di come e quando ciò avvenga ho dedicato molti anni. Ciò che volevo chiarire (sia nella mia esperienza personale, sia in ciò che altri narrano dei loro incontri con i Maestri: da Dante, a Yeats, a Jung, a Castaneda ecc.) è che cosa significhi in realtà il fenomeno psichico degli Spiriti guida; ma, dato che dei Maestri è possibile sapere soltanto ciò che ne sa chi li ha percepiti, ciò che di essi si può studiare è non tanto la loro sostanza, quanto piuttosto la percezione che se ne ha: e la domanda «che cosa significano?» diventa dunque, innanzitutto, «perché chi li percepisce ha bisogno di percepirli proprio come tali, in quella loro forma di esseri viventi, e non in qualche altro modo?».

Le ragioni mi pare siano le seguenti:

L’EFFETTO SPECCHIO

Il nostro consueto stato di coscienza, che chiamo «l’io piccolo», è dominato dalla razionalità e legato alla cosiddetta oggettività; al di là di esso si trovano quelle strutture superiori della psiche, che io chiamo «l’Io grande», e in cui razionalità e oggettività contano ben poco; la connessione tra queste due dimensioni del nostro io può aversi soltanto attraverso l’IMMAGINAZIONE, l’unica nostra facoltà che agisca in entrambi. Ovviamente, perché la connessione vi sia, occorre che questi due livelli del nostro io siano entrambi presenti, e ciò pone all’io piccolo un notevole problema: una delle cose che all’io piccolo risultano impossibili è infatti la bilocazione del soggetto percipiente, ovverosia il percepire ciò che percepisce e al tempo stesso il percepire se stesso dal di fuori – come appunto avverrebbe se ti accorgessi di essere contemporaneamente il tuo io piccolo e il tuo Io grande. È come per la pupilla, che può guardarsi intorno ma non guardare se stessa… a meno che non disponga di uno specchio.

Gli Spiriti guida forniscono questo specchio.

Mediante loro puoi appunto esaminare te stesso in modo nuovo, cioè accorgerti di come il tuo io piccolo vede, pensa, capisce – e, di conseguenza, di quanto altro può esserci da vedere, pensare, capire, al di là dei limiti che il tuo io piccolo ti pone. E «mediante loro» significa due cose: mediante i loro discorsi, e mediante il loro aspetto.

– I discorsi che attribuiamo agli Spiriti guida (che cioè immaginiamo di percepire da loro) sono la forma che assumono le nostre riflessioni una volta che si sia riusciti a liberarle dai limiti dell’io piccolo. In quei momenti qualcosa ragiona in te, ma non sei tu a ragionare, non è il tuo io a te noto, e l’immaginazione sostiene quel ragionare e quel tuo ascoltarlo producendo l’aspetto di qualcuno che accanto a te ti stia parlando.

– Tale aspetto, a sua volta, non fa che mostrarti i tuoi limiti: tu immagini dei tuoi Spiriti guida soltanto ciò che riesci a immaginarne, essi rappresentano per te il punto più alto a cui per ora la tua immaginazione può e osa giungere, ed è tale punto più alto a guidare, nell’Aldilà, le tue scoperte. Non per nulla, gli Spiriti guida (sia i miei, sia quelli di cui abbiamo documenti nella letteratura e nei memoriali più illustri) usano congedarsi e sparire per sempre, quando «hanno insegnato tutto quel che potevano insegnare», quando cioè l’io piccolo ha raggiunto quel limite superiore che essi rappresentavano per lui. Così lo spiega Virgilio a Dante, al momento del commiato:

(…) veduto hai, figlio; e sé venuto in parte

dov' io per me più oltre non discerno.

Tratto t'ho qui con ingegno e con arte;

lo tuo piacere omai prendi per duce

fuor sé de l’erte vie, fuor sé de l’arte…

Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno:

per ch'io te sovra te corono e mitrio».

Purgatorio XVII, 127-142

Cioè: «ora hai imparato a vedere molto; e sei giunto in luoghi oltre il confine dei quali io non riesco più a vedere. Ti ho portato fin qui con precisi sforzi e con procedimenti; da qui in avanti, sia il tuo animo a guidarti: hai ormai superato tratti della tua evoluzione interiore che prima ti apparivano difficili, e i miei metodi non occorrono più… Non ti aspettare da me altri insegnamenti: saprai scegliere bene da solo, e sarebbe grave errore non fidarti di te: infatti, io sono quella parte del tuo io che tu sentivi più potente e più elevata di te, e ora tu la sei diventata». Non molto diverso è il discorso d’addio di don Juan a Carlitos, ne L’isola del tonal di Castaneda; e neppure quello di Gesù nell’ultima cena, secondo il Vangelo di Giovanni, o di Mosé prima che il popolo varchi i confini di Canaan: non tanto perché Dante o Castaneda e gli Spiriti guida in genere si ispirino ai Testi sacri, ma perché in molto di ciò che nei Testi sacri è narrato dei maestri visibili è ben riconoscibile la traccia di esperienze che i loro autori hanno avuto con i Maestri del loro Aldilà. Il più delle volte, inoltre, in questi commiati gli Spiriti guida indicano la via per raggiungere Spiriti guida a loro superiori (Virgilio conduce Dante fino all’incontro con Beatrice), cioè a nuove immagini di limiti superiori, da raggiungere percorrendo altre «erte vie».

IL FATTORE ENERGETICO

Per poter svolgere una qualsiasi attività psichica occorre ENER-GIA, e l’energia è data da una differenza tra due diversi livelli di potenziale connessi tra loro. Nella nostra vita quotidiana possiamo disporre di numerose differenze di potenziale, nei rapporti con gli altri ecc. Quando invece si è da soli, immobili, a occhi chiusi – come appunto occorre essere per potersi rilassare abbastanza da stabilire la connessione con il nostro Io grande, – la differenza di potenziale tra l’io e qualcos’altro può essere soltanto immaginata, ed è del tutto naturale che la si immagini in forme analoghe a quelle che si incontrano nell’Aldiquà: sottoforma cioè di rapporti con altri esseri viventi. Quanto più impegnative saranno per noi queste immagini – quanto più, cioè, ci appariranno reali, e legate a noi da rapporti di affetto, attenzione, fiducia, ma al tempo stesso autonome da noi – tanto più salda e proficua sarà la connessione: e quando percepiamo i nostri Spiriti guida, la nostra immaginazione fa appunto tutto il possibile perché così sia. Sapere, poi, che si tratta soltanto di immagini, non è di nessun ostacolo: cos’altro potrebbe infatti produrre la nostra immaginazione? Ciò che conta è piuttosto quel che grazie a tali immagini l’io riesce a scoprire.

I VARI TIPI DI MAESTRI

Nel corso degli anni (decenni, ormai) ho constatato che tali scoperte hanno modalità e gradi diversi, e che a ciascuna modalità e grado corrisponde (cioè: la nostra immaginazione vi fa corrispondere) una particolare categoria di Spiriti guida. Delle prime quattro categorie parlo in dettaglio ne Il mondo invisibile, e sono:

– i Due Maestri, che compaiono sempre per primi, e hanno il compito di istruire l’io piccolo sui vari gradi dell’Aldilà e di chiarirgli ciò che non ha compreso;

– il Maestro Distante, uno Spirito che di per sé è privo di centro e di confine, sia nello spazio sia nel tempo, e con il quale si può comunicare soltanto a due condizioni: se gli si propone di impersonare, di diventare anzi, un personaggio storico a cui si vogliano domandare informazioni precise; e se di tali informazioni si ha realmente bisogno (v. CHIEDERE, e VOLERE);

– il Maestro del Desiderio, molto simile ai Maestri della prima categoria: il suo principale compito è indicare all’io quali desideri segreti (solitamente distruttivi) gli intralciano il cammino, e quali desideri o aspirazioni che l’io ritiene di avere non siano, in realtà, affatto suoi e lo stiano soltanto confondendo;

– l’Alleato, d’aspetto particolarmente imponente, il cui compito è di rendere accessibili all’io piccolo fonti di maggiore energia psichica e vitale, e di sviluppare la sua lucidità nel fare progetti, la sua audacia, la sua efficienza in tutti i sensi.

Anche questi Spiriti sono, tutti quanti, specchi: ti mostrano, cioè, innanzitutto qualità del tuo io, che nell’Aldiquà non saresti in grado né di usare, né tantomeno di spiegare. I Due Maestri ti mostrano la tua capacità di guidare e far crescere te stesso, come se sapessi già quali fasi evolutive ti attendano in futuro; il Maestro Distante ti mostra la vastità della tua sapienza, cioè delle innumerevoli cose che non sai di sapere (e che mai riuscirai a capire da dove ti possano essere arrivate); il Maestro del Desiderio ti mostra la precisione e il coraggio della tua capacità di introspezione, di cui nell’Aldiquà non ti sapevi dotato; l’Alleato, le enormi forze e l’altrettanto enorme determinazione che non sapevi di avere. In tal senso, uno psicologo potrebbe benissimo ritenere che gli Spiriti guida siano nostre PROIE-ZIONI, della stessa natura delle proiezioni che abitualmente attuiamo su altre persone nell’Aldiquà: la differenza è che, nell’Aldiquà, i contenuti delle proiezioni sono elementi della nostra personalità, che per una qualche ragione noi non vogliamo riconoscere in noi stessi, e proiettandoli su altri rinunciamo a essi (così chi proietta autorevolezza su un capo politico, priva se stesso di tale autorevolezza ecc.); nell’Aldilà invece quei contenuti proiettivi vengono trasformati dagli Spiriti guida in argomenti didattici, e gli Spiriti ci aiutano a impadronircene.

Al di là di queste prime quattro categorie se ne delineano poi altre, corrispondenti a ciò che io chiamo FUNZIONI DELLIO e INTELLETTI; ancora al di là, la dimensione dei Maestri cessa e se ne aprono altre più grandi, rispetto alle quali qualunque Spirito guida è nella stessa condizione in cui l’io piccolo è rispetto a lui: sono le cosiddette Gerarchie angeliche, nelle quali pure agiscono nostre proiezioni, ma non di qualità e facoltà dell’io piccolo, bensì del superamento di esso: di ciò che in noi è «il FIGLIO di Dio», come lo definisce Gesù nei Vangeli.

Quanto alle tecniche per entrare in contatto con i propri Spiriti guida, ne parlo abbondantemente in tutti i miei libri sull’argomento (si vedano, in questo Vocabolario, le voci STANZA TONDA, PERCEZIONE, FREQUENZA, CONFERME ecc.)

MASCHERE. I MAESTRI – al pari dei sacerdoti durante certe iniziazioni antiche, e al pari degli «aiutanti magici» nelle fiabe – si presentano spesso in forma mascherata, cioè in un aspetto che poi risulta non essere il loro volto autentico. Così come il bel principe appare dapprima sottoforma di ranocchio, allo stesso modo uno Spirito guida può dapprima presentarsi in forme banali o vaghe, e mostrarsi poi nell’aspetto di un eroe, o di un grande filosofo.

L’intento di tali «maschere» è lo stesso dei cammuffamenti iniziatici: è un far da specchio alle maschere, assai più pesanti e per lo più inconsapevoli, che noi solitamente indossiamo nel nostro TU quotidiano. Nella stessa misura in cui riusciamo a toglierci queste ultime, parlando con gli Spiriti e riflettendo su noi stessi, anche i «mascheramenti» degli Spiriti si dissolvono e si arriva a percepire il loro volto vero – che non manca mai di stupire piacevolmente.

MEMORIA. La memoria è, tra le nostre facoltà, di gran lunga la più malridotta, e nondimeno è quella su cui si regge tutto quanto il nostro MONDO.

Il mondo vi si regge e ne è anzi costituito, perché noi sappiamo, d’ogni cosa, soltanto ciò che ricordiamo di averne percepito. Ma ciò che noi ricordiamo – e quindi sappiamo – del mondo è ben poco, appunto perché fin dalla nascita sono state imposte alla nostra memoria, sia da ALTRI, sia anche da noi stessi, vari tipi di censure, molto simili a mutilazioni e cauterizzazioni:

– censure di carattere affettivo, il cui scopo era quello di precludere alla memoria ciò che contrastava con la particolare importanza che i famigliari dovevano avere per noi: grazie a tali censure abbiamo imparato a ricordare della mamma e del papà soprattutto ciò che concerneva il loro essere la mamma e il papà, e non ciò che riguardava il loro essere anche una donna e un uomo;

– censure di carattere religioso: così, per esempio, quando ci viene impressa nella mente l’immagine tradizionale di un Gesù tranquillo e sorridente, pio e buon figliolo, diveniamo facilmente incapaci di ricordare, leggendo il Vangelo, frasi come «sono venuto a portare la spada, e non la pace, e i nemici dell’uomo saranno i suoi famigliari» (Matteo 10,34-36) e «chi non odia suo padre e sua madre non è degno di me» (Luca 14,26) ecc.

– censure di carattere culturale, che miravano a consolidare certi valori fondamentali della nostra civiltà: così la nostra memoria ha imparato a ricordare il valore delle banconote, cioè le cifre stampate su di esse, ben più della dicitura della banca centrale; e il significato della bandiera e delle uniformi, ben più del fatto che l’una e le altre fossero oggetti di stoffa ecc.

– censure di carattere intellettuale, operate sia attraverso la scuola sia attraverso i principali mezzi di informazione: in tal modo abbiamo imparato, per esempio, a ricordare d’una poesia soprattutto il fatto che si tratti di una poesia, e della prosa soprattutto il fatto che sia prosa, e della filosofia soprattutto il fatto che, essendo filosofia, non può essere né poesia né prosa ecc.

In genere, quanto più una persona è erudita, tanto più numerose sono le censure che gli sono state crudelmente impresse nella memoria; e mi capita infatti spesso di notare, con rammarico, quanto il modo di pensare degli intellettuali di mia conoscenza somigli a una rete tranviaria, lungo la quale i ragionamenti procedono come i tram sui binari, senza che appaia in alcun modo possibile cambiarne il percorso. Qualcosa di simile doveva avvenire anche in altre epoche: appunto perciò la tradizione islamica dava molta importanza al fatto che Maometto fosse analfabeta – che, cioè, alla sua memoria fossero state risparmiate almeno le censure intellettuali, – e la tradizione cristiana ne dà altrettanta al fatto che Maria di Nazareth fosse una kore, una bambina sotto i dodici anni, cioè – dato che a quel tempo in Palestina le bambine non andavano a scuola.

A un analfabetismo simile a quello di Maria e Maometto deve mirare, a mio avviso, chi vuole conversare con i propri MAESTRI, come Maometto e Maria conversavano con gli Arcangeli. E riconquistare quell’analfabetismo non è difficile, richiede solo un po’ di spirito d’avventura e lo stesso genere di coraggio con cui si impara a tuffarsi dal trampolino. In pratica, si tratta di porre ai Maestri domande che non avevamo mai osato porre a noi stessi (per esempio: «Cosa mi fa più paura e perché?», «A chi obbedisco, in realtà, e perché?» ecc.) e di affrontare le risposte. All’inizio capiteranno sicuramente dei BLACK-OUT, ma col tempo si impara ad abbandonarsi addirittura con piacere alla vertigine del tuffo. Durante le conversazioni che si sviluppano da quelle risposte riemergono via via territori della memoria che fin dall’infanzia avevamo dovuto nascondere, per adeguarci al mondo. Non sempre riemergono sotto forma di ricordi precisi: spesso si tratta di stati d’animo, e precisamente di quegli stati d’animo, ampi e sereni, che eravamo in grado di provare quando quelle censure erano poche. Da un lato ciò è molto piacevole, si ha la sensazione di essere non soltanto più tranquilli, ma creativi, intutivi, geniali addirittura – esattamente così come lo eravamo da bambini. Dall’altro, si prova un’acuta malinconia al pensiero che solo conversando con i Maestri nell’Aldilà ci si possa sentire così, e che nell’Aldiquà quella leggerezza ed ampiezza si perdano – e con esse anche la capacità di tenere a mente la maggior parte di ciò che si è appreso dai Maestri. Nell’Aldiquà, infatti, la nostra memoria torna a essere quella consueta – «alfabetizzata», cauterizzata, mutilata, e capace perciò di contenere ben poco.

A questo punto, sono possibili due vie, per chi non voglia rassegnarsi a tale divario tra Aldilà e Aldiquà. Una consiste nell’ingaggiare una vera e propria lotta con la memoria dell’Aldiquà, per costringerla ad ampliarsi; non escludo che questa lotta possa, a lungo andare, portare a qualche risultato (come si dice in Russia, «anche una lepre può imparare a suonare il piano, se la si picchia abbastanza forte»), ma a me ciò non è avvenuto, almeno finora. Ho preferito perciò seguire la seconda via, che consiste nell’escludere senz’altro la memoria dell’Aldiquà: nel non considerare, cioè, gli insegnamenti dei Maestri come cose da rammentare (al pari del contenuto d’un libro o della trama di un film) bensì nel viverli, trasformandoli in un nuovo modo di guardarsi intorno, di riflettere, di parlare, di prendere decisioni.

Per far ciò, ogni volta che nelle conversazioni con i Maestri si avvertano quei bellissimi stati d’animo dimenticati, occorre affrontare questioni il più possibile concrete, e discutere dei comportamenti da adottare per risolvere quelle questioni nell’Aldiquà: dopodiché, si tratta di mettere in pratica nella vita d’ogni giorno le indicazioni ottenute dai Maestri – anche se non si conserva il ricordo di tutte le spiegazioni che essi ne hanno dato. Quanto più riesci a cambiare in tal senso il tuo modo di vivere, tanto più aumenta anche la capacità, la CONTE-NENZA della tua memoria nell’Aldiquà: e allora cominciano a tornare alla mente, giorno dopo giorno, molti discorsi dei Maestri, da un lato, e anche molto di ciò che non ricordavi del tuo passato, dall’altro.

Non che in tal modo la nostra memoria dell’Aldiquà guarisca davvero dalle sue ferite; le mutilazioni, infatti, non si possono guarire, e troppa parte del mondo che condividiamo con gli altri appare reale e importante soltanto nella forma che ha assunto nella memoria mutilata: se dunque in quest’ultima si riformasse ciò che le è stato amputato, non riusciremmo più a comunicare razionalmente con la stragrande maggioranza delle persone. Avviene, invece, che accanto alla memoria consueta ne prenda forma un’altra, in chi si è abituato a percepire l’Aldilà: una memoria più grande e più alta, che è tanto diversa dalla seconda quanto lo sarebbero le riflessioni di un regista dalle impressioni di un casuale spettatore, mentre i due stanno guardando lo stesso film. La memoria consueta ci servirà allora a non dimenticare le impressioni che la realtà produce abitualmente nel mondo degli altri; l’altra memoria, a valutare quanto poco quelle impressioni colgano della realtà stessa.

MERITO. Questa insidiosa questione alimenta la maggior parte delle RESISTENZE che intralciano la crescita interiore. «Non ne ho la forza» capita, per esempio, di dire a se stessi dinanzi a qualche scelta che la SAPIENZA ci ha reso possibile: ma quel che in realtà stiamo pensando in quel momento è «Non ne sono degno». O magari accade di non riuscire a concentrarsi su qualcosa, perché una parte della nostra attenzione sta continuamente sorvegliando – sospettosa, ansiosa – l’attività dei nostri INTELLETTI, come se questi ultimi non meritassero fiducia; o, viceversa, si è talmente autolesionisti da convincersi di aver capito qualche cosa proprio quando non la si è capita affatto – e ciò, al solo scopo di dover riconoscere, poi, di non valere gran che. Ed è facile vedere in tutto ciò una conseguenza del senso di colpa (v. FELICITÀ) e, quindi, addossarne la responsabilità ad altri, agli ADULTI che fin dalla nascita ci hanno condizionato perché imparassimo a non meritare più di tanto, così come anche loro lo avevano imparato. Ma non serve: non è così che lo si disimpara.

Si riferisce a questo un arduo passo dei Vangeli:

Se, quando presenti la tua offerta nel tempio, ti ricordi che un tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia l’offerta davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello: e solo dopo di ciò torna a offrire il tuo dono a Dio.

Matteo 5,23

Si noti che il testo non dice qui: «se ti ricordi che hai qualcosa contro qualcuno», ma parla dei motivi di scontento che altre persone possono avere nei tuoi riguardi, e spiega che lì è l’ostacolo alla tua ricerca spirituale. È chiaro che ciò rischierebbe di bloccare tale ricerca per molto tempo, dato che sono sicuramente numerosi sul pianeta i tuoi fratelli che per un motivo o per l’altro avrebbero da ridire su di te; ma fate caso a quel dettaglio: «se ti ricordi che…». Quella è la chiave del passo, e di tutte le resistenze che derivano dalla sensazione di non meritare.

Tali resistenze si fondano infatti sull’idea che chi intraprenda una ricerca spirituale rimanga uguale a se stesso durante la ricerca stessa. Così non è: non vi è scoperta che si possa compiere nella Sapienza, che non cambi radicalmente ciò che l’io sapeva di sé fino a quel momento. Ciò che occorre è, dunque, non ricordartene affatto: l’unico modo di superare le frequentissime resistenze legate al merito e alla dignità, è quello di averle dimenticate, cioè di saper essere nuovi. Non per nulla Gesù precisa in un altro passo: «Chi mette mano all’aratro e si volta indietro, non è degno del Regno dei cieli» (Luca 9,62).

Ed essere nuovi è molto meno difficile di quel che sembra. Avviene di per sé, non occorre neppure volerlo: si può soltanto volerselo impedire – e imparare a non volerselo impedire più. Mentre lo si impara, la miglior cosa è accettare l’idea di una scissione della personalità: essere cioè al tempo stesso l’io nuovo, che appunto non ricorda, e l’io precedente, che di memoria ne ha troppa. È come portarsi in giro un amico, al quale si può chiedere, di tanto in tanto, di farsi da parte. Se si sa essere abbastanza affettuosi e comprensivi con lui, e al tempo stesso mostrare sufficiente fermezza, quell’io vecchio pian piano scompare.

MITO. Mythos, in greco, significa «racconto»; ma ciò che teologi e psicologi chiamano «miti» non sono semplici racconti.

Sono bensì i prodotti di un modo di pensare antico che, a differenza del pensiero teologico e psicologico attuale, impiega anche l’immaginazione e l’arte come suoi strumenti essenziali, e i cui argomenti, d’altra parte, non si differenziano affatto da quelli della psicologia e della teologia. I miti narrano infatti vicende di Dei e di uomini, di creazioni, colpe, riscatti, nascite, morti, resurrezioni, riti, profeti, sacerdoti, e al contempo descrivono le origini, le dinamiche e anche le terapie di nevrosi, isterie e traumi e blocchi psichici con tale precisione, da aver abbondantemente alimentato la nuova psicologia fin dai suoi inizi (si pensi al mito di Edipo).

Ciononostante, psicologi e teologi non ricorrono mai al discorso mitico – cioè all’IMMAGINAZIONE, all’arte – per affrontare i problemi delle loro rispettive discipline: sembrano dare per scontato che il discorso mitico sia espressione di uomini ancora incalzati da antiche angosce, e in cerca di soluzione, mentre vedono in se stessi coloro che hanno finalmente trovato una serie di risposte e metodologie sufficienti a star tranquilli. Io ho invece la netta sensazione che del discorso mitico abbiano paura – e che temano soprattutto ciò che attraverso di esso arriverebbero a scoprire, poiché li porterebbe troppo lontano da ciò che hanno appreso e capito finora.

Il passaggio dal discorso teorico al discorso mitico sarebbe d’altra parte assai semplice; consiste soltanto in due procedimenti:

– nell’usare spesso il passato remoto o l’imperfetto invece del presente indicativo,

– e nel porre come soggetti persone e personaggi, e non astrazioni o termini generici.

Così, per esempio, tipico del discorso teorico è dire: «il nevrotico crede che…», «Dio è il creatore del mondo» ecc.; mentre nel discorso mitico queste frasi diverrebbero: «Seppi che il Tal dei Tali, nevrotico, aveva cominciato a credere che…», e «Mi hanno insegnato che Dio creò il mondo».

Il resto viene da sé.

Questi due semplici procedimenti stilistici aprono infatti orizzonti vastissimi: c’è una grande differenza tra il sostenere un’ipotesi scientifica o un dogma religioso, e il dire invece «mi hanno insegnato che…». Nel primo caso, lo scienziato e il teologo si rallegrano implicitamente di aver già appreso tutto ciò che ritenevano necessario per trattare d’un determinato argomento (altrimenti starebbero zitti e pensosi), mentre nel secondo caso l’ «io» si sta mettendo in gioco, ponendosi come personaggio di un racconto di cui non è certo di conoscere il finale, e nel quale solo l’immaginazione – cioè qualcosa di più grande di lui – potrà guidarlo.

Ma ciò che inevitabilmente andrebbe perso, se si adottassero questi due procedimenti mitopoietici, sarebbe il «noi» degli psicologi, o dei teologi, cioè quel MOLTI a cui essi sentono di appartenere, e a cui tengono moltissimo, e per essere ammessi al quale hanno affrontato spesso dure prove e sacrifici; ognuno di essi diventerebbe appunto un «io», soltanto (com’erano prima, da ragazzi, da bambini) e il loro terzo CHAKRA potrebbe non reggere – non tanto davanti all’imprevedibile progresso delle loro conoscenze, quanto piuttosto al pensiero di quel che direbbero i colleghi.

MOLTI. Tra i cosiddetti ALTRI si distingue, in ogni epoca di cui si abbia memoria, quel gruppo privilegiato che io chiamo: «i molti». Questo gruppo compare in espressioni del tipo «molti dicono che…», «è una cosa che fanno molti» ecc. Quanti siano questi «molti» non è mai dato sapere: l’unica cosa che se ne sa in termini quantitativi, è che si tratta di un plurale, e che di conseguenza non possa farne parte nessuno che pensi a se stesso come un singolare. In termini qualitativi, invece, il gruppo dei «molti» è ritenuto di solito migliore del singolo individuo: ai «molti» vengono accreditate un’intelligenza e una quantità di informazioni assai più alte di quelle accessibili a tutti gli altri, cioè alla gran maggioranza della gente, alla massa.

Rispetto a questi «molti», l’umanità si divide in due categorie: chi li teme, e cerca sempre di sapere quale sia il loro punto di vista, per non rischiare di contrastarlo; e chi invece ritiene che se una cosa viene detta dai «molti», è difficile che sia vera e interessante. In alcuni Stati, per esempio in Italia, la prima categoria di persone è assai più numerosa, e ciò determina di solito un rallentamento nello sviluppo culturale, sociale, economico; in altri Stati la seconda categoria di persone diviene ogni tanto più vivace, e ciò si accompagna sempre a periodi fiorenti e a cambiamenti di vasta portata. È buona norma, perciò, prendere le distanze da quelle nostre convinzioni che si fondino in tutto o in parte sul desiderio di venir approvati dai «molti». Si vedano, in proposito, certi famosi passi del Discorso della Montagna (Matteo 5,11 ss.; Luca 6,22 ss.).

MONDO. La parola «mondo» viene solitamente usata per indicare due dimensioni molto diverse tra loro:

– il cosiddetto mondo reale, cioè l’insieme della natura e delle attività umane (e in tal senso valgono espressioni come «venire al mondo», «Dio creò il mondo» ecc.);

– l’immagine che abbiamo della realtà (e in tal senso diciamo: «il nostro mondo», calcando su «nostro», così da poterlo contrapporre al «mondo della generazione precedente» o al «mondo antico» ecc.).

Dalla confusione tra queste due accezioni della parola «mondo» derivano vari intralci alla conoscenza. La maggioranza degli appassionati di scienze, per esempio, quando parlano di ciò che a loro interessa intendono «mondo» esclusivamente nel primo senso, ovvero come ciò che realmente esiste di per sé. Pongono, in tal modo, una differenza netta tra «ciò che è veramente reale» e «ciò che è soltanto psichico» (che, cioè, esiste soltanto dentro di noi e ha quindi, a loro avviso, un minor grado di realtà). Su tale scissione si impernia il principale dilemma dei CREDENTI: «Se c’è Dio, dov’è e come agisce? È nel mondo, l’ha creato, lo governa in qualche maniera, oppure è soltanto dentro di noi, e dunque c’è meno di tutto il resto?».

I cosiddetti atei rispondono che se Dio c’è, è appunto e solamente nella sfera psichica ed è dunque un fatto secondario rispetto al «mondo reale»; al che i credenti, di solito, non sanno bene cosa replicare: avrebbero una gran voglia di dire che la sfera in cui si trova Dio, psichica o meno, potrebbe benissimo essere più alta, più determinante e più reale del mondo stesso, ma se si guardano attorno non trovano nulla di preciso che dia loro ragione. Allora tengono il broncio nei riguardi della scienza, gli appassionati di scienza li ricambiano con il disprezzo, e – a parte qualche sentimentalismo di quando in quando – la cosa va avanti così da molto tempo senza che se ne veda la soluzione.

Ma quel dilemma dell’esistenza di Dio è soltanto una conseguenza del disagio determinato dalla scissione tra il «mondo reale» e lo psichico. Un’altra conseguenza di tale scissione si ha nel modo scientifico di considerare la sfera psichica: la maggior parte degli appassionati di psicologia cercano infatti di spiegare la dimensione psichica così come vengono spiegati i fenomeni del «mondo reale» – sempre in base al presupposto che, essendo l’uno più reale dell’altra, anche i criteri che valgono in esso siano più attendibili dei criteri che valgono in quella. Applicano perciò caparbiamente alla sfera psichica il principio di causaeffetto, il tempo lineare, le coordinate spaziali e altre cose del genere, utili appunto nelle descrizioni del «mondo reale»; il che impedisce loro di notare, nella sfera psichica, tutto ciò che a quei criteri non corrisponde, e condanna molta psicologia a indagare non tanto la psiche stessa, quanto piuttosto i modelli che gli psicologi ne costruiscono.

La scissione tra «mondo» e sfera psichica è uno dei prodotti di quella deprimente tendenza al CONCRETISMO, che caratterizza da qualche secolo la mentalità occidentale. La parola «mondo» deriva, in realtà, dal latino mundum, che vuol dire «ben ordinato»; lo stesso significato ha il termine greco kòsmos. Sia nel contesto latino, sia nel contesto greco, chi ha «ben ordinato» tutto quanto per formare il kòsmos-mundum è, naturalmente, l’uomo: e non l’ha fatto una volta per tutte, ma continua a rimodellare l’immagine del kòsmos-mundum ogni volta che un piccolo passo avanti (o indietro) nell’evoluzione apporta qualche cambiamento alle sue facoltà di rappresentazione.

È in questa immagine che noi esistiamo, come in una bolla.

E, proprio perché si tratta di un’immagine, in essa gli elementi materiali (persone, cose, situazioni) e gli elementi psichici (ciò che noi vediamo delle persone, delle cose, delle situazioni) sono talmente avvolti gli uni attorno agli altri da non potersi districare in alcun modo. Lo si può empiricamente verificare, se si considera quanto cambi l’aspetto del nostro mondo a seconda del grado di conoscenza che ne abbiamo, o degli scopi che in un determinato momento ci proponiamo, o anche soltanto a seconda del nostro umore – e quanto ciascun suo aspetto ci appaia del tutto valido e razionalmente dimostrabile, finché nessun altro cambiamento interviene nel nostro modo di vederlo.

Gli antichi lo sapevano meglio di noi. L’importanza della SOGGETTIVITÀ nel formarsi del mondo è già nel primo versetto della Genesi, che viene solitamente tradotto «In principio Dio creò il cielo e la terra», ma che in ebraico antico significava:

A fondamento di ogni cosa vi è la forma che ’Elohiym dà al cielo e alla terra

ovverosia: ciò che tu vedi del mondo è un insieme di forme prodotte via via dal Dio del DIVENIRE. Dunque quelle forme – e con esse «ogni cosa», il mondo intero – muteranno continuamente, via via che quel Dio si rivela: e a te toccherà la scelta, tra il fermarti a quel che ne sai ora, e il crescere anche tu, così come quel Dio cresce.

Ne deriva che il termine «mondo» è sinonimo non di «realtà», bensì di «modo di conoscere». A usarlo come tale, si vanifica la scissione tra «mondo reale» e «sfera psichica» e, decisamente, ci si sente subito di umore migliore: se infatti il mondo è ciò che tu ne sai e ciò di cui tu ti accorgi, l’idea di poter cambiare il mondo si trasforma da un faticosissimo ideale in un compito pratico quotidiano. Il mondo è il tuo mondo non perché tu ne sia intrappolato e debba adattarti a esso, ma perché sei tu a dargli forma, a immagine e somiglianza di ’Elohiym. Né puoi più lagnarti di come il mondo va: potrai eventualmente rammaricarti del modo in cui lo conosci finora.

MORTE, vedi VITA.