LIBERTÀ. Nella psicologia, nella filosofia, nella scienza, nella teologia, nella SAPIENZA, e così pure nella prassi quotidiana, la libertà ha come suo criterio antichissimo la scritta scolpita sul frontone del tempio di Delfi:
GNOTHI SEAUTON
cioè, a tradurla accortamente: «Accorgiti che tu conosci sempre te stesso». La libertà è, propriamente, l’essersi accorti che il «tu» e il «te stesso» di questo conoscere sono due dimensioni ben distinte:
– il «tu» è colui che, dentro di te e attraverso di te, conosce, e
– il «te stesso» è ciò che viene conosciuto, non soltanto dentro di te, nella tua personalità, o nel tuo comportamento, ma in tutto ciò che tu percepisci.
Quanto più scopri che ogni oggetto del tuo conoscere non è tanto qualcosa quanto piuttosto un tuo modo di vedere qualcosa, e che questo tuo modo di vedere ha i limiti di ciò che in te è «te stesso», e che in te vi è la possibilità di scorgere e di superare quei limiti, tanto più sei veramente libero sia da quel «te stesso» sia da tutto ciò e da tutti coloro da cui quel «te stesso» si lascia influenzare e asservire.
Questa conquista della libertà può aversi in ogni campo dello scibile, ed è molto semplice ovunque. Richiede soltanto l’abilità di distinguere ciò che, in qualsiasi ambito, accresce il tuo conoscere te stesso, e ciò che invece lo intralcia:
– ciò che lo intralcia, è il parlare soprattutto di qualche chi: chi ha detto o fatto quel che altri chi dicono che abbia detto o fatto; chi ha sconfitto chi; chi ha emanato ordini o stabilito principi; chi ha lodato o disapprovato chi, ecc.
– ciò che accresce la tua conoscenza di te è invece il parlare soprattutto del che cosa: che cosa ha veramente detto o fatto il tale; che cosa significa quel tal fatto, quel simbolo, quella legge; che cosa c’entri tu ecc.
I discorsi, i ragionamenti incentrati su qualche chi ti conducono inevitabilmente nel paludoso territorio del CREDERE a e in qualcuno, dell’AVER RAGIONE con o contro qualcuno, e ti distraggono dalla scoperta di te stesso e di ciò che davvero conta per te.
I discorsi e i ragionamenti incentrati sul che cosa ti conducono invece, immediatamente, nell’ACCORGERTI, che è sempre un accorgersi innanzitutto di se stessi – cioè del tuo «te stesso» e di ciò che in te conosce quel «te stesso».
Così, per esempio, una persona che decida di escludere dai propri interessi i Testi sacri, perché ne parlano i preti (un chi), oppure i miti antichi, perché erano narrati da qualche chi di migliaia d’anni fa, e di interessarsi soltanto alle scienze, perché molti chi oggi se ne interessano, sta fuggendo da quel «conosci te stesso» in cui consiste l’autentica libertà: conosce soltanto ALTRI e secondo altri, e dimentica ciò che è suo. E così pure uno che nell’Annunciazione o nella Resurrezione veda soltanto due vicende capitate a Maria e a Gesù (cioè a due chi), non ne ricava nulla che lo riguardi davvero; viceversa, se nell’Annunciazione e nella Resurrezione vedi soprattutto un che cosa – se in Maria bambina incinta scorgi un simbolo di quell’aspetto BAMBINO del nostro io, dal quale può nascere una personalità in grado di salvare il nostro mondo; e se nella Resurrezione di Gesù vedi la fase finale di quell’INIZIAZIONE che ciascuno, se ne ha il coraggio, può ricevere nella propria vita – ne ricavi informazioni che non solo ti riguardano personalmente, ma che ampliano d’un tratto il tuo orizzonte interiore, con grande vantaggio per ogni aspetto della tua esistenza.
A questa attenzione verso il che cosa si riferisce l’enigmatica frase di Gesù
(…) da prima che Abramo fosse io sono (…)
Giovanni 8,58
– ovvero: il tuo «io», il «te stesso da conoscere», è in realtà talmente grande, che tutto, perfino in ciò che venne detto migliaia di anni fa, te ne fa scoprire qualcosa. E trovare un che cosa là dove tanti altri vedono soltanto qualche chi è, tra l’altro, una delle gioie più intense che la conoscenza possa donare.
Alle conoscenze infruttuose, fatte soltanto di chi, si riferisce un altro strano passo dei Vangeli:
(…) ebbe fame e vide da lontano un fico carico di foglie, ma, avvicinatosi, non vi trovò altro che fogliame – perché non era la stagione dei fichi. Allora disse: «Mai più in eterno nessuno mangi frutto da te!»… (L’indomani) videro il fico disseccato fino alla radice.
Marco 9,12-14; 20
Gesù avrebbe potuto lasciar perdere quel povero albero, e cercare altrove. Invece si irritò moltissimo, stagione o non stagione: vide in quell’albero tutte le dottrine vuote dei chi d’allora (che dovevano la loro autorevolezza soltanto alla stima della gente verso chi è un chi) e lo maledì, uccidendolo.
Il senso è ben chiaro, per chi legga i Vangeli domandandosi «che c’entro io?»; ed è che, se davvero «hai fame» di conoscenza, non puoi che essere un seccatore nei riguardi degli alberi che hanno solo foglie, cioè dei chi che sono soltanto dei chi, senza nessun che cosa: maledici dunque tranquillamente, e senza esitare, ciò che non ti nutre davvero. Il dannosissimo contrario di questa durezza nei confronti degli «alberi infruttuosi», lo si vede nel modo in cui il chi viene fatto prevalere sul che cosa ogni volta che si agisce a favore di ciò che è evidentemente un male: le persone che commettono crimini di guerra si giustificano dicendo di aver obbedito agli ordini di qualcuno (cioè, appunto, di non aver badato al che cosa, ma solo al chi di quegli ordini); coloro che, per le più svariate ragioni personali, giustificano gli elementi antiumani prodotti dalla politica, dai mezzi di comunicazione, dalla tecnologia o dalle religioni, ricorrono sempre ad argomenti basati sul chi, e non sul che cosa: adducono le opinioni del tale o tal’altro studioso sulle necessità della storia o del progresso, sostengono questo o quel potente, si schierano con un determinato ceto e contro un altro, oppure con una razza e contro un’altra, e via dicendo. E ciò può avvenire soltanto perché il loro stesso io si è riempito oltremisura di chi altrui, e non ha più «fame» di nulla, perché da quei chi è stato divorato.
LINGUAGGIO. In ebraico, il termine davar significa sia «parola» sia «cosa»; e il nostro termine «logica» deriva da logos, che in greco antico vuol dire «parola». In questi due fatti culturali stanno i cardini dell’importanza che il linguaggio umano riveste nella ricerca filosofica e spirituale – almeno per noi occidentali, che alla cultura ebraica e a quella greca siamo debitori pressoché di tutto quel che più conta.
Da un lato, le parole, per noi, sono veramente le cose. La lingua, il dizionario, la sintassi di cui disponiamo configurano inevitabilmente la nostra immagine del mondo: tanto nell’Aldilà quanto nella vita quotidiana noi vediamo e percepiamo, infatti, solamente ciò che le nostre parole possono indicare, mentre non ci accorgiamo di quelle molte cose e condizioni e forme di vita alle quali il nostro linguaggio non ha ancora trovato un nome.
D’altro lato, ogni nostro sforzo di comprendere ciò che vediamo e percepiamo tende, come diceva Castaneda in una sua poesia (ne Il lato attivo dell’infinito), a
confermare, magari inconsapevolmente,
la sintassi della nostra lingua madre
– e tale sintassi pone dunque i limiti e i criteri della nostra possibilità di conoscere.
Su ciò, sia la Bibbia sia il Vangelo concordano appieno: secondo la Genesi, ’Elohiym diede forma alla realtà descrivendola con parole, e l’’adam, poi, proseguì tale opera trovando un nome per ciascun essere vivente (Genesi 1,1; 2,19-20); secondo il Vangelo di Giovanni
A fondamento di tutto c’era la parola, e la parola era intorno a Dio,
e Dio era una parola…
e tutto è cominciato ad esistere grazie alla parola,
e di tutto ciò che esiste
nulla è potuto venire all’esistenza
se non attraverso la parola.
Giovanni 1,1
Inutile tentare di smentire queste antichissime ipotesi: la loro conferma più evidente è nel tremendo influsso che l’impoverimento del lessico e della sintassi sta avendo sulla popolazione di alcuni Stati europei, per esempio dell’Italia. Quante meno parole uno sa usare, tanto più diviene vittima degli altri o delle circostanze (v. INDIVIDUAZIONE). E ne consegue, indubbiamente, che per l’autonomia della propria ricerca spirituale sia innanzitutto indispensabile conoscere bene molte parole.
Altrettanto indispensabile è poi, nella ricerca spirituale, imparare a superare la lingua di cui si dispone, a scoprire cioè che non tutto deve necessariamente «confermare la sintassi della lingua madre». Di grande aiuto sono, in ciò, le lingue straniere e soprattutto le antiche – che costruirono mondi differenti da quello che le nostre parole e la nostra logica fanno esistere oggi.
Ma ancor più determinante diviene – a una fase già avanzata della propria ricerca spirituale – l’accorgersi di come in realtà ciascuno di noi abbia sempre a disposizione due lingue: una «essoterica», a uso del TU, per comunicare con gli altri, e una interiore, più vasta, rapida, coraggiosa, che viene adoperata nel centro del nostro IO. Molto, nella ricerca spirituale, dipende proprio da questo bilinguismo. Chi infatti vuole ricevere o comunicare conoscenze può farlo solo imparando a servirsi della prima di queste due lingue per giungere alla seconda, alla lingua interiore dei suoi interlocutori. E solo chi avverte e sa riconoscere queste due lingue, ha aperta la via per intendere le scoperte – sempre sorprendenti, spesso straordinarie – che si compiono ogni volta che le due lingue arrivano a coincidere, a fondersi in una sola.
Ciò avviene quando si riesce a destare e ad attivare tutte le FUNZIONI del nostro io e i nostri INTELLETTI – quando, cioè, non vi è differenza tra ciò che tu adoperi del tuo io e ciò che il tuo io può essere (v. INGANNO). Questa unificazione allarma Yahweh, nell’episodio della torre di Babele:
«Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera, e adesso nulla di quel che progetteranno sarà loro impossibile!»
Genesi 11,6
Dopodiché, com’è noto, Yahweh confonde «la loro lingua», e i progetti umani cominciano ad arenarsi. Come tutto quel che è narrato nella Genesi, anche questa confusione delle lingue non avvenne una volta sola, ma mostra una costante dell’esperienza umana: la «lingua dell’uomo» si confonde e si scinde tutte le volte che Yahweh – cioè il potere dell’essere, di ciò che già c’è – prevale sul nostro crescere, sul nostro divenire, sulla nostra fiducia nel futuro. Un ottimo modo per ripristinare quella «lingua unica» è bensì narrato, sempre nella Genesi, nell’episodio di Noè costruttore della Thebah (v. ARCA).
LIMITE. È un termine chiave nella SAPIENZA, e in particolar modo nella PERCEZIONE dell’Aldilà. L’Aldilà è infatti tutto ciò che si estende oltre il già noto: scoprirlo significa sempre superare un nostro confine; viceversa, ogni timore dell’Aldilà, cioè ogni ostacolo che si possa incontrare nell’esplorarlo, è espressione di una diffusissima tendenza a rassegnarsi ai propri limiti. E, comunque si tenti di giustificarla, tale tendenza è sempre insensata, per due ragioni:
– la prima è che, nel mondo che ci circonda, noi non notiamo limiti ovunque: non vediamo un limite nel fatto che l’acqua sia costituita soltanto da idrogeno e ossigeno, o nel fatto che la luce provenga soltanto da sorgenti di luce; una qualsiasi condizione esteriore ci appare invece limitante, perché in essa abbiamo scorto il riflesso di qualche nostro limite interiore: posso perciò vedere un limite nel fatto di avere, oggi, soltanto alcune ore per dedicarmi a una cosa che mi piace – e il limite interiore è dato appunto dall’aver organizzato il mio tempo in modo da concedermi soltanto quelle poche ore per una mia occupazione piacevole, mentre avrei potuto disporre altrimenti;
– la seconda ragione è che avvertiamo un limite interiore solo se, in qualche modo, siamo già giunti al di là di esso, scorgendo qualcos’altro più in là: così, non mi spiacerebbe oggi di avere solo poche ore per quella mia occupazione, se non mi rendessi conto che avrei potuto organizzarmi diversamente.
Dunque non vi è, per noi, limite che, potenzialmente, non abbiamo già superato, e il cui scopo non sia quello di farci scoprire che cosa ci stia trattenendo dal superarlo davvero.
Questa vera e propria legge della percezione del limite vale in qualsiasi ambito della conoscenza, sia pratica, sia teorica. Se hai visto un limite, dove che sia (un tuo difetto, un tuo problema, o qualcosa che ti è impossibile) è perché tu sei già oltre: e conviene perciò rallegrarsi di averlo visto, perché significa che sei cresciuto, e che la dimensione in cui quel limite ti appare come tale sta diventando troppo stretta per te. Una caccia ai limiti, un’autentica «arte dell’agguato» è dunque ogni crescita spirituale; ed è escluso che vi sia un limite ai limiti che si possono individuare, proprio perché, non appena capitasse di trovare quel limite dei limiti, esso apparterrebbe già al passato.
A ciò si riferisce il passo dei Vangeli
nulla è stato detto in segreto, che non debba
essere conosciuto e venire in piena luce
Luca 8,16
Ma dal fatto che ogni limite serva a venir superato, deriva anche che nessun comandamento debba intendersi come un limite invalicabile. Al contrario: la Bibbia narra che l’uomo supera di continuo i limiti stabiliti da Yahweh, fin dal divieto di assaggiare i frutti dell’Albero della conoscenza; e ciò è del tutto comprensibile: Yahweh è il Dio dell’ESSERE, di ciò che già c’è, mentre l’uomo non può non DIVENIRE, cioè andare oltre, evolversi. E nota bene: superare i comandamenti non significa semplicemente disobbedire (disobbedire è piuttosto non essere ancora giunti al limite che nel comandamento è indicato), ma ancor sempre crescere più in là di quel che in ciascun comandamento viene avvertito come limitazione.
Ed è più semplice di quel che potrebbe sembrare: è sufficiente trasformare il tempo dei verbi usati nei comandamenti dal futuro all’indicativo presente. Per esempio: «amerai il prossimo tuo come te stesso», scritto così, viene inteso come un limite posto a qualsiasi sentimento verso il prossimo, che non sia un sentimento d’amore (non odierai il prossimo, non lo disprezzerai, non proverai indifferenza nei suoi riguardi ecc.). E tale limite viene superato se leggi: «tu ami il prossimo esattamente come ami te stesso» (e lo detesti, dunque, esattamente come detesti te stesso). Così pure «tu non ucciderai» diventa «tu non uccidi», cioè: sei veramente te stesso quando non uccidi, e cessi di esserlo quando uccidi un qualsiasi essere vivente. Eccetera. Superandoli in questo modo, i cosiddetti comandamenti si rivelano quel che realmente intendevano essere, prima che il nostro Yahweh li facesse apparire come divieti: e cioè leggi di natura, espressioni di costanti del comportamento umano – tanto quanto la legge di gravità è espressione d’una costante del moto dei gravi. E in quanto leggi in tal senso, cessano anche di venir percepiti come limiti dalle persone sensate – al pari della formula chimica dell’acqua, o del fatto che abbiamo due braccia e due gambe. Il cambiamento di prospettiva che ciò comporta è, naturalmente, immenso: una cosa è vivere in un mondo in cui Dio ti vieta di fare alcune cose che potresti fare (e che, spesso, proprio il divieto rende tanto più attraenti), e tutt’altra cosa è scoprire, in alcune leggi antiche, precise descrizioni del funzionamento della psiche umana.