FANTASIA, vedi IMMAGINAZIONE e INVENZIONE.
FARE. Il verbo «fare» acquista due significati ben distinti, nella SAPIENZA, a seconda che lo si riferisca all’ALDILÀ o all’Aldiquà.
– Nell’Aldilà, tutto è un fare, tutto è azione e creazione, anche il percepire: nulla che il singolo io possa cogliere nell’invisibile sarà infatti esclusiva manifestazione di forze a lui estranee, ma richiederà la sua partecipazione. Perciò anche l’Arcangelo attende la risposta di Maria, al momento dell’Annunciazione, cioè del concepimento del Figlio di Dio; e perciò, d’altra parte, è risaputo che il diavolo può tentare l’uomo, ma non ha modo di agire su di lui, se l’uomo non acconsente. Quando invece un io nell’Aldilà non fa nulla (non ha scopi, non chiede), nulla avviene, e l’invisibile stesso diventa nulla.
– Nell’Aldiquà, invece, l’individuo fa molto meno: gran parte della sua esistenza può benissimo consistere nell’accettare, nel subire ciò che già c’è, ciò che già è stato fatto prima, da altri, e nell’adeguarsi al fare altrui – sempre altrui, e non si sa mai bene di chi precisamente: dal fare la spesa come e quando la fanno anche altri, al far tardi o al fare in fretta come altri, al fare carriera in modi prestabiliti da altri ecc.
Dalla predominanza dell’uno e dell’altro fare nella nostra vita, possiamo valutare quanto di noi si affacci all’Aldilà e quanto invece appartenga all’Aldiquà: in quale misura cioè noi ci accorgiamo di essere gli autori del nostro mondo (v. VOLERE) e in quale misura lasciamo invece che lo siano i non meglio identificati ALTRI. E dal coraggio di prendere consapevolmente le distanze dal fare dell’Aldiquà, dipende la capacità di attuare i due principali precetti pratici della Sapienza: «come in cielo così in terra» e «chiedete e vi sarà dato». Indubbiamente, infatti, la nostra crescita spirituale va misurata dai risultati, dai cambiamenti in meglio che produce nella nostra esistenza: cioè dall’incidenza che il fare dell’Aldilà ha sul fare dell’Aldiquà. Quanto più scopri, tanto più cambi, e tanto più grandi sono le cose che desideri e che riesci a fare: il che permette di ritenere perdite di tempo o equivoci tutte quelle forme di spiritualità che non determinano alcun mutamento sostanziale nel tuo modo di agire e nelle tue condizioni di vita. Rientrano in questa categoria lo spiritismo, lo yoga inteso come un tipo di ginnastica, la religiosità puramente rituale, domenicale ecc.
Quando invece la Sapienza comincia a produrre risultati concreti, ci si accorge ben presto che il fare dell’Aldilà non ha limiti, o meglio trasforma ogni ostacolo in un limite che esiste apposta per venir superato – e «niente vi sarà impossibile», come ripete più volte Gesù nei Vangeli. Il fare dell’Aldilà si evolve allora, e del tutto naturalmente, in un far avvenire, che nelle sue forme più rozze prende il nome di «magia» e in quelle più evolute è invece chiamato «miracolo».
La differenza tra magia e potere miracoloso sta non tanto nelle azioni che l’una e l’altro permettono di compiere (miracoli di Gesù, come il guarire un paralitico o l’inaridire un albero con una semplice frase, possono benissimo venire considerati magici), quanto piuttosto nell’atteggiamento e nel livello spirituale di chi le compie:
– un mago è un individuo che ha imparato a cambiare, a DIVENIRE, e a considerare il mondo intero in modo nuovo, scoprendo leggi e dinamiche che alla gran maggioranza degli uomini sono precluse, e tuttavia ritiene che il modo di vivere di tale maggioranza sia soddisfacente così com’è, oppure irrimediabile, e che quindi convenga a lui personalmente non volerne cambiare nulla, e trarre invece vantaggio dall’infelicità e dall’ignoranza altrui;
– viceversa, fa miracoli e non magie il sapiente che adopera suoi poteri e le sue conoscenze per comunicare alla gente il cambiamento che tali poteri e conoscenze hanno prodotto in lui, e mostrare che i limiti dell’esistente (leggi, certezze, convenzioni, inerzie, superstizioni) possono venire superati.
Ciò permette di distinguere nettamente tra, poniamo, un taumaturgo e un mago di corte, tra un guaritore e un’abile fattucchiera, o anche – più semplicemente – tra uno che sperimenti la tecnica dei Centouno desideri (v. CHIEDERE) per vedere se può guadagnarci qualcosa, e uno che invece voglia cercarvi un nuovo modo di intendere il linguaggio del cuore.
FELICITÀ. Secondo la maggior parte degli ADULTI, la felicità è una condizione da raggiungere. Io preferisco pensare che sia uno dei nostri sensi, del tutto analogo al tatto, all’olfatto, all’udito ecc. Al pari dei cinque sensi a tutti noti, infatti, anche il senso della felicità «ci avverte» quando qualcosa può procurarci del bene o del male: per i cinque sensi, l’avvertimento consiste in impressioni sensoriali gradevoli o sgradevoli (l’odore di un cibo, la temperatura d’un oggetto ecc.), per il senso della felicità consiste invece in sentimenti belli o brutti a seconda dei casi (la gioia o la tristezza al pensiero di poter fare una determinata cosa).
Questo senso della felicità è ben riconoscibile nei bambini piccoli, e molto probabilmente la natura aveva disposto che si affinasse sempre più, con la crescita, l’esperienza ecc.; invece capita inevitabilmente che esso si atrofizzi ben presto, e che si trasformi in senso di colpa, ad opera appunto degli adulti – i quali hanno imparato da altri adulti a sostituirlo con il senso del DOVERE. Immagino che questa aberrazione abbia avuto inizio non in un preciso momento storico, bensì tutte le volte che in una collettività la voglia di comandare agli altri ha prevalso sul desiderio di vivere bene. E poiché la voglia di comandare è facile e ottusa, e il desiderio di vivere bene è assai più impegnativo (richiede infatti equilibrio, saggezza, sincerità, lucidità ecc.), penso che l’atrofia del senso della felicità negli adulti sia sintomo di una notevole decadenza dell’umanità, tuttora in corso, e della quale ognuno è oggi o complice o avversario, a seconda di ciò che la felicità rappresenta per lui.
A conferma del fatto che si tratti di una decadenza, vi è anche la demonizzazione di cui il senso della felicità è oggetto, ovunque abbia prevalso il senso del dovere: quando infatti una cultura più rozza riesce a sconfiggerne una più evoluta, molti elementi di quest’ultima vengono considerati mostruosi, malefici o ridicoli. Appunto perciò gli adulti temono tanto spesso che quel senso della felicità, se gli dessero ascolto, li avvierebbe di certo alla pigrizia, all’egoismo, a ogni genere di licenze, o che nel migliore dei casi li ridurrebbe a uno stato di patetici idioti.
È vero invece il contrario. Il senso della felicità, quando si riesce a riscoprirlo, permette non solo di condurre una vita più sana, più interessante, più creativa, ma anche di avere intuizioni che, considerate a posteriori, si dovrebbero definire addirittura veggenza: guida infatti verso riuscite e fortune che la mente, di per sé, non sarebbe stata in grado né di prevedere in alcun modo, e spesso nemmeno di desiderare. Il senso della felicità è, per esempio, il miglior consigliere per adottare quei comportamenti e compiere quelle scelte che, alla fine, ci permettono di trovarci al posto giusto e nel momento giusto in ciascuno dei dodici PERIODI.
Riscoprire quest’altro senso è, d’altra parte, un’impresa talmente enorme e amara per un adulto, «che poco è più morte» direbbe Dante. È l’INIZIAZIONE, è il tornare all’inizio, in quel BAMBINO che possedeva, in noi, tali doni di natura: ma a parte tutto ciò che occorre buttar via, tutti i legami che occorre spezzare per un’iniziazione simile, chi la accetta potrà poi fare l’eroe, il profeta, il re e ben poco altro. Dunque vedete un po’ voi.
FENOMENOLOGIA, vedi SOGGETTIVITÀ.
FIDUCIA. Fidarsi di se stessi – invece che degli ALTRI – è la condizione indispensabile alla SAPIENZA. Il primo passo di qualsiasi crescita spirituale, l’ACCORGERSI, è infatti un atto libero e autonomo dell’io; PERCEPIRE, in tutto ciò che concerne l’invisibile, è per l’io piccolo un atto creativo, un FARE (che produce tanto minori risultati, quanto più chi fa dubita di sé); e anche riflettere su tali risultati, o leggere i TESTI SACRI, o intendere i miti è possibile soltanto se si parte dalla questione «Cosa c’entra con me tutto ciò? Che cosa mi rivela della mia vita?» e se si dà, a tale questione, importanza maggiore che a ogni altra.
A moltissime persone ciò appare improponibile. Dà troppa vertigine: fidarsi di sé, e soltanto di sé, contrasta troppo con ciò che, fin dall’infanzia, è stato loro insegnato pressoché da tutti, direttamente o indirettamente – e cioè che il loro io è una fonte di valori e verità incommensurabilmente inferiore alle convenzioni, alle norme, alle autorità, ai criteri vigenti nel MONDO.
«Lo so che a te questa cosa non sembra giusta» (chi non se l’è sentito dire da qualche adulto?) «ma bisogna fare così: quando sarai più grande capirai».
E anche: «Impara ciò che hanno fatto persone molto più importanti di te, e non fare troppe domande».
Oppure: «Fior fiore di teologi e cardinali non hanno saputo rispondere a questi problemi» (è una frase standard di sacerdoti e i teologi) «e tu sei così superbo da volerci pensare?».
E così via. È un vero e proprio imprinting, che può continuare ad agire per tutta la vita: determina, sì, un senso di disagio più o meno segreto, ma ai più sembra di poterlo sopportare meglio se si comportano con chi è più piccolo così come gli altri si erano comportati con loro – cioè convincendoli che la fiducia in se stessi provoca solo guai. Il che determina un consensus, una complicità formidabile ai danni dell’autonomia del singolo individuo.
La riconquista della fiducia in se stessi richiede dunque impegno, coraggio e, purtroppo, anche molto tempo. Da quel che ho potuto notare sia in me, sia nelle migliaia di persone che dal 1996 hanno frequentato i miei seminari, tale riconquista procede per fasi d’autoanalisi abbastanza precise, e di difficoltà crescente: ciascuna fase consiste nell’individuazione di un particolare aspetto che la sfiducia in noi stessi ha assunto nel nostro modo di essere e di pensare, e ciascuna fase può avviarsi solo se si sono sviluppate le abilità necessarie a contrastare quel particolare aspetto. Per di più, nessuna di queste fasi viene mai superata definitivamente: sia i condizionamenti che abbiamo subito, sia quelli che continuiamo a subire ogni giorno sono infatti talmente vasti, profondi e pressanti, che nemmeno un profeta antico potrebbe mai ritenersi ad essi superiore.
Gli aspetti che assume la sfiducia in noi stessi sono i seguenti, in ordine di difficoltà crescente:
a) le decisioni non prese, che cerchiamo di occultare a noi stessi: talenti che non abbiamo osato sfruttare, ma che in noi non si sono spenti; chiarimenti che non abbiamo osato esigere, nei nostri rapporti con altre persone; chiarimenti che non abbiamo osato affrontare con noi stessi: cosa mi piace davvero, cosa non mi piace, cosa voglio e cosa non voglio, cosa è giusto o sbagliato in ciò che mi fanno fare gli altri, ecc. Sia in questa fase, sia in tutte le altre, non è necessario imporsi tassativi cambiamenti di vita, ma solamente accorgersi degli e) aspetti in questione, e capire che cosa occorrerebbe fare per superarli;
b) i problemi comportamentali e psicosomatici determinati da nostre mancanze di riguardo per noi stessi: l’incapacità di rilassarsi, di riposarsi; la paura di concedersi un piacere; la paura di dire cosa pensiamo (che di solito va di pari passo con l’asma); la paura di ammettere che vorremmo vivere altrove (che è caratteristica di chi soffre di malattie della pelle); la paura di esaminare nostri rancori (caratteristica degli obesi) ecc.
c) i desideri orrendi che abbiamo provato e che abbiamo subito nascosto a noi stessi, imponendoci di non ammetterli mai: dalle aberrazioni sessuali agli impulsi omicidi, ogni ragazzino potrebbe compilare un lungo elenco di questi desideri espulsi dall’orizzonte della sua ATTENZIONE; e, da adulti, il terrore inconscio di ritrovarseli tutt’a un tratto davanti è uno dei più potenti alleati della nostra resistenza a scoprire qualcosa di più, in noi stessi. In realtà, quei desideri sono da considerarsi soltanto come le tentazioni di cui parlano tutte le religioni, e che di per sé non costituiscono nulla di male: non per nulla i santi ne hanno più di chiunque altro;
d) la paura della nostra ignoranza, alla quale siamo stati sistematicamente addestrati durante il periodo scolastico: la sensazione, cioè, che vi sia comunque qualcosa che noi non sappiamo e che MOLTI sanno, e che dunque sia meglio per noi tacere adeguarci. La nostra ignoranza può essere più o meno grande in questo o quel campo, ma al giorno d’oggi non è affatto difficile rimediare: basta chiarire bene quel che vogliamo sapere, e impararlo. Tale atteggiamento sensato appare invece impraticabile alla stragrande maggioranza delle persone, e non certo perché lo sia di per sé, ma perché l’abitudine a sentirsi ignoranti è divenuta in loro più forte del desiderio di imparare;
e) la paura di nostre insufficienze fisiche: di avere muscolatura o agilità scarsa; di non essere abbastanza belli; di non avere sufficiente vigore sessuale, ecc.; e vale a questo riguardo ciò che ho detto nel punto precedente;
f) la paura di persone morte: di debiti che forse abbiamo verso di loro; di ostilità da parte loro, a motivo di debiti che hanno avuto con noi; o magari di immotivata avversione che persone morte possono avere verso di noi. Tale paura è enormemente diffusa, benché pochi di coloro che ne soffrono se ne rendano conto; e per affrontarla occorre non soltanto aver sviluppato le abilità necessarie a contrastare tutti gli ostacoli elencati sopra, ma anche avere un solido rapporto con il proprio Aldilà.
Per ciascuna di queste fasi ho elaborato, nel corso di quest’ultimo decennio, specifiche tecniche di autoanalisi e di meditazione; le descrivo in dettaglio nella seconda parte de Il mondo invisibile.
FREQUENZA. Adopero questo termine per indicare le nostre varie soglie psichiche, ciascuna delle quali ci apre orizzonti via via più vasti; in un senso molto simile il termine «soglia» viene usato da Dante:
come noi sem di soglia in soglia
per questo regno
Paradiso III, 82-83
Vi è la frequenza, o soglia, dell’io piccolo che parla con se stesso; vi è una frequenza diversa ad ogni livello del suo «mondo degli ALTRI» (v. Mappa a p. 11); vi è una frequenza specifica del confine tra il mondo e l’Aldilà; e vi è poi una serie innumerevole di frequenze nell’Aldilà stesso, tanto più alte quanto più l’ATTENZIONE riesce ad avventurarvisi. Questo mio uso del termine «frequenze» non richiede, d’altra parte, alcun riferimento alla teoria ondulatoria della psiche, o a dispositivi per misurare l’attività cerebrale; lo intendo in modo ben più immediato: nel senso che su ciascuna di quelle soglie prevalgono – sono più frequenti, appunto – determinati tipi di percezioni e non altri.
Raggiungere le prime frequenze dell’Aldilà è relativamente facile (alle voci TRAGITTO e STANZA TONDA descrivo tutto quel che occorre) e molto piacevole è quando ci si accorge di averle raggiunte: si avverte allora, ben netta, una sensazione di silenzio interiore – come se d’un tratto fosse cessato, dentro di noi, un forte brusio di cui fino a un attimo prima non ci accorgevamo. In quel silenzio, ogni pensiero che si riesce a formulare è vivido, come una frase pronunciata ad alta voce in un deserto: e se si dà ai propri pensieri la forma di domande chiare, si percepiscono in quel silenzio straordinarie risposte e indicazioni, che a frequenze inferiori la nostra mente non sarebbe stata capace di formulare. Per tali percezioni è indispensabile l’atto di SCRIVERE, che – almeno per la mia esperienza personale – sta alle frequenze dell’Aldilà come il trasmettitore sta ai segnali elettrici della radio.
Per raggiungere quelle frequenze non è, invece, affatto indispensabile la trance, cioè quei fenomeni di profonda dissociazione dell’io, che tanto piacevano ai «parapsicologi» di qualche decennio fa. Non vi è alcun bisogno di abbandonare il livello di coscienza consueto, e neppure di alterarlo più di tanto; è sufficiente modificare (di poco) l’atteggiamento della coscienza, la direzione dell’ATTENZIONE: ciò che l’io deve fare per conversare con i suoi Spiriti guida è soltanto:
– accorgersi delle numerose frequenze psichiche di cui dispone;
– imparare a riconoscerle chiaramente: a distinguere cioè la frequenza del suo parlare con «il mondo degli ALTRI» dalla frequenza del suo parlare con se stesso, e in quest’ultima distinguere la frequenza del suo TU da quella del suo io piccolo;
– riuscire a ignorare, a mettere momentaneamente da parte le frequenze del «mondo degli altri» e del tu, e cercare, appena al di là della frequenza del suo io piccolo, le frequenze dei MAESTRI.
Tutto ciò è molto più semplice di quel che si creda: è, in sostanza, un mettere ordine nella mente, e non richiede maggior fatica psichica dell’apparecchiare una tavola. E ha un evidente effetto rilassante, anche a livello fisiologico: mentre l’io conversa con i Maestri, il suo corpo se ne sta comodamente seduto dinanzi al suo quaderno, a prendere nota; la respirazione è regolare, il viso è disteso, gli occhi sono socchiusi (io uso tenere chiuso il destro, e socchiuso il sinistro), l’emisfero cerebrale destro è in piena attività (il che dà sempre un senso di piacere), mentre il sinistro, solitamente iperattivo durante le ore di veglia, è quasi assopito.
In alcune culture arcaiche, più «fisiche» della nostra, vi era la credenza che il raggiungimento della frequenza dell’Aldilà richiedesse rituali più complicati e, spesso, canti e movimenti di danza. Ma anche lo scopo di questi ultimi era (al contrario di quel che antropologi e turisti ritengono solitamente) mettere ordine in se stessi: i canti e le danze dello sciamano servivano cioè a riportare la sua coscienza di sé entro i limiti del corpo fisico, e permettere in tal modo ad altre dimensioni percettive di spaziare al di fuori; in quelle culture, infatti, il rapporto con l’ambiente circostante, con la natura e con la collettività, era talmente stretto e coinvolgente, da far esistere l’io soprattutto al di fuori di sé: ognuno tendeva a identificarsi ben più nella sua tribù, o nel suo clan, e nelle forze amiche o nemiche della natura, che non semplicemente in se stesso. Danzare da solo serviva appunto, allo sciamano, a ridiventare soltanto se stesso – e, di nuovo, a trovare nel proprio io il varco verso le frequenze dell’Aldilà.
Questa importanza del ritrovare se stessi per poter contattare frequenze più alte è attestata in tutte le epoche: dall’Egitto antico (v. Esodo 3,4-5), a Dante, che appositamente annuncia, all’inizio del suo viaggio nell’Aldilà:
Mi ritrovai per una selva oscura...
e fino agli interessanti esperimenti di veggenza condotti dalla CIA a partire dai primi anni Settanta (e ampiamente documentati nel volume di J. SCHNABEL, Remote Viewers. The Secret History of America’s Psychic Spies, New York 1997): per ottenere il «ritrovarsi» e il riordinamento preliminare dei loro remote viewers (per lo più militari), gli specialisti statunitensi li sottoponevano, prima di ogni esperimento, a una lunga seduta di psicanalisi, durante la quale affrontavano con l’aiuto di uno psichiatra i loro problemi famigliari.
Purtroppo, la frequenza dell’Aldilà non si può mantenere a lungo: dopo un’ora al massimo, la nostra attenzione ritorna irresistibilmente alle frequenze inferiori. La mia ipotesi è che ciò dipenda non dalla stanchezza ma, al contrario, dalla grande quantità di energia che l’io assimila durante le conversazioni con i Maestri: a un certo punto non può contenerne oltre (troppe cose cambierebbero nella sua mente, nella sua vita), e perciò se ne allontana. Capita anche – spesso – che durante le conversazioni con i Maestri ci si allontani dalla loro frequenza senza accorgersene: che, cioè, si ricomincino a percepire soltanto i propri pensieri o ricordi, o le proprie invenzioni, pur continuando a credere che si tratti di risposte degli Spiriti guida. A tale riguardo, è consigliabile ricorrere spesso (almeno ogni cinque, sei minuti) a criteri di verifica come quelli che indico alla voce CONFERME.
FUNZIONE TRASCENDENTE, vedi IO e FUNZIONI DELL’IO.
FUNZIONI DELL’IO. Si intende per «funzione» il rapporto tra due o più elementi che appartengono a insiemi o a sistemi diversi fra loro; e per «funzioni dell’io», intendo anch’io i modi in cui il nostro io piccolo può connettersi con ciò che avverte come diverso da sé. D’altra parte, poiché noi non siamo costituiti soltanto dal nostro io piccolo (cioè dalla minuscola circonferenza che sta al centro della Mappa a p. 11), non tutto ciò che l’io piccolo avverte come diverso da sé si trova all’esterno dell’io: in tal senso, le funzioni dell’io sono anche i modi in cui possiamo pazientemente esplorare ciò che di noi stessi non sappiamo ancora, e che è diverso soltanto da ciò che sappiamo di sapere di noi.
Nel loro insieme, e nei loro rapporti reciproci, queste funzioni determinano sia l’immagine che abbiamo del mondo e di noi stessi, sia l’orientamento della nostra personalità. Una novantina d’anni fa C.G. Jung cominciò a studiare questo argomento, e isolò quattro funzioni fondamentali: Pensiero, Sentimento, Intuizione, Sensazione; ne scoprì le caratteristiche, le polarità, e individuò i «tipi psicologici» determinati dal prevalere di una o dell’altra funzione. Questo suo metodo di analisi della personalità è ritenuto ancor oggi efficace, ed è tra l’altro relativamente facile da applicare (un ottimo test tipologico basato sulle funzioni si può trovare in www.altamira.it).
Da questi studi sono partito anch’io, e ho individuato altre tre serie di funzioni, più specifiche, delle quali tratto diffusamente nel Libro della personalità.
Le elenco qui di seguito, e accanto a ciascuna metto il nome di qualche personalità o personaggio celeberrimo che in qualche modo ha incarnato una determinata funzione agli occhi dei più, e che appunto a ciò deve la propria fama. Avviene infatti che, quando una nostra funzione non ha potuto svilupparsi per una qualsiasi ragione, ne avvertiamo acutamente la mancanza: tendiamo allora ad ammirare, a venerare persone e personaggi in cui quella funzione si è espressa in modo particolarmente evidente. PROIETTIAMO in loro ciò che in noi stessi non siamo stati capaci di usare: e se si considerano sotto questa luce le figure che nel corso di un’epoca colpiscono maggiormente le masse (e soprattutto le figure i cui volti o nomi si sono impressi nelle menti dei più, anche indipendentemente da quel che i più sapevano delle loro opere o azioni) è facile scoprire quali funzioni dell’io siano, in quell’epoca, più trascurate, o represse. Le persone e personaggi che ho scelto riguardano la nostra epoca e la cultura occidentale, e in gran parte cambierebbero, ovviamente, se volessi riferirmi all’Ottocento o al Cinquecento, o ad altre culture.
LE FUNZIONI DELLA CONOSCENZA
Da questa prima serie di funzioni dell’io dipende la nostra capacità di accorgerci di ciò che già c’è, di come stanno le cose; permettono insomma di rispondere alla domanda «che cosa e chi vedi?»:
1) la Comunicazione (Gesù);
2) l’Autodifesa (il cavaliere medievale);
3) la Sapienza delle Superfici, ovvero l’orientamento nello spazio (il guerriero indiano);
4) la Sapienza delle Profondità, ovvero la capacità di orientarsi tra gli elementi della psiche (mago Merlino);
5) l’Autorità (il Papa);
6) il Buon Rapporto con la Ricchezza (Paperon de’ Paperoni);
7) il Buon Rapporto con il Passato Personale, cioè con quanto di noi stessi è stato sconfitto (il capo indiano);
8) il Buon Rapporto con l’Antico, cioè con le culture sconfitte dalla civiltà oggi dominante (la strega);
9) l’Outsider, cioè il buon rapporto con la propria autonomia e unicità (Robin Hood).
Le prime sei funzioni agiscono nel campo di realtà di quello che i neurologi chiamano l’emisfero sinistro del cervello; le altre tre agiscono nel campo di realtà del cosiddetto emisfero destro. Vi sono poi altre tre funzioni che pertengono a entrambi gli emisferi, e che possono venir rappresentate non da persone o personaggi, ma da immagini, le prime due, e da ciò che chiamiamo «io», la terza:
10) l’Ostacolo, cioè la capacità di scorgere ostacoli da superare (la foresta, il mare);
11) il Superamento degli Ostacoli, cioè la capacità di superarli (l’aria);
12) l’Attenzione (l’«io»).
LE FUNZIONI DELLA VOLONTÀ
Da queste dipende la nostra capacità di accorgerci di stare vedendo; permettono di rispondere alla domanda «chi e che cosa sta vedendo, attraverso i tuoi occhi?»:
13) il Dare Ordini;
14) il Corpo;
15) lo Scopo;
16) la Bellezza;
17) il Passato;
18) il Presente;
19) il Futuro.
LE FUNZIONI DELLA CRESCITA
Da queste dipende il nostro decidere in quale direzione percepire, accorgerci, volere; rispondono alla domanda «verso dove e, soprattutto, perché?»:
20) l’Ideale;
21) il Giudicare;
22) il Vantaggio.
In ciascuna di queste ventidue funzioni agiscono le quattro funzioni fondamentali individuate da Jung: ciascuna, cioè, quasi si trattasse di un singolo individuo, ha il proprio modo di utilizzare il Pensiero, il Sentimento, l’Intuizione, la Sensazione; può dunque avvenire che, in un determinato io, la Funzione 1, la Comunicazione, abbia sviluppato un Sentimento e un’Intuizione di cui la Funzione 6, cioè il Rapporto con la Ricchezza, è ancora priva. L’appartenenza a uno dei quattro «tipi psicologici» junghiani dipende dunque dal modo in cui agiscono tutte le ventidue funzioni.
E proprio come le quattro funzioni junghiane, inoltre, anche queste ventidue riescono assai raramente a trovare tutte adeguato sviluppo nella vita di un individuo: e quelle che vengono più trascurate, non si indeboliscono né scompaiono, ma esercitano la loro azione a danno invece che a vantaggio dell’io, interferendo con le altre funzioni (v. DIFFERENZIAZIONE).
Chi, per esempio, non ha sviluppato la funzione del Buon Rapporto con la Ricchezza – chi cioè non ha saputo o voluto chiarire il suo atteggiamento verso il denaro – avrà continuamente problemi economici di vario genere, sospetterà spesso negli altri avidità o avarizia, e ciò limiterà enormemente la sua attività e la sua libertà di scelta. Chi non sa utilizzare armoniosamente la funzione d’Autorità diventerà facilmente o un ribelle votato all’autodistruzione, o un individuo timoroso e servile. Chi non sa utilizzare le sue funzioni del Buon Rapporto con il proprio Passato o con l’Antico (chi cioè non sa apprezzare i contenuti e le energie di periodi della propria vita che le necessità del MONDO l’hanno costretto a lasciarsi alle spalle, o di culture sconfitte e superate dalla civiltà attuale) assumerà facilmente un atteggiamento conservatore e gregario, votandosi inconsapevolmente alla frustrazione ogni volta che proverà a discostarsi dai doveri che gli impone il suo ruolo sociale. E via dicendo.
Ne consegue che la tua funzione più trascurata sia il tuo Giuda personale, e ti procurerà tanti più guai, quanto più avrai continuato a ignorarla – fino a determinare la tua morte. Penso che a ciò si riferisca Gesù, quando dice «Uno di voi mi tradirà; e chi ha messo la mano nel mio piatto, è colui che mi tradisce» – frasi che io interpreto: «Uno, in ciascuno di voi, tradirà il proprio io; e colui che ti tradisce non va cercato tra gli altri, ma in ciò che tu fai per te, nel tuo modo di prenderti cura di te». E dei dodici discepoli presenti all’ultima cena, Giuda era colui «che teneva la cassa», secondo il Vangelo di Giovanni: l’Iscariota rappresenta, cioè, proprio quel «rapporto con la ricchezza» che, all’epoca in cui venivano scritti i Vangeli, appariva come la principale minaccia per il movimento cristiano.
La funzione di gran lunga meno differenziata e perciò più dannosa è la dodicesima, l’Attenzione: la sua compensazione è ciò che chiamiamo «io», ovvero noi diamo tanta più importanza a ciò che chiamiamo «io» quanto meno siamo riusciti a sviluppare la nostra Attenzione. È il caso di chi, per esempio, quando riflette dice a se stesso «Io sto pensando che…» invece di pensare e basta; oppure di chi, quando fa qualcosa, dà più importanza al fatto di esser lui a farla invece che alla cosa stessa. Nella vita, questa eccessiva importanza attribuita all’io ha conseguenze molto simili a quelle che avrebbe, per chi stia guidando un’auto, il guardare non la strada ma le proprie mani sul volante o i piedi sui pedali: nel migliore dei casi, la sua velocità rallenterà moltissimo; nel peggiore, gli capiteranno contrattempi che non sarà in grado di evitare. Non per nulla, durante l’ultima cena i discepoli (che di lì a poco rinnegheranno e abbandoneranno tutti il loro maestro) dicono proprio «Sono io?» quando Gesù annuncia loro il tradimento; e al «Sono io?» di Giuda, Gesù risponde «Tu l’hai detto», il che è da intendersi: «Vedi? È così semplice, lo sai da te. Tutte le volte che dici io stai rallentando, trascurando, tradendo qualcosa che in te è essenziale».
Nell’Aldilà, nella STANZA TONDA, tutte le funzioni che ho indicato possono venire facilmente immaginate come altrettanti Spiriti guida, e diventano tali: si può cioè discutere con esse, chiedere loro indicazioni e consigli. Le funzioni meno sviluppate si imporranno, lì, come Maestri particolarmente esigenti, veri e propri iniziatori, che indicano prove da superare ed esigono progressi; le funzioni più differenziate, invece, tendono ad assumere l’aspetto di Spiriti protettori, benevoli e pazienti consiglieri.
FUTURO. Nell’Aldilà si impara a scoprire una dimensione temporale diversa da quella a cui siamo abituati nell’Aldiquà, e ciò permette di conoscere il futuro – se si adopera sufficiente coraggio e lucidità nel porre le domande. A tal fine, occorre innanzitutto sapere che esistono due tipi di futuro: quello degli individui e quello dei gruppi umani (famiglie, quartieri, città, nazioni, popoli); e che soltanto il secondo si può prevedere con precisione, come se davvero fosse un fatum, cioè qualcosa che gli Dei hanno già annunciato e che dovrà perciò compiersi.
Il futuro dell’individuo, infatti, non esiste: certamente c’è, nel senso che tutti noi abbiamo del tempo da vivere, ma fino a quando non diventa presente non assume alcuna forma percepibile, né nell’Aldiquà né nell’Aldilà; ed è facile capire perché: l’individuo dispone, in ogni istante della sua vita, di possibilità di scelta illimitate, e dunque imprevedibili; sul comportamento dei gruppi influisce un’inerzia che è tanto più grande quanto più il gruppo è numeroso. Se dunque dei veggenti profetassero a un individuo il suo futuro, il fatto stesso di averlo saputo potrebbe facilmente spingere quell’individuo a prendere decisioni che rendano la profezia inattendibile. Se invece si annuncia a un gruppo umano ciò che lo attende, è molto probabile che la forza d’inerzia prevalga su qualsiasi tentativo di scongiurare la previsione (v. PERIODI DI CIVILTÀ).
Che la vita di un individuo sia imprevedibile non significa d’altra parte che lo siano tutte le vite dei vostri conoscenti: non tutti, infatti, riescono a essere INDIVIDUI – cioè personalità libere e autonome. Molti di loro hanno rinunciato a parte della propria individualità, unendosi, fondendosi a qualcuno dei gruppi suddetti: e quanto più tale fusione determina la loro esistenza, tanto più prevedibile diviene il loro futuro.
Ciò che propriamente si può prevedere del futuro è, infatti, la quota di passato che esso contiene, il che è come dire il grado della nostra dipendenza dagli ALTRI – dato che tale quota, spesso enorme, consiste nei condizionamenti e nei traumi non superati, e tutti i nostri condizionamenti e traumi hanno naturalmente origine in legami con altre persone, e tanto più permangono, quanto più quei legami continuano a sembrarci più importanti della nostra individualità, e dell’imprevedibilità che va di pari passo con essa. Così, per esempio, quando domando ai MAESTRI: «Come andrà questa mia iniziativa?», rispondono quasi sempre: «Il futuro per te non c’è, lo fai tu. Dunque andrà esattamente come tu vuoi. E tu come vuoi che vada?».
Verrà spontaneo rispondere: «Io ovviamente voglio che vada bene!». Al che, probabilmente, obbietteranno:
«No, in realtà non vuoi che ti vada bene. Guarda quante cose te lo impediscono» e passeranno a illustrarmi tutte le incidenze del passato, cioè di vari miei legami (famiglia, amici, ditta, chiesa, partito, nazione ecc.), sul mio modo di intendere le possibilità offerte da quella mia iniziativa.
Spesso il principiante dell’Aldilà, troppo impaziente di avere indicazioni «concrete» sul proprio futuro, non riesce ad ascoltare queste risposte: il suo animo è ansioso, e le risposte dei Maestri gli sembrano troppo lunghe e lente; lui desidererebbe dati, cifre, consigli tattici, e loro vogliono invece suscitare in lui riflessioni strategiche… Allora il contatto si perde: il principiante comincia a inventarsi le risposte, oppure non percepisce più, e ben presto si sente stanco e confuso.
A chi vuol ricevere dai Maestri informazioni utili riguardo al proprio futuro, consiglio di formulare così le domande:
1) «In quale misura ciò che io ora voglio ottenere con questo mio progetto è interferito e limitato dalla mia appartenenza a questo o quel gruppo umano?».
2) «Ma io, io, cosa voglio davvero ottenere di buono, con questo mio progetto? E perché io lo ottenga, come va modificato il mio progetto, o il mio atteggiamento verso di esso?».
3) «Quali forze esterne a me favoriscono questo mio progetto, e quali invece lo ostacolano? E cosa mi conviene fare, per cogliere le prime, e per imparare dalle seconde?».
Tutte e tre le domande sono formulate in modo da individuare gli esiti prevedibili del progetto in questione (cioè le incidenze degli ALTRI sull’io) e da superarli: mirano cioè, paradossalmente, ad aumentare l’imprevedibilità del futuro individuale, e con essa anche le possibilità che diviene possibile cogliere. E vi è a questo proposito un passo essenziale, nei Vangeli: la madre (cioè il passato) di due discepoli chiede a Gesù un futuro trionfale per i propri figli: «Fa’ che siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra, nel tuo Regno!» ed evidentemente vuole che Gesù prometta, ovverosia che profetizzi che così sarà – giacché per un Figlio di Dio non vi è promessa che non sia fatum, cioè decreto solenne. Gesù risponde:
Non sapete quel che chiedete. Voi potete bere il calice che io sto per bere, ma il farvi sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me: è cosa che tocca a coloro per i quali è stato stabilito dal Padre mio.
Matteo 20,20-23
E il significato è: «L’uomo non sa mai che cosa sta veramente chiedendo. Non vede, infatti, molto al di là del “calice che sta per bere” (noi diremmo: non molto al di là del suo naso). Perciò, invece di badare a quel che l’io piccolo vuole o può sapere del proprio futuro, è bene guardare sempre a ciò che l’io piccolo non ne sa ancora: là, nel suo non-sapere, vi è ciò che l’Io grande (il Padre dell’io) stabilisce». E nel seguito del passo Gesù spiega:
Chi vorrà diventare grande tra voi, sarà il vostro servo; e chi vorrà essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo; il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire.
Matteo 20,26-28
Ovvero: «se impari a superarti in quel non-sapere, qualsiasi tua ambizione o speranza sarà soltanto una via per scoprire quanto tu sia più in alto di esse, e quanto invece diverresti schiavo della limitatezza delle tue ambizioni, se a esse ti fermassi; guarda oltre, verso fasi ulteriori della tua evoluzione (tale infatti è il «Figlio dell’uomo», nei Vangeli) e ti accorgerai che tanto più sei libero e grande, quanto più servi a ciò che sarai, invece di accrescere l’importanza di ciò che già sei e che già sai».
Ed è come dire che conoscere il proprio futuro è ben poca cosa, rispetto al coraggio di essere nel proprio futuro, e di guardare da esso al proprio presente.