EBRAICO ANTICO. La lingua della Bibbia e di gran parte della Qabbalah è, a mio avviso, uno strumento indispensabile non soltanto per intendere il senso delle Scritture, ma anche per orientarsi nei mondi invisibili.
Più che una lingua vera e propria (cioè il prodotto di un soggetto amplissimo: d’un intero popolo nella sua secolare interazione con altri popoli), io penso che l’ebraico antico sia stato l’opera di un gruppo ristretto di individui, e che costituisca come tale un capolavoro della filosofia antica, un codice per sapienti, un linguaggio sacro e a lungo segreto: certo, nessun documento lo comprova, ma molto permette di supporlo, e non vi è nulla che smentisca questa ipotesi, alla quale mi sono da tempo affezionato.
Lo immagino così: poco meno di venti secoli avanti Cristo, i sacerdoti dei templi di Thot, Dio egizio della parola e della scrittura, cominciarono a elaborare materiali linguistici semitici e afro-asiatici, un po’ come avvenne nell’Ottocento con l’esperanto e il volapük, e poi con l’ido, l’interlingua, la glosa ecc. Ma scopo dei tothiani non era tanto il favorire la comunicazione tra i popoli – come fu per queste recenti «lingue internazionali» – quanto piuttosto la catalogazione di tutti i concetti a loro noti: una specie di enciclopedia, insomma, o un’ARCA, una thebah, come venne chiamata nella Genesi la lingua di Noè. La differenza rispetto a un’enciclopedia moderna è che, in quest’ultima, a ciascun termine segue una definizione sulla quale il comitato redazionale abbia trovato un accordo; nella lingua dei tothiani, invece, le definizioni erano espresse nelle parole stesse, nelle lettere che le componevano, proprio come avveniva nell’egizio geroglifico, in cui ciascun segno grafico rappresentava una ben precisa serie di idee, e la grafia di ogni parola poteva perciò descrivere esattamente il senso della cosa che essa voleva indicare.
I tothiani non ebbero che da affinare questo sistema grafico. Semplificarono l’alfabeto: invece di ventinove lettere, com’era in egizio, ne fabbricarono ventidue – tutte tratte da geroglifici, ma più agili di questi – e ne codificarono rigorosamente i significati. Semplificarono anche la grammatica, la sintassi, rispetto a quelle egizie. E ottennero una lingua-thebah riservata agli iniziati, ancor più segreta, cioè, del geroglifico, già riservato a una cerchia di dotti. La usarono per i loro testi, così come qualche millennio dopo i chimici usarono la Tavola degli Elementi di Mendeleev per le loro formule, o come i logici usarono il linguaggio della logica simbolica per le loro operazioni. Solo che, invece di limitarsi a un ambito preciso (la chimica, la logica) la lingua dei thotiani poteva e può venir usata per indicare e spiegare con precisione qualsiasi operazione del pensiero, già nota o nuova, e qualunque cosa, sia visibile sia invisibile: il che permette di sapere sempre di che cosa propriamente si stia parlando, sia nell’Aldiquà, sia nell’Aldilà – dove invece, in tutte le lingue del mondo, risulta invece difficile intendersi sul significato dei termini. Così non vi è nome ebraico di Dio o di esseri divini che non sia la chiara formula di ciò a cui è riferito (ne parlo in altre voci di questo vocabolario: v. DIVENIRE, ESSERE, ANGELI ecc.); non vi è oggetto o soggetto della percezione che, nel suo nome ebraico, non sia già descritto in modo inequivocabile: si vedano, per es., i significati di ’adam, ’ishah, ’ysh nella voce EVOLUZIONE – mentre nelle altre lingue del mondo termini come «uomo», «io», «mente» richiedono sempre pazienti distinguo per poter essere usati con proprietà. Ma non solo: una proprietà davvero straordinaria della lingua tothiana è che i suoi criteri possono essere applicati anche a parole di altre lingue, per far emergere dalle parole stesse il loro significato autentico. Così, per esempio, se si «ebraizza» il nome di Afrodite si ottiene ’-ph-r-d-yth (le vocali non vengono mai trascritte, in ebraico), e in geroglifico ’-ph-r-d-yth viene a significare: «la potenza (’) della bellezza sensibile (ph), quando emana (r) e si dona (d) in figura femminile (yth)»; e se si ebraizza la parola «Angelo», si ottiene ’-n-g-l, che in geroglifico significa «ciò che rende possibili cose nuove (’n) prende corpo (g) e sale in alto (l)». E così via. Così anche nei termini riferiti al mondo visibile: la parola italiana «mano», se la si ebraizza, diviene mn, che in geroglifico significa «la possibilità di percepire o plasmare i contorni (m) di una cosa (n)»; e «occhio» diventa w-k-y, che in geroglifico significa: «il limite (w) della possibilità di cogliere (k) il visibile (y)»; mentre l’inglese hand, se lo si ebraizza, diventa kh-n-d, che in geroglifico significa: «il far esistere concretamente (kh) una cosa (n) e il poterla dare (d)», ed eye, ebraizzato, diventa ’-y, che in geroglifico è «la capacità (’) di vedere (y)». E potremmo continuare indefinitamente.
Solo in seguito questa thebah divenne una lingua parlata tra gli ebrei – il cui idioma era l’aramaico – e ciò richiese molto tempo. L’Esodo narra che Mosè aveva bisogno di un interprete – Aronne – per parlare al popolo, e ciò va naturalmente inteso in senso simbolico: ciò che Mosè insegnava, i suoi scritti, non erano accessibili a coloro che non conoscessero la lingua tothiana, e occorreva dunque qualcuno che li sapesse interpretare, perché la gente li capisse; nei Re si legge che quando venne ritrovato il testo ebraico dei primi libri della Bibbia, all’epoca di Giosia (VII s. a.C.), nessuno sapeva leggerlo, salvo una misteriosa profetessa (Secondo libro dei Re, 22); e ancora tre secoli dopo, a Babilonia, occorse un accurato lavoro di grammatici ebrei per rendere pronunciabile la lingua della Bibbia, perché erano andate perdute le regole della vocalizzazione – cosa che non sarebbe certo potuta succedere, se si fosse trattato di una lingua corrente. Oggi, che l’ebraico è la prima lingua dello Stato di Israele, ben pochi ebrei sanno e parlano delle origini geroglifiche della loro thebah, e ne conoscono il codice. Chi lo ricostruì e lo divulgò in Occidente fu Antoine Fabre-D’Olivet, nel suo volume La langue hebraïque restituée, nel 1815 (e doveva essere un periodo speciale per le «lingue sacre»: nel decennio seguente Champollion cominciò a decifrare l’egizio).
Consiglio vivamente la lettura del libro di Fabre-D’Olivet, e non per semplice piacere d’erudizione, ma per accorgersi di come quell’antica lingua-codice tothiana si possa imparare e usare oggi proprio come quattromila anni fa. All’inizio, certo, l’apprendimento è laborioso, ma diventa poi d’un tratto semplicissimo, come spesso avviene per le tecniche antiche: e usandolo si avrà la sensazione di aver quasi ritrovato quella lingua unica di cui narra l’episodio di Babele, e che Yahweh temeva –
«Ecco» disse Yahweh, «essi sono un solo popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera e adesso nulla di quel che progetteranno di fare sarà loro impossibile. Scendiamo dunque, e confondiamo la loro lingua, perché non si comprendano più tra loro!»
Genesi 11,6-7
È solo un’impressione, certamente, e soltanto un quasi: quella LINGUA temuta dal Dio dell’Essere rappresenta anche altre cose. Ma vero è che, con quella lingua tothiana, non vi è più nulla che sia impossibile definire e descrivere.
ENERGIA. Questo termine viene usato di solito come sinonimo di «vigore», e certamente il vigore fisico o intellettuale sono modi in cui l’energia può manifestarsi. Ma di per sé «energia» è sempre un rapporto tra due diversi livelli della realtà o, come si dice in fisica, una differenza tra due livelli di potenziale. La fisica studia le differenze di potenziale che si hanno, per esempio, tra i due poli di una pila connessi in un circuito (energia elettrica); oppure tra due punti di una cascata (energia cinetica); o tra le fasi della scissione di un pesantissimo nucleo di uranio in nuclei più piccoli e più leggeri (energia atomica) ecc.; ma differenze di potenziale – e dunque energie non dissimili da queste – si trovano in ogni aspetto della nostra vita quotidiana.
Vi è energia nei tuoi rapporti con gli altri, cioè nella differenza tra il tuo potenziale e quello delle altre persone. Vi è energia quando fai qualcosa, per la differenza di potenziale tra te e il materiale della tua opera; o tra come sei ora e come sarai quando avrai ottenuto il risultato che ti proponi. Vi è energia quando pensi, conosci, apprezzi qualcosa: qui la differenza di potenziale si ha tra il contenuto dei tuoi pensieri e la tua capacità di accorgerti di quel che pensi; o tra la bellezza e il tuo volerne gioire.
Là dove questo coraggio manca per un qualsiasi motivo, si hanno i cosiddetti blocchi energetici. Là dove invece si riesce a inserire in una di queste differenze di potenziale un dispositivo adeguato, diviene possibile trasformare l’energia in svariatissime forme («sublimarla», dicevano gli alchimisti): proprio come quando, inserendo in un circuito una resistenza, si trasforma l’energia elettrica in luce e calore, allo stesso modo puoi inserire «resistenze» (domande, bisogni, desideri, sfide) nei circuiti energetici dei tuoi quotidiani rapporti con gli altri, con le cose, con te stesso, e anche lì l’energia attraverserà quelle tue domande, bisogni, desideri, sfide trasformando in luce, calore umano, forza creatrice ciò che fino a quel momento «resisteva» nel profondo di te, impedendoti di ottenere risposte, soddisfazioni, realizzazioni, vittorie.
In fisica, lo studio dei modi di trasformare l’energia si chiama energetica, da poco meno di un secolo: ma già molto tempo prima della definizione scientifica dell’energia, un’autentica energetica psichica e spirituale era abbondantemente praticata a ogni latitudine del mondo, e raggiungeva alti gradi sia d’efficienza, sia di precisione. Consisteva innanzitutto nel rapporto con la Divinità, cioè nella preghiera. Gli Dei, infatti, in qualunque loro aspetto, erano veramente intesi dagli antichi come il polo superiore di una pila vasta quanto l’universo intero, il polo inferiore della quale era l’io umano: e il pregare era appunto la connessione che si poteva stabilire tra questi due livelli di potenziale; mentre l’intento della preghiera, il CHIEDERE dell’uomo, era il dispositivo che permetteva di utilizzare l’enorme energia resa disponibile da quella connessione cosmica.
Oltre al rapporto con la Divinità, era ed è energetica spirituale anche ogni connessione che si riesca a stabilire tra Aldiquà e Aldilà – dallo studio delle Gerarchie angeliche, fino alle conversazioni con gli Spiriti guida. La differenza di potenziale tra l’io e gli Angeli è ovviamente inferiore a quella che può aversi tra l’io e Dio, e la differenza di potenziale tra l’io e gli Spiriti guida è inferiore a quella che può aversi tra l’io e gli Angeli ma, in compenso, queste energie via via minori possono essere più facilmente trasformate: se ne ottengono, in particolar modo, conoscenza, lucidità e velocità di pensiero assai maggiori di quelle ottenibili dalle differenze di potenziale tra un io e altri io umani. Nel caso degli Angeli, l’«energetica spirituale» diviene quell’antica scienza chiamata ANGELOLOGIA, argomenti della quale sono soprattutto le scelte esistenziali, le vocazioni, il cosiddetto «destino». Nel caso degli Spiriti guida, l’«energetica spirituale» diviene, da millenni, un’estensione irrazionale della filosofia, cioè un esercizio della SAPIENZA nei campi più disparati.
All’antica «energetica spirituale» era anche noto (già dodicimila anni fa, all’epoca delle pitture rupestri) che le connessioni tra il polo umano e i poli superiori richiedono SIMBOLI, tanto quanto il circuito di una pila elettrica richiede un filo di rame; i simboli sono, nel senso più immediato del termine, dei conduttori. Si era scoperto altresì che l’energia ottenuta da tali connessioni poteva essere accumulata: e dalle grotte di Lascaux ai nuraghe sardi, a Stonehenge, alle piramidi e fino alle chiese attuali, l’antica «energetica spirituale» ha elaborato numerose forme di accumulatori, costituiti da particolari insiemi di simboli. Primo compito di tali accumulatori è fornire all’io quel sovrappiù di energia che occorre per stabilire la connessione con il polo superiore – cosa che non a tutti e non ovunque riesce. Tali accumulatori di energia spirituale si dividono (da circa tremila anni, per quel che riguarda il bacino mediterraneo) in due categorie: i visibili e gli invisibili.
Gli accumulatori visibili sono edifici, oggetti e rituali: variano dal talismano al santuario, dai sacrifici antichi all’ostia, dalle reliquie alle Bibbie sulle quali si pronunciano i giuramenti solenni. Gli accumulatori invisibili possono essere soltanto immaginati, ma ogni loro raffigurazione non ne offre che uno schema, una mappa, e non è mai valida di per sé: accumulatori invisibili sono, per esempio, l’Albero della Vita, i miti, la Legge mosaica (intesa come elaboratissimo testo simbolico da decifrare), il significato dei Nomi degli Angeli o dei discorsi di Gesù nei Vangeli, alcune tecniche di meditazione, la STANZA TONDA ecc.
Infine, altra scoperta fondamentale dell’antica «energetica spirituale» è che non di rado l’io possa diventare esso stesso un accumulatore di energia, quando comincia a esercitarsi nelle connessioni con l’Aldilà. Queste connessioni modificano infatti, con l’andar del tempo, il loro polo inferiore, ampliandolo, fino a che esso si scinde e forma due diversi centri: uno più basso, adeguato alle connessioni con livelli di potenziale minori (con le persone, con le cose) e un altro più alto, che si specializza nella connessione con l’Aldilà. Questi due centri, interagendo fra loro, costituiscono un contenitore in cui una certa quantità di energia può essere conservata (così come nelle normali batterie l’energia elettrica viene conservata sottoforma di energia chimica), e quanto più ampio è tale contenitore, tanto più l’energia lì accumulata viene avvertita dall’io stesso, sottoforma di maggiore benessere, saggezza, fiducia in se stesso, e profondità di pensiero. Tale profondità di pensiero, a sua volta, si manifesta soprattutto come capacità di interpretare le conoscenze dell’io piccolo e le sue percezioni della realtà, non più come semplici dati di fatto ma come trasparenti simboli di qualcos’altro – simboli che naturalmente servono a consolidare ed estendere la connessione con l’Aldilà.
Quando nell’io piccolo avviene ciò, gli si aprono due possibilità:
– se a questa crescita dell’io non corrisponde un aumento del potenziale del suo Aldilà – se cioè un io così rafforzato continua a stabilire con gli Spiriti guida, gli Angeli o la Divinità le stesse connessioni di prima, senza desiderare né tentare nulla di più – la differenza di potenziale, la distanza tra l’io stesso e ciò che per lui è l’Aldilà diminuisce, e con essa anche l’energia che quelle connessioni rendono disponibile; si ha, in tal modo, una situazione paradossale: l’io è più forte, grazie a quella sua crescita, ma può accedere a fonti d’energia spirituale sempre più ridotte. È quel che avviene, per esempio, nella diffusissima religiosità domenicale: l’energia che un devoto riceve dalla solita messa della domenica, in cui tutto si ripete sempre uguale, è incomparabilmente inferiore a quella che aveva potuto ricevere, da bambino, nelle sue prime confessioni e comunioni;
– se al rafforzamento dell’io corrisponde invece un aumento del potenziale del suo polo superiore (se cioè impari a chiedere sempre di più, nel tuo rapporto con l’Aldilà, e dunque ad accrescere sempre più il tuo concetto dei poteri degli Spiriti guida, degli Angeli, della Divinità) si apre all’io un’evoluzione virtualmente illimitata: le sue connessioni con ciò che è sempre più alto e più lontano da lui rendono disponibile un’energia sempre maggiore, la quale continua ad ampliare il suo campo visivo, le sue prospettive di vita, le sue aspirazioni e le sue conquiste – e ciò, senza che l’io si senta mai né «arrivato», né soddisfatto del cammino percorso: la distanza tra l’io e quei suoi poli superiori rimane infatti invariata, o si amplia addirittura, dandogli perennemente la sensazione di essere un allievo di Maestri via via più alti di lui. Così, quanti più progressi compirà, quante più cose scoprirà, tanto più gli sembrerà di essere sempre e soltanto all’inizio di un cammino, e dunque di avere sempre un immenso futuro dinanzi a sé – il che, a mio avviso, è un’efficace definizione del sentimento chiamato «gioia di vivere».
ERRORE, vedi Scelte.
ESISTERE. Existere, in latino, significava propriamente «apparire», «limitarsi all’apparenza» (da sistere, «fermarsi», ed ex-, «fuori»). Il verbo «esistere» ha ancor oggi questo significato, benché la maggior parte di coloro che si interessano di spiritualità fatichino ad accorgersene.
Ai CREDENTI, per esempio, appare molto importante convincersi e convincere altri che Dio esiste – cioè che esista di per sé, in natura, e che continuerebbe a esistere anche se l’uomo scomparisse dal pianeta. I credenti chiamano tale convinzione: fede, e ne parlano sempre con un certo nervosismo, dovuto al fatto che nel mondo umano e nell’universo quel Dio non si veda affatto e che, obiettivamente, nulla escluda che tutto potrebbe continuare ad andare come va ora anche se Dio fosse soltanto un’invenzione. Spesso, per il credente, la fede nell’esistenza di Dio finisce per diventare inversamente proporzionale alla sua fede sia nell’importanza delle cose e delle persone che lo circondano, sia nell’importanza di ciò che avviene nel suo stesso animo: non per nulla, per affermare l’esistenza del loro Dio i credenti hanno sterminato in passato tanta gente da cui quell’esistenza veniva negata, e ancor oggi, per lo stesso motivo, mettono a tacere o irreggimentano tanta parte della propria mente (dubbi, curiosità, intuizioni), procurandosi così notevole infelicità.
Ma questo millenario disagio dipende appunto da un errato concetto del verbo «esistere». Di Dio si può sapere per certo una cosa: che non esiste affatto, così come non esiste nulla che abbia una qualche realtà spirituale – Angeli, Spiriti guida ecc. La dimensione spirituale è infatti l’esatto contrario di tutto ciò che exsistit, cioè che «si limita all’apparenza»: essa va bensì cercata «al di là», o «dentro», o «al di sopra». E le condizioni psicologiche ed esistenziali dei cosiddetti «credenti» migliorerebbero di gran lunga, se invece di preoccuparsi del fatto che Dio esista o meno, si impegnassero di più a far esistere nel mondo ciò che implica e richiede il loro Dio.
Dal fatto che Dio non esista in tal senso, cioè che non lo si veda, i cosiddetti «non-credenti» si affrettano d’altra parte a concludere che Dio non ci sia. Ma è soltanto il loro modo di restare impigliati in quello stesso concetto errato del verbo «esistere». Uscire da tale trappola è relativamente facile: è vero che esiste soltanto ciò che appare (appunto perché esistere e apparire sono la stessa cosa), ma appunto perciò nulla di ciò che esiste è reale, se non in quanto pura apparenza. Di te, di me, esiste ciò che tu e io facciamo apparire, ovvero ciò che gli ALTRI vedono e sanno di noi, e ciò che tu e io sappiamo che gli altri vedono e sanno di noi; ma tu e io siamo tutt’altra cosa, di cui gli altri non sanno, e di cui anche noi sappiamo in realtà pochissimo. Lo stesso vale per Dio: esiste di Dio ciò che se ne sa, ciò che ne è apparso finora, ed è soltanto una descrizione; mentre quel che chiamiamo Dio è ciò che è al di là, ovvero ciò che di Dio non esiste ancora – non perché Dio si diverta a nascondersi, ma semplicemente perché il reale e l’esistente non sono la stessa cosa.
ESSERE. Questo verbo apparentemente tanto semplice (che è in realtà oggetto di complicatissime teorie sia nella filosofia antica, sia e ancor più nella filosofia del Novecento) corrisponde al Nome di uno dei principali Volti di Dio che compaiono nella Bibbia, cioè Yahweh – che nelle VERSIONI CONSUETE viene sempre tradotto «Signore Dio», per distinguerlo dall’altro Volto di Dio, ’Elohiym, il Creatore, che nelle versioni consuete è tradotto invece «Dio», tout court.
Il Nome Yahweh, in EBRAICO, è appunto il participio del verbo «essere» – «l’Essente» – e già nelle lettere geroglifiche che lo compongono si vede sia qual è la sua caratteristica determinante, sia anche ciò che il verbo «essere» significa: Y-h-w-h, in geroglifico, è infatti «Colui che fa assumere forme visibili (y) all’invisibile energia vitale (h), e che in tal modo pone dei limiti (w) a tale energia (h)». Il geroglifico h indica propriamente tutto ciò che sta nascendo nella dimensione di ’Elohiym – nell’Aldilà, nel DIVENIRE – ed ’Elohiym è, in tal senso, il «Padre celeste» a cui si riferisce Gesù nei Vangeli. Yahweh non è padre, non genera, non crea: corrisponde piuttosto a quello che Gesù chiama «l’Arconte di questo mondo» (Giovanni 14,30), cioè il Signore, il Dominatore del mondo che già esiste; il suo compito è far essere in questo mondo ciò che ’Elohiym può creare: operare cioè una sorta di cambiamento di stato, solidificando e plasmando ciò che è h, perché diventi y e abbia limiti (w) ben precisi. Così, al principio, Yahweh plasma in elementi terreni l’’adam (Genesi 2,7) e poco dopo fa «involucri di pelle» per l’’adam e la ’ishah (Genesi 3,31).
Per varie ragioni, questa differenza tra ’Elohiym e Yahweh viene menzionata assai di rado dai teologi sia cristiani, sia ebrei. I più ritengono addirittura che Yahweh sia il Dio (o l’aspetto di Dio) supremo, superiore a ’Elohiym. La ragione principale di ciò è indicata proprio in quella definizione data da Gesù: Yahweh è davvero il Dio di questo mondo; chi a questo mondo è legato vede in Yahweh il non plus ultra della divinità; e un teologo, un individuo cioè che aspira a mettere ordine (logos) in quel che in questo mondo già si sa del divino è inevitabilmente attratto dal potere di Yahweh – e dal potere della w, in particolar modo.
Certo, l’importanza di Yahweh è innegabile, per ciascun individuo: «essere o non essere», come diceva Amleto, è una questione che va decisa e sempre si decide, in ogni aspetto della vita; nel mondo, tu esisti nella misura in cui decidi di essere qualcuno o qualcosa, altrimenti non puoi sapere nulla di preciso su di te. Ma, altrettanto innegabilmente, «essere» non è tutto, e sarebbe un gran limite pensare che lo sia: essere qualcuno o qualcosa ti impedisce, finché lo sei, di diventare qualcos’altro, e dunque nella vita occorre anche saper non essere più, per evitare che ciò che sei intralci quel che puoi scoprire di te, quel che puoi fare in più. Così, Yahweh, in quanto Dio dell’Essere, ha tutte le ragioni per vietare all’’adam di nutrirsi dei frutti dell’albero (in ebraico: della crescita) della conoscenza del bene e del male; ma l’’adam, creato da ’Elohiym, ha a sua volta il profondo impulso e tutti i diritti di disobbedirgli, di conoscere di più e di «morire» (cioè di staccarsi da ciò che è già) per crescere e diventare di più.
Dopo l’inutile divieto posto alla conoscenza nell’Eden, il Dio dell’Essere ha numerose altre occasioni di frenare il divenire, l’EVOLUZIONE dell’uomo: tenta di fermare Caino, lo scopritore dell’invisibile; colpisce l’umanità con il Diluvio; blocca la costruzione della torre di Babele ecc. Yahweh diviene poi, ai tempi di Mosé, il Dio della Legge, il Dio «geloso», il Dio che fa vendetta – mentre ’Elohiym rimane sempre il Dio del superamento di ogni limite, il Dio del perdono, del «crescere e moltiplicarsi» delle scoperte di ciascun individuo.
Nondimeno, un’analisi accurata del Testo sacro mostra che tra questi due aspetti divini il contrasto è soltanto apparente: in realtà, ’Elohiym e Yahweh agiscono in profondissimo accordo, l’uno come guida ed energia trascendente, e l’altro (in ciò consiste il suo più splendido segreto) come un maestro di coraggio iniziatico, che, con i suoi divieti, segnala quei tratti del processo evolutivo in cui si richiede, agli uomini, il coraggio di superare importanti resistenze. Parlo a lungo di ciò ne Il mondo invisibile e nei miei blog.
E d’altronde, bisogna essere seguaci particolarmente fanatici di Yahweh, più realisti del re, per non accorgersi di come il verbo «essere», che è a fondamento del suo Nome, contenga una ben precisa promessa di superamento di quel che già è: le nostre grammatiche lo descrivono come un verbo intransitivo, come cioè se indicasse una realtà che emana dal soggetto: per es., «io penso, dunque sono», oppure «la luce fu»; o come un verbo copulativo, cioè come una specie di segno d’uguale, per cui «io sono Igor» equivarrebbe a «io = Igor»; ma vi è anche un’altra accezione, attiva, transitiva, che lo apparenta a verbi come «fare», «rappresentare»: in tal senso, l’espressione «io sono Igor» indica un’azione, per la quale un «io» di cui so poco e che è certamente più grande di quel che so di sapere, sta mostrando soltanto una piccola percentuale di sé in questo Igor. Questo Igor è dunque il limite (la y e la w) di quell’«io»; e in qualsiasi istante potrei modificare quell’azione di esserlo, cambiare Igor, perché l’«io» si riveli di più – e Yahweh cercherà certamente di impedirlo, o meglio sarà tutto ciò che lo impedisce, mentre ’Elohiym non potrà che rallegrarsi di qualsiasi ampliamento che, nonostante Yahweh, io riuscissi a ottenere.
Riflettere su questa accezione dell’«essere» è molto importante tutte le volte che ci vengono alla mente frasi del tipo «io sono un incapace», «io sono uno che sbaglia» ecc. e così pure in frasi come «io sono un europeo», «io sono un cattolico» ecc. Nessuna di queste asserzioni ci pone una condizione assoluta; tutte descrivono soltanto uno sforzo di non essere più di tanto, che, non appena si arriva ad accorgersene, non è né utile né necessario continuare a compiere. E in tutte queste asserzioni si apre, bensì, la via verso la scoperta di quell’«io» più grande che da esse è limitato – e i cui modi di rivelarsi vanno assai al di là dell’«essere» così come lo si intende nel mondo (v. anche REINCARNAZIONE).
ETERNITÀ, VITA ETERNA. È convinzione comune dei CREDENTI che l’eternità sia un periodo di tempo illimitato che ha inizio dopo la morte. Ma quest’idea non mi ha mai convinto: se infatti un periodo di tempo è veramente eterno, in qual modo potrebbe avere un inizio? Ciò che le Scritture definiscono «eterno» – e in particolare l’aionios bios, il «vivere nell’eterno» di cui parlano i Vangeli – è invece una realtà ben più precisa e sensata: l’eternità, nella Bibbia come nei Vangeli, è propriamente una atemporalità, cioè una dimensione temporale diversa da quella abitualmente utilizzata dalla nostra coscienza razionale.
Da quest’ultima, il tempo viene inteso e percepito come lineare e monodirezionale: come se, cioè, procedesse dal passato verso il futuro, senza poter mai tornare indietro né deviare in alcun modo. Di questo tempo monodirezionale noi abbiamo indubbiamente bisogno per tutte le attività del cosiddetto emisfero sinistro del cervello, per poter ragionare in termini di CAUSA ED EFFETTO, ecc. Ma nulla dimostra che questo modo di intendere il tempo sia l’unico possibile: che, cioè, si sia obbligati a vivere la nostra vita soltanto come periodo che prima o poi finirà, e ad avvertire il presente come un attimo che continuamente fugge.
Il tempo lineare è soltanto una condizione percettiva che ci siamo abituati a mantenere e a usare nel limitato mondo dell’ESSERE, e accanto ad essa ne troviamo un’altra più vasta, nel mondo del DIVENIRE, in cui è «eterno», cioè infinito, non tanto il tempo inteso come somma di tutti gli istanti della nostra vita, bensì ogni singolo istante che viviamo. Quest’altra condizione non soltanto non ci è ignota, ma la sperimentiamo abbastanza spesso nella nostra vita quotidiana: quando per esempio stiamo ascoltando attentamente una musica che amiamo, o quando stiamo creando qualcosa, o in molti aspetti di un rapporto amoroso, o persino nei momenti di stress intenso – nel pieno d’un conflitto con qualcuno, in una gara, in un pericolo, ecc.
Quest’altro modo di percepire il tempo suscita un’emozione che molti ADULTI chiamano «sentirsi vivi», e che per loro rappresenta già qualcosa di eccezionale. Ma quell’emozione è solo l’inizio: ancor più straordinarie sono le nuove forme di conoscenza, a cui l’eternità-nel-presente fa accedere.
I principali limiti della nostra intuizione si basano infatti esclusivamente sulla certezza che il tempo sia lineare e unidirezionale, e che noi siamo confinati in un segmento minuscolo di esso. Finché la pensiamo così, la nostra mente ha davvero le proporzioni e l’orizzonte di quel segmento. Quanto più riusciamo, invece, ad avvertire il nostro presente come eterno, tanto più quei limiti si dissolvono, in ogni direzione.
Ed è quel che si sperimenta nell’Aldilà – che è appunto l’Aldilà di quel minuscolo segmento della nostra mente. Ne ebbi sentore, per la prima volta, una ventina d’anni fa, quando durante un viaggio nel meridione trovai, in un luogo che non avevo mai veduto prima, un antico eremo perfettamente identico a quello che nei mesi precedenti mi ero costruito e arredato nella mia STANZA TONDA. Di lì a poco scoprii che queste «precognizioni» potevano venir praticate in modo sistematico, continuativo: stavo traducendo la Genesi, e per risolvere le notevoli difficoltà del testo ebraico antico, chiedevo spesso consiglio ai miei MAESTRI; ne ricevevo indicazioni talmente precise, che a un certo punto domandai se quelle loro conoscenze filologiche non risalissero a una qualche loro vita trascorsa ai tempi di Mosè.
«No» mi risposero, «noi sappiamo solo quello che ne sai tu».
«Ma» obiettai «tutte queste cose che mi avete detto, io non le sapevo».
«Certo, poco fa non le sapevi» mi spiegarono, «e le avresti sapute tra una quarantina d’anni, dopo molti studi. Ma dato che per noi il vostro tempo non è determinante, possiamo tranquillamente andare a vedere quel che saprai tra una quarantina d’anni, e veniamo a dirtelo. Così puoi anche fare a meno di studiare tanto per scoprirlo».
Da allora l’esercizio dell’eternità come ampliamento della mente è diventata una delle mie passioni. È sorprendentemente semplice e facile. Non richiede che si abbandoni del tutto la concezione di un tempo lineare: consiste bensì in una intersezione di quest’ultimo con l’eterno. Se infatti vi fosse solamente l’eterno, il nostro io piccolo sparirebbe del tutto: non potremmo individuare più nessuna differenza tra il prima, il poi e l’adesso – e dunque non solo tra ciò che sapevamo prima di scoprire qualcosa e ciò che diventiamo dopo averla scoperta, o tra le parole che costituiscono qualsiasi nostra frase, ma neppure tra ciò che eravamo prima di nascere, ciò che siamo adesso e ciò che saremo tra trentamila anni.
L’intersezione, invece, tra le due dimensioni temporali ne produce – o meglio, ne rende fruibile – una terza: un tempo circolare e concentrico, attraverso il quale la mente può spostarsi a suo piacimento. Lo si può raffigurare così:

In questo schema, il Minuto, i Giorni, gli Anni, i Secoli, i Millenni sono non unità sommabili tra loro, come nel nostro tempo lineare consueto, bensì modi di percepire la realtà. Nell’Aldiquà, noi solitamente ci sentiamo a nostro agio nella dimensione del Minuto: posso definire tranquillamente uno, due, cinque minuti come il mio immediato presente, senza che ciò mi susciti alcun dubbio. Un poco più difficile è estendere la nozione del mio presente a un’intera giornata, o a una settimana: qui, qualche dubbio potrò averlo, dato che alcune cose avvenute sei ore fa o cinque giorni fa mi sembreranno appartenere ben più al mio passato che non al mio adesso. Difficilissimo è estendere la nozione di presente all’anno in corso, e del tutto impossibile è estenderla al decennio: per quanto mi sforzi, infatti, la mia mente non riuscirà a immaginare se stessa talmente grande da contenere un decennio come può contenere un minuto – e da poter dunque abbracciare con il suo sguardo interiore tutto ciò che in un decennio è avvenuto, così come abbraccerebbe ciò che è avvenuto nel minuto che sta ora terminando. Nell’Aldilà, invece, la mente riesce, senza alcuno sforzo, a contenere ed abbracciare in tal modo non soltanto il decennio, ma anche il secolo e il millennio: immaginare di divenire tanto grande è anzi il contrario di uno sforzo, un rilassarsi, un non credere più ai propri limiti, a cui immediatamente fa seguito il non averli più.
A quel punto, occorre soltanto quel che nella Bibbia è chiamato il «tendere la mano» (Genesi 3,22): cioè trarre da questa dimensione secolare o millenaria le informazioni di cui si ha bisogno, così come uno che sia vissuto in lucidità di mente per un intero secolo o un intero millennio potrebbe trarne da quel che ha sperimentato e appreso. Ciò può avvenire solo a condizione che l’io abbia deciso quali informazioni gli occorrano precisamente, e a quale preciso scopo: in caso contrario, la novità, la stranezza, l’immensa varietà di ciò che un secolo o un millennio contengono lo stordirebbero, e non potrebbe che smarrirvisi, come chi sfogliasse un’enciclopedia senza sapere cosa cercarvi. Di questi«esercizi d’eternità» ho narrato ampiamente ne Il frutto proibito della conoscenza.
EVOLUZIONE. Ho molti dubbi riguardo alla certezza degli evoluzionisti, secondo cui tutte le specie animali troverebbero posto in un unico, armonioso albero genealogico, in un ascendere di antenati comuni dei vari gruppi di esse. È un’ipotesi dimostrata, sì, ma si sa che con un po’ di pazienza si può arrivare a dimostrare qualsiasi cosa sia ritenuta vera da un sufficiente numero di persone: e nella voglia di ritenere vera quell’ipotesi mi pare troppo evidente il bisogno di obbligare il presente a cercare nel passato le proprie ragioni essenziali. Troppo imbarazzanti mi paiono anche certe implicazioni del darwinismo, quali per esempio il fatto che l’uomo sia la specie più evoluta (l’intero pianeta dimostra che è solo la specie più dannosa) e che i più evoluti tra gli uomini siano i bianchi civilizzati e civilizzatori. Per smentirlo, è sufficiente ammettere che la natura abbia potuto porre anche traguardi evolutivi diversi da quelli che a noi oggi sembrano tali (comforts, democrazia, mezzi di comunicazione ecc.): se, per esempio, l’evoluzione venisse misurata in base alla felicità, all’armonia con l’ambiente, o all’acutezza della vista, alla rapidità di cicatrizzazione delle ferite, alla resistenza alle infezioni, gli occidentali e la specie umana in genere verrebbero a trovarsi in una posizione assai arretrata.
Che, invece, la specie umana di per sé presa possa evolversi nel corso dei millenni, mi pare un’idea fondata e utile; e la si trova espressa compiutamente ben prima di Darwin: nelle Sacre Scritture, con la differenza che lì l’evoluzione umana viene descritta non come qualcosa che necessariamente avvenga all’intera specie, ad opera della natura, ma come il processo di una scoperta di sé, di un’intuizione e differenziazione delle proprie facoltà, che ciascun individuo può attuare nella propria vita, e che segue tappe ben precise, non sempre condivise dai suoi simili. Quando e là dove quelle tappe sono condivise da molti si ha davvero una fase evolutiva, che tuttavia può poi arrestarsi, retrocedere – per ricominciare magari secoli o millenni dopo.
La Genesi ricostruisce così le tappe di tale processo di differenziazione:
– ’Adam e ’adamah. Dapprima vi è l’’adam, termine che, decifrato nei geroglifici EBRAICI che lo compongono, significa «il centro energetico della circolazione sanguigna» – e la circolazione sanguigna (dam) simboleggiava, per gli ebrei come per gli egizi, l’attività e l’orizzonte della coscienza. Ben lungi dall’indicare un singolo individuo (e tanto meno un individuo maschio), ’adam indica nella Genesi il primo modo, il più elementare, in cui l’io può accorgersi di sé. E tutt’attorno all’’adam si estende, secondo la Genesi, la ’adamah, che nelle VERSIONI CONSUETE viene tradotta: «il suolo», ma che in geroglifico è: «ciò che per l’’adam è ancora invisibile (h)», e da cui l’’adam stesso ha preso e prende continuamente forma.
– ’Ishah e ’ysh. L’’adam ne prende forma perché in quell’«ancora invisibile» scopre continuamente se stesso. La sua prima scoperta, secondo la Genesi, è l’’ishah, cioè quella che nelle versioni consuete viene tradotta «la donna»: ’ishah, in geroglifico, significa bensì «la capacità (’) di conoscere (sh) l’invisibile (h)». Nelle versioni consuete leggiamo che «la donna» venne tratta da una «costola» dell’«uomo»; in realtà, il testo dice che la scoperta dell’’ishah avviene quando l’’adam riesce a superare i limiti consueti della propria percezione. La scoperta dell’’ishah, nel testo ebraico della Genesi, porta a una nuova configurazione dell’attività psichica, che appare suddivisa in due orizzonti: quello dell’’ishah stessa, aperto verso l’invisibile, e quello dell’’ysh, che le versioni consuete traducono «l’uomo», ma in geroglifico significa «la capacità (’) di conoscere (sh) ciò che è percepibile ai sensi (y)». A queste due componenti si riferisce il passo, molto equivocato:
l’’ysh si unisce alla sua ’ishah, e solo allora tutto ciò che nel mondo delle forme appare come due può diventare uno.
Genesi 2,24
Che nelle versioni consuete è invece: «l’uomo si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne». Dal significato ebraico di ’adam, ’adamah, ’ishah e ’ysh, si intende inoltre facilmente perché Yahweh dica che l’’adam lavorerà la ’adamah con il sudore della fronte (Genesi 3,17-19), cioè cercherà di comprendere sempre più l’ignoto attraverso il proprio pensiero, mentre l’’ishah poggerà il piede sulla «testa del serpente» (Genesi 3,15) cioè che la nostra facoltà di scoprire l’invisibile aprirà sempre la via della conoscenza, tanto mobile e imprevedibile da somigliare davvero a un serpente, là dove non la si è ancora percorsa.
– Caino, Abele e Sheth. Quanto più l’’adam impara a «unirsi» all’’ishah, cioè a osservare se stesso dal punto di vista di quest’ultima, tanto più riesce a differenziare ulteriori componenti della psiche: tali sono infatti Caino e Abele, i primi «figli dell’uomo» (beni-ha-’adam), termine che avrà largo impiego nei Testi sacri, e che va inteso nel senso di fasi ulteriori dell’evoluzione dell’’adam stesso – cioè dell’immagine che l’umanità riesce ad avere, in un dato periodo, della propria attività psichica. I primi due «figli» dell’’adam sono, com’è noto, in aspro conflitto tra loro, e ciò che il testo ebraico dice di loro (Genesi 4,2) fa intendere chiaramente il senso di tale conflitto: Caino (Qain, in geroglifico «colui che vuole impadronirsi delle cose») è, nel testo ebraico, un «lavoratore dell’’adamah», proprio come suo padre; Abele (Hebhel, in geroglifico: «colui dal quale l’invisibile è frenato») è invece un «pastore», un custode, un esperto di greggi obbedienti e di recinti. Per poter procedere nella scoperta dell’’adamah, è indispensabile che il nostro Caino interiore si accorga di ciò che in noi è Abele, e che lo vinca e vada oltre; nella Genesi infatti Caino è presentato come un eroe che sfida i divieti di Yahweh, senza che quest’ultimo riesca a fermarlo mai.
Il terzo «figlio», nato dopo l’«uccisione» di Abele, è Sheth, che in geroglifico significa «l’altro fondamento»: ed è il capostipite di una stirpe illuminata, dalla quale avrà origine Noè, letteralmente: «l’Armonioso», che rappresenta la facoltà umana di cambiare se stessi e il mondo, superando i limiti di tutto ciò che è già noto. E anche di Noé la Genesi precisa che «liberava l’’ysh dalla ’adamah» (Genesi 9,20; le versioni consuete traducono: «era un coltivatore della terra»), proprio come l’’adam, e come Caino, e come, in ogni epoca, coloro che sono riusciti a evolvere, a differenziare le facoltà che questi personaggi indicano.
La Genesi elenca anche molti altri «figli dell’uomo», nei capitoli 4, 5, 9, 10 e 11, e nei loro nomi geroglifici (Noè, Shem, Cam e Yapheth sono i più noti) vengono descritti i caratteri della fase evolutiva che ciascuno di essi rappresenta; ne ho parlato in dettaglio ne La creazione dell’universo. Dal capitolo 12 hanno inizio le storie di Abramo, Isacco, Giacobbe e dei loro discendenti, fino a Giuseppe egizio, e anch’essi sono ulteriori fasi evolutive.
Nessuna di queste fasi è mai stata una stabile conquista dell’intera specie umana: tutti, certamente, sono ’adam, ma non tutti arrivano ad accorgersi di esserlo; moltissimi hanno percezioni della loro ’ishah, molti arrivano anche a essere dei Caino e degli Abele, ma non molti riescono a superare quest’ultimo in se stessi; pochi, poi, trovano la via di Sheth e il coraggio di Noé; pochissimi riescono ad «andarsene dalla casa del proprio padre» come Abramo (Genesi 12,1), e a diventare un ISRAELE come Giacobbe. Ma in questa direzione, secondo l’evoluzionismo delle Scritture, procede la crescita della psiche dell’umanità intera, e tutti i guai del mondo dipendono appunto dalle resistenze che tanta parte degli uomini oppongono a tale procedere.
L’ultima tappa per ora intuibile, secondo i Vangeli, è indicata in ciò che Gesù dice dei «figli dell’uomo» che diventano «figli di Dio»: e questa nuova generazione, secondo Gesù, è adesso. A partire da adesso, cioè, l’evoluzione umana può congiungersi con quella divina, e tutto può «diventare uno» non soltanto nella nostra psiche, com’era per l’’adam e l’’ishah, ma anche tra la terra e il cielo – a condizione che ci si accorga di poter essere «figli», cioè superamenti di quel che oggi avviene nel mondo e del mondo stesso come ci hanno insegnato a vederlo. Ma purtroppo quest’adesso fa una grande fatica a manifestarsi, e dinanzi a qualsiasi pagina dei Vangeli si ha ancora la netta sensazione che stiano ancora descrivendo soltanto il futuro.
Da quasi duemila anni l’umanità esita dinanzi a questa fase nuova (e alla nuova ’adamah che vi è oltre) ed esitando retrocede per lo più verso fasi precedenti, per poi superarle faticosamente, e fermarsi ancora dinanzi al limite indicato da Gesù, e ricominciare a retrocedere. È su quel limite segnato duemila anni fa, che si gioca il valore delle nostre esistenze; in base ad esso soltanto vale la pena di individuare gli scopi della nostra vita. Io perlomeno, da qualche anno a questa parte, ho deciso di non occuparmi di null’altro, e all’’adamah sono appunto dedicati tutti i miei libri.
EXTRATERRESTRI. Molti sono convinti che credere sia una scommessa (il celebre pari de Pascal) e penso sia l’accezione peggiore. Quel che se ne trae è infatti – quando va bene – la vanità di poter dire: «Hai visto? L’avevo detto, io». E una scommessa del genere si trova oggi in quei MOLTI che credono nell’esistenza di popolazioni extraterrestri fornite di astronavi, armi micidiali ecc.
La scommessa, qui, non è tanto che esista vita cosciente su qualche altro pianeta (il che è bensì un’ipotesi altamente probabile) ma, propriamente, che una terminologia derivata dalla fantascienza di fine Ottocento possa descrivere adeguatamente fenomeni studiati già da qualche migliaio di anni. Indiani, assiri, egizi, greci, ebrei, teologi e mistici cristiani e islamici usavano terminologie d’altro genere (assai raffinate e ricche di SIMBOLI) per le loro ipotesi sugli esseri non umani che popolerebbero sia luoghi dell’universo, sia anfratti del nostro pianeta e della nostra psiche. Gli europei del XIX secolo, incapaci di simbologie, cominciarono invece a ricorrere in blocco al linguaggio della tecnologia, di cui erano entusiasti e che rappresentava allora, ai loro occhi, il non plus ultra dell’intelligenza.
Il notevole svantaggio di tale tecnologizzazione di Angeli, Arcangeli, demoni, Dei ecc. è che quando si usano parole vecchie per descrivere idee antiche, queste ultime perdono molto della loro forza – un po’ come avverrebbe se per spiegare la Gioconda si adoperasse il lessico di un estetista degli anni Cinquanta. Decisamente, la cosa non mi interessa. Preferisco di gran lunga interpretare in base ai miti antichi quel che di significativo mi capita di leggere sugli extraterrestri, poiché mi sembrerebbe disonesto il contrario.