I

IMMAGINAZIONE. Che l’immaginazione sia l’unico radar di cui l’io piccolo disponga per percepire l’Aldilà, è cosa nota da millenni e dimenticata soltanto dai nostri contemporeanei. «Immagina con vera imaginatio» raccomandava l’autore del Rosarium Philosophorum (1550) a coloro che vanno alla scoperta di «colui che è dentro», cioè del proprio autentico io; e intendeva dire: adopera la tua immaginazione in modo che essa colga ciò che è vero, e che né i sensi, né il ragionamento, e nemmeno l’intuizione possono ancora cogliere. E Dante:

Imagini chi bene intender cupe

quel ch’i’ or vidi (e ritegna l’image,

mentre ch’io dico, come ferma rupe).

Paradiso XIII,1-3

Cioè: chi brama di intendere bene dovrà immaginare – e cercare di trattenere, come farebbe una rupe in una gola montana – il flusso delle immagini che avrà colto. E anche l’Esodo narra che Mosè, quando si trovò davanti a Dio,

(…) si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso ’Elohiym (…)

Esodo 3,6

Quel «velo» è ancor sempre una metafora dell’imaginatio: Mosè sapeva che la mente umana non è in grado («ha paura») di percepire direttamente ciò che ancora non conosce del divino (cioè ’Elohiym, il puro DIVENIRE) e perciò tenne ben presente che tutto quel che avrebbe percepito, durante la visione, non sarebbe stato che un «velo», uno schermo su cui apparivano immagini che, poi, sarebbe stato necessario interpretare: nessuna di quelle immagini avrebbe contenuto né sarebbe stata in alcun modo il Dio, ma attraverso quelle immagini-velo ’Elohiym gli avrebbe parlato.

Naturalmente, questa imaginatio non va confusa con l’INVENZIONE: il raggio d’azione dell’invenzione è limitato, chi inventa sa sempre in anticipo che cosa inventerà, e non fa che precisarne i contorni, i dettagli; l’immaginazione invece è sempre avventurosa, è un guardare oltre, verso quel che ancora non si comprende, e che può essere colto soltanto sottoforma di SIMBOLI – cioè di immagini il cui significato non è ancora noto quando stanno formandosi nella nostra mente, e che nell’Aldiquà non troveranno mai spiegazione sufficiente.

Appunto perciò l’immaginazione è, tra le nostre facoltà, la più utile nell’Aldilà e la meno usata nel MONDO già noto, in cui anzi essa appare spesso inopportuna («Suvvia, non è che fantasia! Sono le cose pratiche quelle che contano» ecc.). Particolarmente importanti, a tale riguardo, sono le indicazioni che Gesù dà durante l’ultima cena (Giovanni, capitoli 14-17) e che costituiscono una vera e propria teoria generale dell’imaginatio; vediamone alcuni passi:

Il mondo non può ricevere lo Spirito di verità, perché non lo vede e non lo conosce. Voi invece lo conoscete, perché dimora in voi e sarà in voi. Tra poco il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete.

Giovanni 14,17-19

Non si tratta qui di un «tra poco» temporale, bensì di un confine della percezione: da un lato vi è il MONDO, che per sua natura non è in grado di cogliere elementi spirituali senza cessare di essere, appunto, il mondo; dall’altro, vi è «l’io», in cui quei contenuti possono «dimorare». E si noti che essi sono un vedere, sono immagini.

Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi, e vi ho posti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel nome dell’io, ve lo conceda.

Giovanni 15,16

Non è tanto di sé e degli apostoli, che Gesù parla qui, quanto piuttosto dei contenuti e delle forme dell’imaginatio; il passo significa, cioè: «non sono le forme dell’immaginazione a creare i contenuti di cui vi parla il vostro Io grande, ma al contrario: sono quei contenuti a scegliere quelle forme, e a riplasmarle e a comporle, per farvi andare avanti e farvi generare ciò che è nuovo: e ciò che è nuovo non ha limiti: qualunque cosa l’io, in ciascun di voi, saprà immaginare e chiedere, gli sarà data».

Tutto ciò che vi ho detto, l’ho detto in immagini (en paroimìais) ma verrà l’ora in cui non vi parlerò più per immagini, ma apertamente vi parlerò del Padre.

Giovanni 16,25

E qui, sì, si tratta di un tempo a venire: cioè di una diversa fase evolutiva dell’individuo, in cui le dimensioni dell’Io che oggi sono percepibili solo attraverso l’immaginazione – sottoforma di paroimìai, di metafore, simbolizzazioni, veli – saranno altrettanto accessibili quanto lo è oggi il mondo già noto.

In questa fase, a quanto pare, ognuno può entrare soltanto autonomamente, nel dialogo interiore con il proprio io autentico (cfr. ACCORGERSI). Al contempo, e per lo stesso motivo, nessuna conquista dell’immaginazione può dunque aver valore se non per colui che la compie e per l’istante in cui la compie: «verrà sempre un’altra ora» nel parlare di quell’io più grande, e ciò che ne sai già ne sarà superato; così anche in Dante: «quel ch’i’ or vidi» è solamente quel che io ho visto ora – e non potrà mai porsi come normativo né pretendere ad alcun grado di oggettività, come avverrebbe se dicessi che «nell’Aldilà c’è quel che io ho visto».

Converrà dire piuttosto che nella tale o tal’altra forma ho visto, nell’Aldilà, qualcosa che ancora non so; dal fatto, poi, che le forme in cui l’ho visto io possano somigliare a quelle viste là da altri, si potrà dedurre soltanto un’affinità tra il mio e il loro modo di immaginare quel qualcosa, senza che ciò ponga alcuna condizione o limite a chi immaginerà in futuro. Neppure l’interpretazione di ciò che viene così immaginato, per quanto sia acuta, ampia, profonda, può giungere a una descrizione oggettiva del contenuto di quelle immagini (fossero anche Angeli, o Dio) e non perché l’uomo non ne sia in grado, ma per una ragione assai più semplice: perché il contenuto di quelle forme, come spiega Gesù nel passo citato più sopra, è il soggetto, e non mai l’oggetto, della nostra conoscenza e dell’immaginare stesso. È l’Io grande, che in quelle immagini si esprime e agisce in ognuno di noi – ed esse servono non a descriverlo, ma solo a entrare in contatto personalmente con esso.

I compiti dell’interpretazione di «quel ch’i’ or vidi» possono bensì essere i seguenti due:

a) individuare, nelle forme immaginate nell’Aldilà, il modo in cui l’io piccolo riesce a percepire l’Aldilà stesso – così come dai risultati di un’osservazione astronomica si potrebbero trarre informazioni sul tipo di telescopio usato, sulle capacità visive dell’astronomo, e su ciò che nella sua cultura, nella sua psiche e nella sua storia personale gli permette o, soprattutto, gli vieta di vedere e di accorgersi di quel che vede;

b) scoprire in quale modo queste capacità o limiti percettivi dell’io piccolo determinino anche ciò che esso sa dell’Aldiquà, cioè di quella dimensione che solitamente si ritiene «reale» e che si contrappone, come tale, all’immaginazione; ci si accorge facilmente, allora, di quanto la nostra percezione di questa dimensione «reale» sia interferita, ridotta, falsata da quegli stessi limiti che si possono individuare anche in ciò che riusciamo a immaginare dell’Aldilà. Come mi dicevano una volta i miei Maestri:

A te fa piacere pensare che siamo soltanto personificazioni di tuoi cambiamenti: nulla da obiettare. Ma anche tu sei solo una personificazione spontanea dei tuoi cambiamenti, che stanno avvenendo o potrebbero avvenire. Siamo pari; perciò ci frequentiamo bene. O ci tieni tanto, a essere tu l’unico reale nei dintorni?

Da L’Arca dei nuovi maestri

Da qui a pensare che anche il nostro mondo reale consista d’immaginazione, il passo è breve: ma è sbagliato, e non porta a nulla. Vi è immaginazione soltanto dove vi sia un Aldilà della percezione, cioè una soglia oltre la quale tu cominci a NON-SAPERE, e a percepire soltanto. Per chi abbia imparato a usare l’immaginazione, il nostro mondo reale può bensì mostrare quella soglia in qualsiasi suo punto: ogni cosa può cioè rivelarsi una paroimìa, un SIMBOLO – ma solamente se, osservandola, si arriva a vedere oltre quel che il mondo ne vede; mentre al di qua di quella soglia vi è soltanto il già noto, cioè il contrario dell’immaginazione.

Oltre a questa nostra imaginatio che scopre l’invisibile superando i limiti del visibile, ve n’è un’altra, anch’essa ampiamente documentata nei Testi sacri: ed è l’immaginazione divina, attraverso la quale ’Elohiym, secondo la Genesi, diede forma all’universo. Anche ’Elohiym infatti, immaginò le cose e gli esseri che aveva immaginato, prima che cominciassero a esistere.

’Elohiym disse: «Vi sarà luce». E vi fu luce.

Genesi 1,3

Ma neppure la Bibbia sostiene che tutto quanto l’universo sia opera, creazione ex nihilo dell’immaginazione divina. ’Elohiym si limitò, secondo la Genesi, a dare forme a ciò che prima era un «abisso», un infinito CAOS, traendole da esso o imprimendovele. Ciò che quelle forme avevano di veramente nuovo, di creato, fu che non erano Dio. I cabbalisti spiegano – giustamente, e molto audacemente – che ’Elohiym si ridusse, si contrasse, arretrò, perché quelle forme potessero esistere, in un universo che, prima, era tutto pieno della Sua presenza. ’Elohiym fece dunque proprio il contrario di quel che possiamo fare noi quando immaginiamo qualcosa dell’Aldilà, e cresciamo in esso, dandogli forme tratte dall’Aldiquà.

In tal modo, il rapporto tra l’immaginazione divina e le sue creazioni coincide non con quello tra la nostra immaginazione e il nostro Aldilà, ma con quello che vi è tra la nostra immaginazione e l’Aldiquà: come Dio diminuì se stesso per creare il nuovo, così noi, da tutto ciò che riusciamo a cogliere dell’Aldilà, guardiamo all’Aldiquà come a un nostro territorio divenuto più piccolo, più stretto. Nelle VERSIONI CONSUETE si legge che ’Elohiym fece l’uomo «a sua immagine e somiglianza»; secondo il testo ebraico lo fece bensì «nella sua ombra e secondo il suo modo di assimilare» (Genesi 1,26), cioè «là dove Lui non era (non avrebbe fatto ombra, se no) e in modo che gli uomini apprendessero da lui». E nell’imaginatio, qualcosa davvero abbiamo imparato da Dio.

INCONSCIO, vedi IO e ALDILÀ.

INDIVIDUAZIONE. Questo termine importantissimo e oggi poco usato indica il formarsi dell’individuo, cioè dell’io piccolo che si accorge di sé come di un essere diverso dal gruppo umano nel quale vive.

Il Vangelo di Giovanni descrive spesso l’individuazione, per esempio nel celebre passo: «L’io è la via, la verità, la vita» (Giovanni 14,69). Tu, infatti, diventi un individuo quando cominci a intendere la vita come una via che sei tu – è il tuo io – a percorrere e a scoprire, e quando la verità diventa ciò che è vero per il tuo io, e non ciò che è vero per gli ALTRI o per i MOLTI.

In termini più complessi e drammatici l’individuazione è descritta da Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi (15,44-49):

Sta scritto: il primo uomo, Adamo, divenne un’anima vivente; ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale; e solo poi venne il corpo spirituale. Il primo uomo, tratto dalla terra, è di terra; il secondo viene dal cielo. Quale è l’uomo fatto di terra, così sono tutti quelli di terra; ma quale è il celeste, così sono i celesti. E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste.

Il «primo uomo» o «uomo di terra», o «corpo animale», in questo passo di Paolo, indica appunto l’io che non è ancora individuo, ma semplice «anima vivente» (nephesh in ebraico, come a dire: «un qualcosa che respira») mentre quella sua «terra» corrisponde a ciò che noi solitamente chiamiamo «il mondo degli altri». L’«ultimo Adamo», o «secondo uomo» o «corpo celeste», è invece l’individuo, ed è detto «spirituale» proprio perché dà vita e significato non soltanto a se stesso ma a tutto ciò che percepisce; «Spirito» è appunto quell’ENERGIA che fa essere e divenire tutto ciò che è e che avviene.

Il processo dell’individuazione consiste realmente in uno staccarsi da quella «terra» per partecipare della creatività dello «Spirito». Ma non necessariamente tale distacco implica conflitti con il gruppo umano in cui si vive; spesso è vero piuttosto il contrario: un gruppo è tanto più armonioso e forte, quanto più i suoi componenti hanno saputo individuarsi; e viceversa: quanto più rari sono in un gruppo coloro che sanno essere se stessi, tanto più i legami tra i suoi componenti si fonderanno su sottomissione, paura, ansia, ovvero su elementi che possono facilmente produrre conflitti d’ogni genere, all’interno del gruppo stesso.

In quest’ultimo tipo di gruppi, sì, l’individuazione è sempre una conquista faticosa. In alcuni periodi storici, come gli anni Trenta in alcuni Paesi europei, o come in Italia oggi, l’individuazione diviene addirittura rischiosa: negli anni Trenta, nei Paesi fascisti, la si pagava spesso con la galera; oggi, in Italia, la si paga altrettanto spesso con una condizione di isolamento, di incomunicabilità, poiché il maggiore ostacolo all’individuazione è rappresentato oggi, nel nostro Paese, dall’eccezionale impoverimento della lingua parlata.

Quanto più un io comincia a essere se stesso, tanto più incomincia a riflettere, e ha bisogno di concetti, di parole per affrontare i propri interrogativi ed esprimere le proprie scoperte: ma in Italia, oggi, chiunque tentasse di usare a tal fine un vocabolario comprensibile alla maggioranza sarebbe costretto a lasciar perdere. Può servire da indicatore di ciò la diffusione, nell’italiano corrente, della pomposa espressione «quant’altro»; una quarantina di anni fa sovrabbondava invece l’espressione «nella misura in cui»: non che quest’ultima brillasse per originalità, a quei tempi, ma la deprimente differenza è che per poter adoperare il «nella misura in cui» è indispensabile saper formulare un pensiero complesso, mentre per adoperare il «quant’altro» è sufficiente essere in grado di fare un elenco, il che richiede uno sforzo sintattico e lessicale di pochissimo superiore allo zero: dunque a questo grado si situano le abilità espressive e intellettuali di un numero preponderante di italiani.

Quando il patrimonio linguistico e concettuale di una nazione si riduce talmente, avviene che tra i pochi concetti ancora comprensibili ai più si stabiliscano nessi fortissimi, vere e proprie catene di riflessi condizionati (per esempio: premier-pote-resuperiorità, come se chi ha potere fosse per ciò stesso superiore al suo prossimo; oppure prete-Dio-Vangelo-Chiesa-credente, come se per parlare di Vangeli si dovesse per forza aver a che fare con i preti, o come se i credenti fossero soltanto gli appartenenti alla Chiesa cattolica, ecc.), e quanto più forti sono simili catene, tanto più è difficile pensare liberamente, e tanto maggiore è il conformismo in cui, spesso senza nemmeno accorgersene, ci si impantana. Quei nessi si pongono infatti come una robusta barriera tra la mente e la realtà, così che guardando quest’ultima si arriva a vedere la barriera soltanto. In tali condizioni, il processo di individuazione tende ad assomigliare molto allo sforzo di uscire da un labirinto di percorsi obbligati.

La rassegnazione a non uscirne, d’altra parte, trasforma buona parte dell’io in un Minotauro, come nel mito cretese: quando neghi il tuo «corpo celeste», cioè le potenzialità che l’individuazione desterebbe in te, esse tendono a sprofondare «nell’inconscio», come dicono gli psicologi, e lì rischiano facilmente di assumere aspetti da incubo (Minotauri, appunto), di assomigliare a pericoli, o di far sembrare pericoloso chi te ne parla o ti ricorda, con il suo comportamento, che quelle potenzialità esistono. Anche per tale motivo nelle società autoritarie, o comunque in quelle in cui l’individuazione è resa difficile, avvengono tanto di frequente le persecuzioni contro i «diversi», la cui unica colpa è quella di essere o sembrare più individui degli altri: streghe, eretici, ebrei, omosessuali, stranieri. In Italia si è ancora abbastanza lontani dagli eccessi di Salem o dalla «caccia alle streghe» che si ebbe negli USA dopo la Seconda Guerra Mondiale; ma meglio stare in guardia.

INGANNO. «Ogni pensiero che riusciamo a dire è una bugia» scriveva un raffinato poeta del primo Ottocento, Fëdor Tyutchev. E paradossalmente diceva il vero, almeno per quel che riguarda alcune delle parole che usiamo più di frequente.

Per esempio i pronomi personali: io, tu. Sono evidentemente inganni, nell’uso che se ne fa di solito. In ogni nostra frase in cui compaia la parola «io», noi infatti mentiamo: intendiamo quell’«io» come se coincidesse con noi stessi, mentre in realtà l’«io» di cui parliamo è un altro, diverso da noi. Non è il soggetto, ma l’oggetto del nostro parlare: è un personaggio, e non l’attore che lo recita; e tende inoltre ad assomigliare il più possibile a ciò che gli altri, quando si rivolgono a noi, chiamano «tu»; più opportuno sarebbe dunque dire (o almeno pensare) «il mio tu», quando si parla di quell’«io».

Lo stesso, ovviamente, avviene anche alle persone che parlano con noi, di modo che quando due individui conversano si hanno almeno quattro interlocutori, due dei quali (i due io-attori, nascosti dietro agli io-personaggi) non fanno che mentire. Ciò esercita un notevole influsso, complicato e deprimente, sui loro discorsi, sui loro orizzonti, sull’immagine che hanno della vita e del mondo, insomma su tutta quanta la loro esistenza, oltre che naturalmente sui loro reciproci rapporti. Potrebbero sottrarsi a tale influsso se si illuminasse, in loro, la consapevolezza dell’ioattore celato dietro all’io-personaggio, e se provassero a far parlare il primo invece del secondo. Certo, anche allora l’inganno tenterebbe di replicarsi a un grado lievemente superiore – poiché non appena tu ti sforzassi di parlare dell’io-attore, anch’esso diventerebbe soltanto un personaggio, con un altro io-attore nascosto più su. Ma, d’altra parte, ciò non renderebbe più impacciata la conversazione: al contrario, due persone che insieme provassero a scoprire i propri io-personaggi si troverebbero ben presto impegnati in un appassionante dialogo, da ricordarsi poi a lungo come uno dei momenti decisivi della loro vita.

A questo rapporto tra l’io-attore e i suoi io-personaggi e al tentativo di superare l’inganno del pronome personale, si riferisce una frase di Gesù che da sempre imbarazza i teologi:

Se due di voi si troveranno, qui in terra, d’accordo sul chiedere una qualsiasi cosa, il Padre dell’io che è nei cieli ve la concederà. Perché dove vi sono due o tre riuniti nel nome di un io, l’io è in mezzo a loro.

Matteo 18,19-20

Le «due o tre persone» sono, qui, appunto l’io-attore e gli iopersonaggio. Le tue capacità, i tuoi desideri, il tuo chiedere (non solo a Dio ma a tutti, anche a te stesso) aumenterebbero nettamente se quei tuoi «due o tre» riuscissero a «trovarsi d’accordo»: cioè a non intralciarsi a vicenda, e senza che nessuno di essi sia messo a tacere.

E ciò non è affatto impossibile. La differenza tra io-attore e gli io-personaggio è data infatti dal numero di FUNZIONI e degli INTELLETTI che l’io stesso ha intuito e sviluppato: in pratica, se una persona ha intuito otto delle sue funzioni, ma ne ha sviluppate soltanto tre, il suo io-personaggio è ciò che essa riesce a essere grazie a queste tre funzioni, e il suo io-attore è ciò che essa potrebbe essere se usasse anche le altre cinque – ed esattamente lo stesso vale per i suoi intelletti. Ci si rende conto dei limiti di un proprio io-personaggio proprio quando ci si interroga su tali funzioni già deste ma non ancora usate – sul perché non le si usi, su ciò che potrebbe avvenire se le si usasse, – il che non mette certamente a tacere l’io-personaggio, ovverosia le funzioni che già si usano, e porta bensì a unificarlo, a «metterlo d’accordo» con l’io-attore. E il pieno accordo si raggiunge, naturalmente, quando tutte le funzioni e tutti gli intelletti di un io sono ugualmente desti e attivi: cosa, questa, che certamente comporterà pazienza, ma che d’altra parte richiede soltanto il coraggio di conoscere se stessi.

Dell’inganno dei pronomi personali occorre imparare a tener conto anche nelle conversazioni con i MAESTRI: sia per non identificarsi troppo facilmente con il nostro io-personaggio, sia soprattutto perché i Maestri danno voce anche alle funzioni dell’io meno usate, o non ancora deste; quanto più si impara ad ascoltarli in tal senso, tanto più ampio diviene l’orizzonte di possibilità di ogni nostro desiderio o progetto – e, in tale ampliarsi, occorrerà fare l’abitudine al senso di smarrimento, di vertigine anche dei nostri io-personaggio, aiutandoli ogni volta a crescere.

INIZIAZIONE. Con questo termine si indica ogni «rito di passaggio» da una condizione di vita a un’altra. Gli antropologi e gli psicologi a me noti credono fermamente che il più importante di tali «passaggi» sia quello dall’adolescenza all’età adulta, e di conseguenza danno per scontato che consacrare l’inizio di quest’ultima fosse lo scopo di tutti i riti iniziatici diffusi nelle culture arcaiche (e le cui tracce si trovano ancora nelle religioni attuali: la cresima, la circoncisione ecc.).

Io ritengo invece che quei riti siano stati tentativi di «democratizzazione» (e siano solo opache memorie) di un altro genere di iniziazione, riscontrabile in tutte le epoche e a tutte le latitudini: l’iniziazione eroica, regale, o profetica, scopo della quale è impedire che un individuo diventi e rimanga per tutta la vita un banale membro adulto della comunità, e fargli invece recuperare la genialità, l’intensità, la libertà interiore propria dei bambini, qualità tutte indispensabili a una personalità eccezionale.

A differenza dei riti iniziatici studiati dagli antropologi e dagli psicologi, quest’altra iniziazione non richiede l’intervento di sacerdoti che ne sorveglino i processi ritualizzandoli: è bensì un fenomeno spontaneo, che si produce in chiunque abbia l’energia sufficiente a coglierne i primi sintomi e poi a reggere alle prove che impone. E proprio perché chi riesce a superare tali prove diventa un individuo eccezionale, non irreggimentabile nelle regole della collettività e facilmente propenso a sfidarle, le autorità religiose di tanti popoli contrapposero all’originaria iniziazione eroica i riti iniziatici tradizionali. Questi ultimi appaiono sì più «democratici», ma solo perché vengono stabiliti come obbligatori per tutti i giovani membri della collettività; e imitano l’iniziazione eroica, ma solo per impedire la diffusione di tale fenomeno (un po’ come l’istruzione religiosa nelle scuole serve a dare a moltissimi l’impressione di apprendere tutto ciò che è necessario sapere della spiritualità, e in tal modo, senza che se ne accorgano, li scoraggia dal cercare risposte più profonde).

Sul processo dell’iniziazione eroica disponiamo di moltissime informazioni dirette – dall’antico Egitto all’alchimia medievale. Inoltre, trattandosi di un soggetto tanto affascinante e al contempo tanto destabilizzante per le strutture sociali, numerose sono anche le informazioni indirette, spesso cifrate ma sempre facilmente riconoscibili, nelle letteratura orale, in fiabe, miti, leggende, e anche celebri opere letterarie (ne parlo ampiamente ne Il mondo invisibile).

Tutte queste fonti concordano nella definizione delle quattro fasi indispensabili all’iniziazione eroica, le quali sono:

1)  la preliminare, tormentosa disgregazione della personalità (la nigredo degli alchimisti);

2)  la fase, più o meno lunga, di indeterminatezza e smarrimento (viriditas);

3)  l’inizio di una coesione degli elementi che costituiranno la personalità nuova (albedo);

4)  il formarsi della nuova personalità (rubedo).

I miti di Osiride, le storie di morte e rinascita spirituale descritte nel Libro dei morti egiziano, il Diluvio, l’Esodo (che narra dell’intento di Mosé di iniziare un intero popolo, tutto in una volta) la passione di Gesù (in cui le quattro fasi sono: 1, il Calvario; 2, i giorni nel sepolcro; 3, l’uscita dal sepolcro e l’incontro con Maddalena; 4, l’ascensione al cielo), la Divina Commedia, le vicissitudini del Conte di Montecristo o di Pinocchio sono perfetti esempi di ricostruzione delle quattro fasi iniziatiche, che ciascuno di noi può intraprendere nella propria vita, a qualsiasi età e non necessariamente una volta sola. Le occasioni, gli ingressi in tale iniziazione sono infatti frequenti: ogni sconfitta, ogni apparente depressione può dischiuderne, e così pure il disgregarsi di certezze – per esempio la nigredo culturale e intellettuale in cui viene a trovarsi chi, nella propria ricerca spirituale, si imbatta in verità e dimensioni completamente diverse da quelle che si aspettava. E una volta entrati nell’iniziazione, le quattro fasi si succedono di per sé con mirabile e naturale regolarità. Molto di ciò che viene definito disagio o addirittura malattia psichica può dunque rivelarsi l’esatto contrario di una malattia: una guarigione dalla mediocrità – se si dà ascolto alla SAPIENZA antica.

INTERIORITÀ, vedi SOGGETTIVITÀ.

INTUIZIONE, vedi PERCEZIONE.

INSEGNAMENTO. «Chi sa fare, fa; chi non sa fare, insegna» diceva Antòn Chekhov, e ne convengo. Insegnare è un bisogno irresistibile di chi sta imparando qualcosa: ma, a differenza di quel che comunemente si ritiene, ha uno scopo assai più egoistico, che non altruistico.

Insegnare ad altri è infatti il modo migliore per chiarire a se stessi quel che si è arrivati e quel che non si è ancora arrivati a scoprire. Insegnando è possibile scoprire di più; chi insegna dispone infatti di un’energia più ampia di quella di chi sia intento a riflettere per proprio conto: è l’energia resa disponibile dall’attenzione, dalla fiducia, dall’affetto, dalla curiosità, dalle critiche degli ascoltatori, e chi insegna ne riceve grande impulso per affrontare – nel momento stesso in cui ne sta parlando – questioni che da solo non avrebbe osato neppure ipotizzare.

Ne consegue che, paradossalmente, la miglior cosa sia proporsi di insegnare quello che ancora non si sa, e apprenderlo proprio mentre lo si insegna, insieme ai propri ascoltatori (penso sia per questo che tanti profeti non scrissero nulla, e di loro rimangono solo trascrizioni dei discepoli). Ne consegue anche che principale dovere di un insegnante sia smettere di insegnare ciò che invece ha già sufficientemente appreso, e dedicarsi invece a metterlo in pratica.

In tal senso, penso risulti più chiara la vicenda di Gesù narrata nei Vangeli: Gesù insegna come essere liberi e divini fino a che non è ancora diventato né l’una né l’altra cosa; e smette di insegnare e se ne va appunto quando, dopo la sua tremenda iniziazione (la Passione) è divenuto realmente libero e divino. Se così non fosse, una volta risorto avrebbe dovuto ragionevolmente insegnare ancora a lungo.

Quanto agli allievi, il fatto di avere un insegnante è per loro tanto più vantaggioso, quanto più sanno cogliere questo particolare senso dell’insegnare: quanto più, cioè, vedono nell’insegnante un individuo che cerca, scopre, progredisce, e apprezzano in lui l’esempio, il caso umano, molto più della dottrina – che, se insegnata, serve soltanto a venir superata il più presto possibile.

INTELLETTI. In genere si adopera questa parola al singolare, a indicare la facoltà (al singolare anch’essa) di intendere e di elaborare concetti. Ma e me risulta che ogni individuo disponga di vari intelletti, almeno otto:

1) l’intelletto logico, che riesce a riconoscere e a capire i concetti soltanto in forma non contraddittoria;

2) l’intelletto analogico, più sottile, che riesce a cogliere rapporti tra le cose anche in forma paradossale, e può perciò ottenere deduzioni più vaste e profonde di quelle dell’intelletto logico;

3) l’intelletto immaginativo, che non trae i suoi contenuti dalla realtà già nota ma li produce esso stesso;

4) l’intelletto intuitivo, che intende qualsiasi principio di identità come una condizione da superare: ha quella che Dante chiama la proprietà di «intuarsi», di «inluiarsi» ecc., cioè di internarsi in qualsiasi altro essere vivente:

Già non m’attendere’ io tua dimanda, s’io non m’intuasse, come tu t’inmii.

Paradiso IX,80-81

cioè: non dovrei attendere la tua domanda per risponderti – dice qui Dante a un beato spirito del Paradiso – se sapessi intuarmi come tu ti inmii; ma non occorre passare dal Paradiso per sperimentare tale proprietà;

5) l’intelletto dimensionale, che è in grado di cogliere dimensioni, realtà diverse da quelle a cui l’io piccolo è abituato, e di orientarvisi; e neppure questo intelletto ha alcunché di soprannaturale: noi non ci accorgeremmo della destra e della sinistra, del basso e dell’alto, dei punti cardinali, se non avessimo intuito altre dimensioni in cui tali direzioni non valgono – proprio così come un bambino nero si accorge di essere nero dopo aver visto dei bianchi;

6) l’intelletto materiale, che consiste nella profonda percezione delle forze della materia: non ha parole né leggi, ha solo l’immediata esperienza della realtà;

7) l’intelletto istintivo, che governa le dinamiche, la velocità dei processi intellettivi: dirige, coordina i sei intelletti precedenti;

8) l’intelletto nominale, il più alto e potente: presiede ai rapporti con il linguaggio. Ha il potere di far esistere le cose nominandole, o viceversa di influenzare (e spesso di sospendere) il prodursi di un fenomeno semplicemente descrivendolo; è appunto grazie a questo intelletto che, per esempio, si può dissolvere una nevrosi quando si riesce a descriverla nei suoi dettagli, o ci si può liberare da un peccato confessandolo a qualcuno, o si può far avvenire qualcosa chiedendolo in una preghiera. Nei popoli questo stesso intelletto è all’opera nella formazione e nell’evoluzione (o involuzione) delle lingue.

Questi diversi intelletti sono presenti in ciascun individuo in proporzione diversa: io posso, per esempio, essere stupido nel mio intelletto logico e in quello materiale, ed essere invece molto intelligente nel mio intelletto immaginativo e in quello nominale. Conoscere queste otto facoltà, riflettere su di esse, imparare ad accorgersi di quando una di esse è all’opera o di quando stenta, è utilissimo per due motivi:

– perché dà modo, con un po’ di pratica, di chiamare in causa quelli che di volta in volta occorrono, evitando di affidare a un intelletto compiti che spettano a un altro (e possiamo allora facilmente accorgerci che alcune cose non ci riescono o ci sembrano impossibili e incredibili, solo perché finora le avevamo affrontate con l’intelletto sbagliato), e

– perché gran parte del distress, della fatica che incontriamo nel pensare e in generale nel vivere, dipende dai nostri sforzi di non usare, di paralizzare il quarto intelletto (tutti temono la telepatia, per la maggior parte d’ogni loro giornata) e di non accorgerci del potere dei quattro intelletti che ad esso seguono, nell’elenco.

Dell’emozionante scoperta di questi intelletti narrava già la Genesi: l’’adam infatti, che rappresenta l’intelletto logico, impara grazie a Yahweh a usare l’intelletto nominale (Genesi 2,19); e in ’ishah – in Eva, cioè – incontra l’intelletto immaginativo, e nel Serpente l’intelletto intuitivo, e via dicendo. Nondimeno, non ne ho ancora trovato traccia in nessun modello psicologico o filosofico dell’io.

INVENZIONE. «Inventare» significa usare la fantasia per produrre o precisare immagini di qualcosa che il pensiero ha già definito in precedenza: in altre parole, quando cominciamo a «inventare», noi sappiamo già in quale direzione si muoverà la nostra creatività, cosa otterremo con essa, e dove dovremo fermarla per ottenerlo. Possiamo perciò metterci a inventare la ricetta d’una nuova torta, o gli argomenti per far valere una nostra opinione (nella retorica latina, inventio era appunto l’accurata scelta delle argomentazioni per un discorso da tenere in pubblico); non possiamo invece in alcun modo metterci a inventare un quadro o un romanzo: questi, perché valgano qualcosa, richiederanno invece l’intervento della nostra IMMA-GINAZIONE, che è una facoltà d’altro genere.

Nell’esplorazione dell’Aldilà l’invenzione è per lo più d’intralcio: se mi accorgo di aver inventato una risposta dei miei MAESTRI, significa che a formularla o a manipolarla è stato il mio pensiero, allo scopo di confermare a se stesso quel che sapeva già prima di porre la domanda. Nondimeno l’invenzione può, di tanto in tanto, tornare utile anche nell’Aldilà: per poter immaginare occorre infatti una notevole dose di coraggio e lucidità, e quando queste qualità fanno difetto in noi per una qualsiasi ragione (paure, censure, eccesso d’emozione) proprio il ricorso all’invenzione serve a evitare sgradevoli momenti di BLACK-OUT.

Così, per esempio, all’inizio di una conversazione con i propri MAESTRI si hanno sempre due o tre minuti di esitazione, in cui la nostra attenzione non ha ancora trovato la giusta FRE-QUENZA psichica: e in quei due o tre minuti è bene inventare frasi, fingendo, del tutto consapevolmente, che siano risposte degli Spiriti guida. L’atto di SCRIVERE è infatti indispensabile alla comunicazione con questi ultimi: solo se la nostra mano sta scrivendo frasi sensate essi possono far giungere, in quel che scriviamo, ciò che hanno da dirci; dunque tanto vale inventare, all’inizio, purché la mano non rimanga ferma. Poi, provvederanno i MAESTRI stessi ad assestare la nostra attenzione e a condurci dall’invenzione all’immaginazione.

IO. Quando diciamo «io», intendiamo di solito quel che sappiamo di essere; e molti credono che il loro io sia davvero e soltanto questo io.

Anche la PSICOLOGIA attuale la pensa così, dato che pone come centro dell’io la coscienza, cioè il sapere di esserci, e come suoi confini, da un lato, il mondo esterno – che è ciò che l’io sa di non essere – e dall’altro il cosiddetto inconscio – cioè una nostra dimensione di cui l’io sa sempre poco. Cionondimeno, è evidente che la psicologia attuale non soltanto sappia ben poco dell’io, ma si attenga – da cent’anni – a una descrizione dell’io stesso, che le impedisce di saperne di più. I principali punti deboli di tale descrizione sono i seguenti:

– l’idea stessa che l’io abbia dei confini, e che gli psicologi li possano tracciare. Per tracciare il confine di una qualsiasi area, occorre esserne infatti usciti: e in che modo il nostro io può uscire da se stesso? Ovunque un io arrivi a trovarsi, sarà comunque in se stesso; e qualunque confine riesca a porsi, non sarà quindi mai un vero confine, un limite di sé, dato appunto che, per poterlo tracciare, l’ha già varcato – e al di là da esso era ancora io;

– l’idea che l’io possa sapere qual è il suo centro: se infatti non conosco i confini di un’area, come potrò sapere che un determinato suo punto si trovi proprio al centro di essa?

– l’idea che l’inconscio sia nostro: «nostro», in tutte le lingue, è infatti un aggettivo ambiguo: può riferirsi sia a qualcosa che è parte di noi (per esempio il nostro naso), sia a qualcosa che ha a che fare con noi (per esempio un nostro vicino di casa), sia infine a qualcosa a cui noi apparteniamo più o meno volontariamente (per esempio il nostro ceto sociale). Nella psicologia non è ben chiarito in quale di queste tre accezioni il nostro inconscio sia veramente nostro, in quale misura cioè possiamo dire di essere anche il nostro inconscio oppure di avere un inconscio – e ciò, naturalmente, rende incerto il concetto di ciò che nella psiche non è inconscio, cioè dell’io.

Queste fondamentali incertezze della psicologia attuale derivano, a mio avviso, da tre suoi immotivati presupposti:

– che l’io sia uno,

– che non abbia un Aldilà (nel quale potrebbe uscire da se stesso), e

– che debba per forza assomigliare a ciò che un adulto europeo crede di indicare, appunto, con la parola «io».

Dal canto mio, preferisco parlare dell’io al plurale, come di un insieme di elementi, di dimensioni e di rapporti tra gli uni e le altre; e penso che ognuno di noi sia tutti questi elementi, dimensioni e rapporti, ma che non tutti siano ancora capaci di ACCORGERSENE. Questi elementi e dimensioni sono i seguenti:

– l’ATTENZIONE,

– l’io piccolo,

– la crescita, o funzione trascendente,

– gli ALTRI,

– il TU,

– l’Aldilà, o Io grande.

Tratto di alcuni di questi elementi e dimensioni in varie altre voci di questo libro. Nei loro rapporti reciproci, possono essere così descritti:

L’ATTENZIONE

Corrisponde a quel centro dell’io, che in psicologia è chiamato «la coscienza», con una differenza importante: a mio avviso, la nostra ATTENZIONE-coscienza è sempre intenzionale. È determinata cioè dalla nostra volontà di percepire e comprendere i rapporti tra noi stessi, gli altri e le cose – anche quando tale volontà è un semplice accettare di percepire, di comprendere, di sapere ciò che percepiscono, comprendono, sanno gli altri.

L’IO PICCOLO

Ma ciò che noi sappiamo-accettiamo di percepire, comprendere, sapere non è tutto ciò che realmente percepiamo, comprendiamo, sappiamo. Da bambini, ognuno di noi sapeva di essere ed era molto di più di quel che è e sa di sapere di sé da adulto. Tale diminuzione è stata prodotta in ognuno di noi dai condizionamenti che abbiamo subito e dalla nostra intenzione di considerare quei condizionamenti come più forti e più importanti di noi. Il risultato è, nell’adulto, un’immagine dell’io minuscola, rispetto a quella che aveva a tre-quattro anni d’età: e a tale immagine adulta dell’io do il nome di io piccolo.

LA CRESCITA, O FUNZIONE TRASCENDENTE

L’Attenzione è sinonimo dell’io quando l’adulto è veramente convinto di essere il proprio io piccolo e null’altro: l’Attenzione può allora adeguarsi a questa convinzione e cogliere in noi e fuori di noi soltanto ciò che la comprovi. Ma può avvenire che l’attenzione-coscienza di un adulto voglia crescere, e cresca, al di là dei limiti posti dalla sua immagine dell’io: che l’adulto si accorga, cioè, di essere più di quello che credeva. Ciò avviene tutte le volte che in qualcosa che ci appariva esterno a noi (un elemento che ci condizionava e limitava, oppure una dote o un difetto che vedevamo in un’altra persona) scorgiamo invece una PROIEZIONE, e ci riappropriamo di quel che avevamo proiettato.

Chiamo queste riappropriazioni: la crescita dell’io piccolo; e funzione trascendente la capacità dell’Attenzione di produrle. In alcuni periodi della nostra vita (molto belli, di solito) noi siamo la nostra crescita e la nostra funzione trascendente ben più di quanto siamo il nostro io piccolo, e non vedo perciò alcuna ragione per non considerare anche tale crescita e tale funzione come nostri io.

GLI ALTRI

In tale sua crescita, l’io piccolo scopre sempre più che quel che prima chiamava «gli altri» (cioè l’insieme delle persone che conosce e che ha conosciuto in passato, e della gente a lui contemporanea, e delle generazioni passate così come l’io credeva che fossero, e anche, per chi ci crede, di immaginarie entità incorporee d’ogni specie, dalle più basse e malefiche alle più alte e sublimi) non sussistono di per sé, ma sono soltanto proiezioni: forme, cioè, dietro alle quali si nasconde qualcosa che l’io stesso, a un certo punto della sua vita, non ha più avuto il coraggio di essere – a causa di traumi o condizionamenti che ha accettato di subire. Anche quei cosiddetti «altri» sono dunque parte dell’io; e quanto più cresci, tanto più si trasformano: da un lato, scompaiono, come una cortina di nebbia, e al loro posto ti si rivela quel qualcosa di tuo che essi velavano e ti precludevano (così avviene, per esempio, quando scopri che buona parte di ciò che credevi fossero i tuoi genitori era il tuo impulso materno o paterno); dall’altro, ciascuno di quegli «altri» assume, quando ne ritiri le tue proiezioni, un aspetto completamente nuovo, diventando una persona concreta, di per sé unica e autonoma tanto quanto tu sai di esserlo (e così avviene quando nei tuoi genitori smetti di vedere soltanto la mamma e il papà, e scopri invece la donna e l’uomo che sono o erano davvero).

IL TU

Uno dei principali ostacoli alla crescita è quello che io chiamo il nostro Tu, cioè l’immagine che ciascuno di noi dà di se stesso ai cosiddetti «altri», e che è determinata soprattutto da ciò che noi crediamo che quegli «altri» vedano, pensino o vogliano vedere e pensare di noi. Non solo questo «tu» è un elemento del nostro io, ma per molte persone è tutto quanto l’io stesso: per coloro cioè che non sanno né pensare, né sentire, né agire mai in contrasto con ciò che a loro parere pensano, sentono e fanno gli «altri». Per ognuno di noi, senza eccezione, il «tu» è comunque il muro, la barriera da smantellare ogni volta che cresciamo. Non può infatti esservi vera crescita dell’io se esso continua a voler apparire agli «altri» come era prima, e a voler occupare in se stesso l’area che prima occupava, lasciando agli «altri» il rimanente.

L’ALDILÀ, O IO GRANDE

Aldilà dei cosiddetti «altri» e delle circostanze determinate da questi «altri», si estende una dimensione che l’Attenzione può esplorare attraverso facoltà differenti da quelle che, di solito, gli «altri» le insegnano a usare. Nel «mondo degli altri», la più importante di queste ultime è la MEMORIA, cioè la capacità di tenere nella tua mente quel che gli «altri» ti comunicano (e tale memoria è naturalmente ciò che conferisce ai tuoi «altri» esistenza). L’Aldilà ha inizio là dove questa memoria necessaria agli «altri» non occorre più: si scopre e basta, e tutto quel che si scopre è esclusivamente nuovo ed è esclusivamente Io – nient’altro che la nostra Attenzione intenta a scoprire la propria ampiezza, di cui non vede in nessuna direzione i confini. A questo «non-vi-è-altro-che-Io» do il nome di Io grande. Tale Io grande non può essere che un’ipotesi (o, per i religiosi, una fede, quando gli danno aspetti divini) fino a che si è nell’area del «mondo degli altri», della loro memoria. Nell’Aldilà, invece, esso si rivela sempre più come il vero soggetto, il centro irradiante della nostra Attenzione: e puoi dunque dire che è anch’esso un tuo io, ma non perché sia parte di te, come potrebbe esserlo la tua mano o un tuo pensiero, ma perché quell’Io grande è te – e ti accorgi che tutto ciò che sapevi di essere nell’Aldiquà non è che una limitatissima espressione di quel tuo Io grande.

Nell’Aldilà, è bensì quella tua limitatezza a diventare soltanto una parte di te, come potrebbe esserlo appunto una tua mano o un tuo pensiero (nei quali non puoi certamente identificare tutto te stesso), e osservi e intendi non soltanto il mondo degli «altri», ma anche ciò che tu sei in quel loro mondo, come qualcosa di più piccolo di te.

Qui l’analisi dell’io diventa ricerca spirituale. Di questa dimensione dell’Io grande parlano infatti – ben più che i testi di psicologia – i miti, le Sacre Scritture, la Qabbalah e molta teologia di tutte le religioni: e quel che ne dicono ha la stessa funzione delle carte geografiche degli antichi navigatori, nelle quali era riportato ciò che alcuni avevano visto e compreso di coste, fondali e correnti, senza pretendere né che fosse tutto quel che c’era da vedere e comprendere, né che i loro dati dovessero valere in eterno.

Di questi elementi e dimensioni consiste dunque, a mio parere, ciò che chiamiamo «io». Non vi è, tra essi, l’inconscio: non avverto alcuna necessità di questa ipòstasi pensata dagli psicologi. Ciò che in psicologia si chiama inconscio è, a mio parere, l’area dell’io di cui la nostra Attenzione non si è ancora accorta; include cioè sia l’Aldilà, sia buona parte del «mondo degli altri», sia addirittura l’io piccolo, per coloro che sono soltanto il proprio «tu». Ma il cosiddetto inconscio è soltanto ciò che di tutti questi elementi, dimensioni e rapporti non vediamo, e non vi è dunque motivo di porlo come un elemento della psiche – così come non vi è motivo di elencare tra gli arredi di un appartamento la parte di muro che è dietro un armadio o la parte di pavimento che è sotto un tappeto. Mentre l’inconscio presunto, teorizzato, indagato dalla psicologia attuale è, a mio parere, solamente il modo in cui gli psicologi stessi se lo rappresentano, e precisamente:

– ciò che su di esso proiettano, ovverosia ciò che, per i più svariati motivi, non vogliono vedere degli elementi e delle dimensioni dell’io; e

– l’esasperata raffigurazione del timore di quel che potrebbe avvenire se li vedessero (e in tal senso la psicologia attuale considera l’inconscio come una perenne minaccia all’ordine costituito dal conscio: sarebbe più esatto dire che quel che la psicologia non vede e non considera della psiche costituisce una perenne minaccia a ciò che la psicologia vede e considera della psiche, e alle teorie che è finora riuscita a costruire).

L’IO COME ENERGIA

Oltre che degli elementi e dimensioni suddette, l’io è costituito anche dai rapporti tra gli uni e le altre, per spiegare i quali ricorro al concetto di ENERGIA.

In termini energetici, le dinamiche dell’io possono essere descritte come una serie di differenze di potenziale, la più grande delle quali (e dunque quella che rende disponibile la maggior quantità di energia) si ha quando si arriva a connettere l’Aldilà con il centro dell’io piccolo, così:

images

Ed è lo schema energetico di quel che propriamente viene chiamato ANGELO. Tale differenza di potenziale può venire ulteriormente ampliata, estendendo il suo «polo» superiore nell’Aldilà – e delle quantità di energia via via maggiori che tale ampliamento rende disponibili trattano sia lo studio delle cosiddette Gerarchie Angeliche, o Sephiroth dell’ALBERO DELLA VITA, sia la mistica dei Nomi di Dio, fino all’Ayn Soph, che costituisce la massima estensione immaginabile del «polo» superiore di tale connessione, generatrice di quell’enorme quantità di energia psichica che, nella teologia, prende il nome di «onnipotenza divina», di «forza creatrice dell’universo» ecc. Anche questo rapporto e l’energia che ne è generata sono, a mio parere, parte integrante di ciò che chiamiamo «io».

Ma nell’Aldiquà si formano anche differenze di potenziale minori: tra l’io piccolo e il «tu»; tra l’io piccolo e qualsiasi punto del «mondo degli altri»; o tra qualsiasi coppia di punti di quest’ultimo.

images

L’energia resa disponibile da queste altre differenze di potenziale è, sì, incomparabilmente minore di quella della connessione tra io piccolo-Aldilà, ma può formare correnti, vortici, campi energetici di vario genere, che non soltanto impediscono all’io piccolo di connettersi con l’Aldilà, ma (e avviene di frequente) lo deformano, lo scindono, lo frantumano:

images

In tutti questi casi, la prima condizione per poter crescere – nel senso che io do a questo termine – è ritrovare se stessi e la propria posizione centrale: quella consapevolezza di essere il «centro del mondo», che tanto spesso ci sembra dispiaccia agli «altri» perché l’avvertono come presunzione, egocentrismo ecc. Per esempio:

Tutti gli dissero: «Tu sei dunque il Figlio di Dio?» Gesù rispose loro: «Lo potete dire anche voi: Io lo sono».

Risposero: «Che bisogno abbiamo ancora di una testimonianza per metterlo a morte? L’abbiamo udito dalla sua bocca!»

Luca 22,70-71

Ed è un’impressione giustissima: coloro che per noi sono «gli altri» non possono non temere il nostro riportarci al «centro del mondo», perché l’energia che da quel centro possiamo ottenere rende le loro connessioni con noi fatti secondari, e li priva del potere che hanno su di noi.

Sottrarsi ai campi magnetici, alle correnti, ai vortici di quelle connessioni minori e ritrovare il proprio centro quando lo si sia perduto, è naturalmente un’impresa considerevole. Ma la parte più difficile è all’inizio, quando occorre il coraggio di accorgersi della propria condizione dislocata, deformata o scissa. Ciò significa riconoscere di aver sbagliato la propria vita, di aver avuto torto a lasciarsi determinare dal proprio rapporto con questo o quel punto del «mondo degli altri» – per debolezza o rancore, o servitù, o per amore, o per uno qualsiasi dei celebri sette VIZI CAPITALI.

Una volta compiuto quel primo passo, le differenze di potenziali minori possono essere annientate senza grande sforzo, e precisamente nello stesso modo in cui le avevamo create. È stato il tuo io piccolo, infatti, a farle esistere – dato che gli «altri», con tutto il loro «mondo», sono soltanto ciò che tu chiami con questo nome e che vuoi percepire come tali. Ovunque, in quel «mondo», la tua funzione trascendente si sia fermata e abbia voluto vedere qualcosa di determinante, quel qualcosa è cominciato a esserci, ad assumere il significato che tu vi proiettavi e a generare, nella tua vita, energia che servisse alla tua autoaffermazione o alla tua autodistruzione in quel «mondo», a seconda di quel che tu stesso desideravi. Riscoprire quelle tue creazioni è ciò che ho imparato a chiamare: il RIVIVERE.

Tale rivivere viene percepito, di solito, dall’io piccolo come una ricerca compiuta nel passato: l’io piccolo si immagina cioè di spostare la propria attenzione da dov’è ora, ampliandola fino a raggiungere il momento in cui si era formato, nel suo «mondo degli altri», il polo della connessione che ora si vuole smantellare. In realtà, a considerarlo in termini energetici, il processo è un po’ più laborioso: l’io piccolo, intrappolato da una determinata connessione con il «mondo degli «altri», ritorna dal polo di essa verso il proprio centro, e a partire da quello misura l’ampiezza di quella propria connessione, accorgendosi di quanto essa sia minore di quelle che dal centro dell’io piccolo si possono stabilire con altri punti più lontani nel «mondo degli altri», o con l’Aldilà. Perciò nelle tecniche del rivivere è sempre presente o un essere superiore, Spirito guida, Angelo o Dio, o un qualche terapeuta che tenti, come meglio può, di farsi considerare dall’io o come un essere superiore, o come l’equivalente di qualche connessione con il «mondo degli altri» più ampia di quella che si vuole eliminare, e dunque più lontana dal centro dell’io piccolo (una figura paterna o materna, o una personalità autorevole conosciuta durante la prima adolescenza o l’infanzia ecc.). Rispetto a questa più ampia connessione, il polo di quella che si vuole annientare può venire ridimensionato, e apparire come cosa di poco conto, indegna, appunto, di costituire un «polo» agli occhi dell’io.

IMPLICAZIONI

I dubbi che si possono opporre a questa mia ipotesi dell’io multiplo sono naturalmente numerosissimi, ma in sostanza fanno tutti capo a due sole obiezioni di principio, una d’ordine religioso e l’altra d’ordine psicologico.

La prima è «Ma tutto ciò toglie valore alla volontà divina! Non può certamente essere l’io a creare i suoi poli nel mondo e le sue peripezie tra quei poli, bensì il disegno della Provvidenza…»

La seconda: «Ma cosa dimostra che non sia una proiezione anche l’Io grande, e proiezioni le varie forme che esso può assumere: Angeli, Divinità ecc.? Non sono anch’essi poli creati dall’io piccolo?».

E curiosamente, rispondendo a un’obiezione si arriva a rispondere al contempo anche all’altra.

Certamente le forme che noi diamo a quei poli superiori sono proiezioni del nostro io piccolo, ma quel che conta è che cosa vi venga proiettato: e il contenuto di tali proiezioni è proprio quella maggiore differenza di potenziale, quell’immensa energia di cui l’io piccolo si sente parte, e che non può in alcun modo contenere nell’idea che si è formato e può formarsi di sé nel «mondo degli altri». Immaginando, creando un qualche suo Dio creatore, l’uomo narra a se stesso ciò che si accorge di sapere ma che non comprende dell’energia complessiva del proprio io.

Oltre a narrarlo, occorre d’altronde riuscire a utilizzare consapevolmente tale energia – e in tal senso va intesa, a mio parere, la frase di Gesù:

Non chi mi dice «Signore! Signore!» entra nel Regno dei Cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio (Matteo 7,21)

cioè, in un linguaggio a a noi più consueto: ha davvero accesso all’Aldilà e alle sue superiori connessioni chi riesca ad accorgersi di come ogni suo fare, creare poli, connettersi ecc. sia un modo di utilizzare – più o meno bene o male, a seconda dell’ampiezza delle connessioni – l’energia del suo rapporto con l’Aldilà stesso, quella, appunto, che l’io stesso non arriva a contenere in alcuna idea che egli possa formarsi di sé nel «mondo degli altri». Questa scoperta della reale, immensa estensione dell’io (in termini religiosi: del suo legame perenne e inscindibile con il Padre: «tu sei sempre con me, e tutto ciò che è mio è tuo» Luca 15,31), che secondo i Vangeli era la conoscenza del Regno, costituisce oggi – a mio parere – il compito principale di una psicologia che non si accontenti dei fragili concetti e delle contraddizioni delle teorie psicologiche del secolo scorso. E a tale psicologia nuova io lavoro.

ISRAELE. Amo ciascuna religione, ritengo che tutte abbiano ragione e (cosa questa che me le rende ancora più care) anche torto; di conseguenza, non posso dirmi né regolarmente ebreo, né cristiano, né appartenente a nessun’altra fede che si ritenga migliore delle altre. Tra le religioni ancora esistenti ho tuttavia una speciale predilezione per l’ebraismo, soprattutto per il carattere avventuroso della sua teologia, e nei miei libri faccio spesso riferimento a tematiche ebraiche.

Una di queste è racchiusa nel nome stesso di Israele, nome che venne dato a Giacobbe da un misterioso «uomo» (in ebraico ’ysh) con il quale egli lottò per tutta una notte, in riva al fiume Jabboq (che è un anagramma del nome Giacobbe in ebraico: quasi fosse un suo specchio scomposto). «D’ora in poi» gli disse quell’’ysh dopo la lotta, «ti chiamerai Ysra’el, perché hai saputo reggere dinanzi a Dio e all’uomo, e ce l’hai fatta!» (Genesi 32,29). Solitamente si ritiene che Israele sia poi divenuto, per via ereditaria, il nome di un popolo storico sorto dai dodici figli di Giacobbe stesso; ma, a giudicare da questo passo della Genesi, è da ritenersi piuttosto il nome di un modo di essere, che a tutti è dato da conquistare, lottando sulla riva di un nostro fiume-specchio.

Ciò risulta evidente anche dal significato del nome stesso. Nella prima sillaba di Israele io leggo ’ysh (s e sh si scrivevano in ebraico antico allo stesso modo); nell’ultima leggo ’El, cioè il Nome del Dio del DIVENIRE; mentre la lettera ebraica r, intesa come geroglifico, è l’immagine del fluire, del crescere, del procedere: Ys-r-’el viene dunque a significare: «il punto intermedio di comunicazione tra la dimensione umana e la suprema dimensione divina». Ed è un Israele chi ha scoperto quella r e si è accorto di poterla essere, e di riuscire dunque a considerare sia la dimensione umana sia la dimensione divina senza volersi né limitare entro la prima, né scomparire nella vertigine della seconda.

Questo è precisamente l’equilibrio che si richiede in ogni autentica ricerca spirituale, e che può garantire una perenne crescita, una perenne dialettica, un perenne fluire di energia – come tra i poli di una pila. In contesti assai diversi da quelli biblici, Castaneda spiega qualcosa di molto simile riguardo al ruolo del brujo, o «stregone», sempre in viaggio tra le dimensioni del nagual e del tonal (tra l’Aldiquà e l’Aldilà, diremmo noi); e Konrad Lorenz teorizza proprio in questo modo (nel suo ottimo libro L’altra faccia dello specchio) il rapporto di energia e le fulgurationes che possono prodursi tra due diversi sistemi che entrino in contatto fra loro. Non penso che né Castaneda né tantomeno Lorenz abbiano attinto all’episodio dalla storia di Giacobbe: semplicemente si tratta, qui, di un vero e proprio principio di energetica spirituale, che agli autori della Genesi, a uno scrittore statunitense e a uno scienziato tedesco era assai più chiaro di quanto non lo sia oggi alla maggioranza dei teologi e degli psicologi.

IRRAZIONALE. Con questo termine si indica – di solito in tono spregiativo – tutto ciò che non è fondato sulla nostra ragione, cioè sulla nostra capacità di conferire alle cose un senso sul quale la maggioranza della gente si trovi d’accordo. Per svariati motivi, sui quali torno spesso in questo Vocabolario, gli occidentali sono altresì portati a ritenere che «razionale» equivalga a «reale», e «irrazionale» a «immaginario», senza accorgersi di quanto ciò non sia vero.

È vero il contrario, e cioè che qualsiasi cosa o essere vivente o avvenimento percepibile nell’Aldiquà è di per sé irrazionale.

La nostra ragione infatti non può, per esempio, fornire il fondamento, il perché, il senso del fatto che esistano i pianeti, l’ossigeno o l’influenza, o del fatto che i tuoi genitori si siano incontrati nel tal momento e nel tal luogo, e non in un altro momento e altrove. La nostra ragione può solo constatare che così è, e adeguarsi a quel «così è», il cui significato è inarrivabile per gli strumenti di cui essa dispone. Apparentemente, la ragione può dare miglior prova di sé quando esamina i nessi tra cose, persone, avvenimenti: può dunque risultare razionale – cioè spiegabile – il fatto che quasi tutte le barzellette facciano ridere, o che in Italia si parli italiano e in Francia francese. Ma anche in ciò, non appena si provi a indagare un po’ più in profondità quei nessi (perché una barzelletta fa ridere? e che cos’è il riso? perché le lingue sono diverse tra loro? perché gli uomini parlano?) la nostra ragione può solo formulare ipotesi e scoprire soltanto il fondamento di queste ultime, e non degli oggetti ai quali esse si riferiscono.

Il nostro Aldiquà è dunque interamente materiato di irrazionalità, nel senso corretto del termine. L’Aldilà, al contrario, risulta interamente razionale, dato che tutto quello che vi percepiamo può venire spiegato dalla ragione, una volta che essa si sia abituata a quell’ambiente: il fatto che là si incontrino degli Spiriti guida è perfettamente spiegabile come una modalità proiettiva attraverso la quale l’io piccolo riesce a connettersi con l’Io grande; il fatto che gli Spiriti guida possano fornire utili informazioni sul futuro o su episodi del passato ignoti a chi pone le domande, è perfettamente spiegabile con il fatto che nell’Aldilà il tempo non obbedisce alle stesse leggi del nostro consueto tempo lineare, e via dicendo. Non solo, ma dall’Aldilà – per quanto i cosiddetti razionalisti si ostinino a considerarlo un luogo esclusivamente immaginario “e perciò irreale” – la nostra ragione può ottenere circostanziate spiegazioni anche su ciò che nell’Aldiquà essa non riesce a spiegarsi: dai motivi dell’incontro tra i tuoi genitori ai significati dell’esistenza dei pianeti, degli elementi e delle malattie, o del ridere, o del parlare.

Questo paradosso dell’irrazionalità dell’Aldiquà e della razionalità dell’Aldilà non dipende, d’altra parte, da una qualche ironica legge metafisica, ma esclusivamente dal fatto che la ragione umana, così come viene intesa e usata di solito, pone a se stessa troppe condizioni operative sine quibus non, troppi limiti e tabù, e attribuisce a questi maggiore importanza che non agli obiettivi che può porsi. Sono quasi certo che tale sua condizione derivi da circostanze storiche (in particolar modo dalla profonda crisi che si ebbe durante il passaggio dal matriarcato al patriarcato, gran produttore di tabù e costrizioni svariatissime) e che, di conseguenza, non costituisca affatto un limite insito nella natura umana, a differenza di quel che sostengono molti filosofi e scienziati; viceversa, ampliare le condizioni operative della ragione, è lo scopo che la ricerca spirituale si propone, e che raggiunge in ogni suo passo.