DESIDERI, vedi CHIEDERE.
DIAVOLO E SPIRITI PERICOLOSI. Molti temono che, a voler scoprire personalmente dell’Aldilà, si possa incappare in «spiriti bassi» o addirittura nel diavolo o in qualche suo emissario più o meno pittoresco.
Riguardo agli «spiriti bassi» questo timore non ha fondamento, per l’ovvia ragione che, in tutto quanto l’universo, il luogo più densamente popolato di «spiriti bassi» è proprio il nostro livello di coscienza ordinario. Ciò che gli antichi chiamavano entità parassite, larvae, fatture, catene ecc. (e che in psicologia si chiamano oggi nevrosi, ossessioni, compulsioni, isterie, fenomeni depressivi ecc.) prosperano infatti là dove l’ENERGIA dell’io è minore, dove minori sono cioè le differenze di potenziale tra l’io piccolo e ciò che lo circonda: appunto perché quelle entità parassite sono «basse», cioè deboli, possono interferire solo nella mente e nell’animo di chi non è molto più forte di loro. Quanto più aumenta invece l’energia di cui l’io può disporre, come appunto avviene quando si va alla scoperta dell’Aldilà, tanto più si è fuori dalla loro portata. È proprio come per le mosche e le zanzare, che possono darti noia solo fino a una certa altitudine.
Il diavolo, invece, è tutt’altra questione.
Il suo dominio è notoriamente vastissimo. Meno noto è il fatto che la sua data di nascita sia relativamente recente: del diavolo così come noi lo intendiamo non parlano né i patriarchi biblici, né Mosé, né i Salmi, né Salomone, né la maggior parte dei profeti (l’idea che il Serpente dell’Eden fosse in qualche modo diabolico è del tutto infondata, come dimostro ne La creazione dell’universo e ne Il mondo invisibile). Il nostro attuale diavolo cominciò a formarsi soltanto attorno al III sec. avanti Cristo, quando la cultura ebraica entrò in diretto contatto con quella greca (e non per nulla è greco il termine con cui lo si indica più di frequente, diabolos appunto, che letteralmente è «il separatore»). Dalla filosofia dei greci, gli ebrei appresero un concetto nuovo per loro, e che evidentemente dovette impressionarli moltissimo: il «non essere», il me on, il nulla. Era l’esatto opposto del nome di Dio che gli ebrei a quell’epoca prediligevano, YHWH, «l’Essente». E su quel Nulla essi cominciarono a concentrare le loro speculazioni, scoprendone gli strani poteri; lo personificarono, naturalmente (personificavano di tutto, a quel tempo), e la personificazione passò poi direttamente ai cristiani, per i quali ancor oggi il diavolo è, in realtà, il Nulla, ancor più impressionante e potente di allora – benché nessun cristiano ci pensi mai in questi termini.
E che sia il Nulla, non significa affatto che non sia nulla. Certo, non è né un essere vivente né una cosa: di per sé non appartiene né alla dimensione dell’ESSERE né a quella del DIVENIRE, e non gli si possono perciò applicare né l’uno né l’altro verbo. Lo si trova e consiste, bensì, nelle conseguenze che ha per l’essere e per il divenire: nella pressione, per così dire, che su di essi il Nulla esercita da fuori. Agisce in determinate fasi psichiche, sia del singolo sia delle masse; genera stati d’animo: paure, odi, ambizioni, convinzioni ecc.; si manifesta (si incarna, in un certo senso) in una vastissima serie di situazioni, valori, idee e luoghi comuni, organizzazioni, persone anche: in tutto ciò e in tutti coloro che sembrano essere e rappresentare qualcosa, e che sono invece solamente nulla.
Riconoscerli è molto facile, ma ancor più facile è lasciarsene «tentare»: il vuoto attrae sempre, e venire trasformati in Nulla e godere nel trasformare in Nulla altri è una sorte che a moltissimi può sembrare lieve e addirittura emozionante – proprio come lo sembra la morte agli aspiranti suicidi.
Celeberrimo esempio di questo Nulla e delle sue attrattive è l’incontro tra Gesù e il diavolo nel deserto. Lì, come si ricorderà, il diavolo propone a Gesù tre strategie per diffondere con successo il suo insegnamento: una basata sul potere economico, l’altra sul potere politico e la terza sui prodigi; Gesù le rifiuta tutte e tre. Da quell’episodio consegue che, secondo i Vangeli, sia le forze ecomomiche, sia quelle politiche, sia quelle dei poteri soprannaturali strumentalizzati a scopo di prestigio siano espressioni e strumenti del Nulla (e tanto più delicata diviene perciò la situazione della Chiesa, alla quale tutte e tre quelle strategie sono invece apparse praticabili).
Inteso come Nulla, il diavolo è naturalmente altrettanto rischioso nella ricerca spirituale, quanto lo è in qualsiasi momento della nostra vita quotidiana. E nell’Aldiquà come nell’Aldilà, l’unico modo di difendersene è tenersi sempre dalla parte di ciò che con esso non ha a che fare: dalla parte dell’essere e del divenire, indubbiamente più faticosa.
DIFFERENZA DI POTENZIALE, vedi ENERGIA.
DIFFERENZIAZIONE. Prendo questo concetto direttamente dalla psicologia junghiana. Tra il 1914 e il 1920 Jung elaborò (con l’aiuto, pare, dei suoi Spiriti guida) la bella teoria delle quattro funzioni dell’Io, cioè dei quattro modi fondamentali in cui l’io agisce: Pensiero, Sentimento, Intuizione, Sensazione. Tali funzioni si possono raffigurare, secondo Jung, nel seguente schema di polarità:

Solitamente, l’io piccolo riesce a sviluppare soltanto le due funzioni comprese nella parte superiore del cerchio – e una in particolare, generalmente quella più apprezzata dagli ALTRI: tale funzione più sviluppata viene chiamata, da Jung, «funzione dominante», o «funzione più differenziata». Delle due funzioni nella parte inferiore, una, la più vicina alla linea mediana, viene utilizzata solo di tanto in tanto, mentre l’ultima, la più bassa, rimane arretrata, o «indifferenziata»: l’io piccolo non sa, cioè, adoperarla consapevolmente. E quanto più la trascura (quanto più, cioè, l’io convoglia la sua energia sulla funzione dominante), tanto più la funzione inferiore regredisce e diviene incompatibile con le altre: contrasta con esse, interferisce nella loro attività, come un rimorso nascosto – o peggio ancora, come un elemento diabolico, ansioso di causare infelicità, sconfitte.
A coloro, per esempio, la cui funzione più indifferenziata è il Sentimento, capiterà spesso di non riuscire a concentrarsi a causa di situazioni affettive irrisolte, o magari di non riuscire a trovare la soluzione di un loro problema esistenziale perché temono – oscuramente – che tale soluzione causi danno alle persone a cui sono legati. Coloro, invece, la cui funzione meno differenziata è la Sensazione, tenderanno a imporsi regimi di vita eccessivamente austeri, sprecando preziose energie nello sforzo di arginare le esigenze del corpo, che a loro paiono foriere di chissà quali pericoli: «Che sarebbe di me, se mi mettessi a fare quelle cose...» La via migliore per uscire da tali condizioni, secondo Jung, è quella di imparare a riconoscere, ad apprezzare ed esercitare anche la funzione più bassa – il che all’inizio risulta sempre difficile, per la gran paura che suscita.
Quanto antiche siano le origini di questa teoria, è mostrato dal mito dei re Magi: la nascita di Gesù nella gelida notte invernale rappresenta la «discesa» di una funzione predominante e sviluppata oltremisura (il «Re del cielo» dei canti natalizi) verso il settore sottostante dell’io, che, proprio per l’enorme sviluppo di quella, appare tanto più buio: i tre Magi sono appunto le altre tre funzioni che le si fanno incontro, portando doni; a uno di essi, Baldassarre, la tradizione attribuisce tratti moreschi, come a rappresentare agli occhi dell’Occidente la funzione più oscura.
Dell’importanza della differenziazione parlo anche nelle voci FUNZIONI DELL’IO e PERCEZIONI DELL’ALDILÀ.
DILUVIO, 2012, vedi ARCA, e PERIODI DI CIVILTÀ.
DIO. Il buon razionalista ritiene che gli uomini si siano abituati ad attribuire a Dio tutto ciò che non capiscono di sé e del mondo, e che per questo motivo abbiano creato un Dio che li ha creati – dato che alle domande «Da dove veniamo? E com’è cominciato tutto?» non hanno ancora trovato una risposta soddisfacente. Di tutt’altro avviso sono invece la stragrande maggioranza dei CREDENTI, i quali considerano Dio come un essere superiore realmente esistente e considerano con compatimento chi non avverte il bisogno (questo bisogno decide tutto, per il credente) di porre sopra di sé un Dio simile a quello previsto dalla religione locale. Quanto a me, tra i razionalisti e i credenti, le mie simpatie vanno decisamente ai primi: non vedo infatti nella loro opinione nulla di riduttivo nei riguardi del concetto che, da sempre, l’umanità ha del divino.
Per certo Dio va cercato in ciò che ancora non sappiamo o non comprendiamo, e per certo noi, e con noi anche tutto ciò che ci avviene, veniamo ininterrottamente creati proprio da quel che non abbiamo ancora compreso – mentre quel che abbiamo compreso, siamo indubitabilmente noi ad averlo creato.
Da un lato, ne consegue che davvero – come è narrato nell’episodio dell’Eden – la crescita della conoscenza umana vada a scapito della maestà divina:
Yahweh disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi per la conoscenza del bene e del male! Ora bisogna che non stenda più la mano, e non colga anche i frutti dell’albero della vita…»
Genesi 3,22
D’altro lato, è evidente che gli individui migliori sono sempre stati quelli che sapevano di non sapere, quelli cioè capaci di scoprire molti limiti della conoscenza, anche là dove ai loro contemporanei tutto appariva noto e spiegabile: e, se il divino è in ciò che noi ancora non sappiamo, per quegli individui migliori Dio si troverà perennemente in fase di crescita, quali che possano essere i progressi della nostra conoscenza. Dato, poi, che molto di ciò che non sappiamo è anche dentro di noi (e quanto più scopriamo in tale direzione, tanto più aumentano i nostri interrogativi), appare tanto più fondata la possibilità di prendere alla lettera Gesù quando dice che Dio e il suo regno si trovano dentro l’uomo (Luca 17,21).
Ma, stranamente, questo argomento non piace né alla stragrande maggioranza dei credenti, né ai razionalisti. I primi preferiscono, cioè, non spingersi troppo in là nel loro bisogno di Dio, e così pure gli altri nella loro aspirazione alla conoscenza – come se agli uni e agli altri premesse evitare che queste due pulsioni finissero per incontrarsi e coincidere. Le conseguenze sarebbero infatti imbarazzanti. Si tornerebbe ai tempi in cui venne scritta la Bibbia, e ai miti greci ed egizi, in cui i simboli servivano a narrare un’onesta sapienza che avrebbe ritenuto insensata la divisione tra scienza e teologia. Non si potrebbero più escludere – come avviene ora – le Sacre Scritture dalla ricerca psicologica; o l’anima dalla struttura dell’io; o il concetto di «figlio di Dio» e «figlio dell’uomo» dalla teoria dell’evoluzione. Gli scienziati non potrebbero più vantarsi di essersi lasciati alle spalle Mosè e Gesù, né i religiosi di voler conservare ciò che la scienza sostiene di aver superato. Le principali certezze dell’umanità contemporanea, insomma, si sgretolerebbero: e tanto la scienza che la religione sarebbero costrette, da un lato, a prendersi ben più sul serio, e dall’altro a smettere di trarre dalla reciproca esclusione il proprio significato, come se fossero due diversi pretendenti all’amore della gente.
Da qualche tempo mi sono accorto di non aver mai trattato d’altro che di questo duplice superamento, nei miei scritti e nelle mie conferenze. Ne sono lieto e continuerò a farlo, perché penso sia l’unico modo per evitare che Dio, cioè quel che ancora non sappiamo, o non sappiamo di sapere, continui a essere quello che la stragrande maggioranza della gente non voglia sapere mai.
DISOBBEDIENZA. Non è possibile compiere scoperte, in nessun ambito, se non si è disposti a stupirsi di quel che si potrà trovare; e non c’è possibilità di stupirsi, se nell’indagare un qualsiasi ambito ci si attiene a ciò che ALTRI ritengono importante. Perciò la SAPIENZA – che consiste tutta quanta di ricerche e scoperte – è sempre eretica: non si basa su alcunché che si sappia già, né tantomeno su presupposti o princìpi già consolidati. Non può fare a meno di disobbedire.
E non per nulla la Genesi fa incominciare la storia dell’uomo sulla Terra con la trasgressione al divieto di nutrirsi dei frutti della conoscenza.
Di solito quell’episodio viene definito un PECCATO, anzi «il peccato originale», causa di tutti i guai e problemi dell’umanità: ma è ben evidente dal testo (se lo si legge con sufficiente chiarezza interiore e sufficiente disobbedienza) che l’intento di Yahweh fosse proprio quello di destare nell’’adam l’impulso a transire lineas. Ne parlo a lungo ne La creazione dell’universo e ne Il mondo invisibile. Molti teologi sono ovviamente di tutt’altro parere; e ritengono che al desiderio di conoscenza vadano imposti limiti e condizioni sia teoriche (comandamenti, dogmi ecc.) sia pratiche (la sottomissione ad autorità e a persone che, per i più svariati motivi, siano approvate dalle istituzioni religiose). Anche Paolo di Tarso sembra esser stato di questo parere:
Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite, poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sulla terra sono state stabilite da Dio stesso. Quindi chi si oppone a un’autorità, si oppone a un ordine stabilito da Dio.
Romani 13,1-2
In questo passo Paolo stava indicando ai suoi discepoli un compito fondamentale, tratto dall’antica tradizione ebraica: scoprire, interpretare le dinamiche sociali e politiche non come forze profane, ma come manifestazioni di una superiore necessità o volontà, che egli chiama qui «Dio». Oggi potremmo esprimere il suo pensiero così: opporsi semplicemente e direttamente a quelle forze perché alcuni di noi le possono trovare ingiuste è troppo facile; occorre invece conoscerle, individuare quali elementi della psiche trovino in esse espressione o «compensazione», e tener conto di tali elementi così come chi viaggia in auto tiene conto delle condizioni del motore. In tal senso, Paolo si trova qui sulla stessa linea di Maometto, Hegel, Marx – che raccomandavano anch’essi, in vario modo, di conformarsi alle profonde ragioni del momento storico in cui si vive. Per di più, era convinzione di Paolo che un’idea nuova e travolgente, per potersi affermare, dovesse puntare non tanto a diffondersi tra le masse ma a convertire i vertici della società – e perciò raccomandava ai cristiani di Roma l’obbedienza civile, invece dell’aperta sfida alle potestates dello Stato.
Già, ma se quelle potestates, «espressioni della volontà divina», fossero tipi come Hitler, Mussolini o Stalin?
Alla convinzione di Paolo si oppone diametralmente Gesù, quando dice:
Non giurate mai fedeltà a nessuno… ma dite «sì» quando è sì, e «no» quando è no. Ciò che è più di questo, viene dal male
Matteo 6,34.37
Ciò che è in questione, qui, è naturalmente il valore dell’individuo:
– per Paolo, è bene superare la propria individualità per poter servire alcune istituzioni, a cui Dio sembra tenere moltissimo; si possono così ottenere istituzioni più forti e più sane, e tutti ne traggono beneficio; lo svantaggio è che, in tal modo, non si è veramente se stessi; il vantaggio, è che non essendo veramente se stessi si può far meno caso ai propri problemi personali;
– per Gesù, compito di ogni io è invece essere se stesso in ogni istante della propria vita, stabilendo per proprio conto quando sia «sì» e quando «no», e comportandosi di conseguenza; le istituzioni appaiono allora trappole esistenziali, mentre i problemi personali diventano più importanti di qualsiasi altra cosa, come se dal coraggio di affrontarli e superarli cominciasse il Regno dei cieli sulla terra.
Questi due punti di vista non sono tra loro conciliabili, se non in una società in cui le istituzioni siano immediata espressione degli individui – e in cui dunque ciascuno sia di per sé stesso uno Stato, una Chiesa ecc. La più sorprendente caratteristica di un tal modello sociale è che, finora, non si sia mai realizzato (e ciò dà ragione a Paolo) e che, tuttavia, costituisca evidentissimamente una delle più profonde aspirazioni di chiunque (e ciò dà ragione a Gesù). La soluzione di questo blocco dell’evoluzione umana è lo scopo principale della sapienza: l’individuazione della lex naturalis dell’uomo, di leggi cioè del comportamento e dell’animo, che – al pari delle leggi della fisica o della chimica – richiedano non di essere obbedite, ma solo di essere conosciute e comprese. Allo studio di queste leggi si dedicavano gli antichi, in epoca moderna è caduto a lungo in disuso; nel Novecento (con la psicanalisi) ha avuto un promettente risveglio. Quanto a me, è di gran lunga la mia occupazione principale.
DIVENIRE. È un buon sinonimo di Aldilà: sia il divenire sia l’Aldilà sono infatti ciò di cui non ci si è ancora accorti, e che quindi non esiste, non c’è ancora per noi – benché già agisca, e potentemente, su tutto ciò che già è e che già siamo.
Nella Bibbia, il divenire coincide con ’Elohiym: la prima sillaba del suo Nome – ’El – in EBRAICO geroglifico significa appunto «la potenza (’) di ciò che sta e giunge sempre più in là (l)». Ed ’Elohiym, nella Genesi, è il Dio creatore (non diveniamo anche noi creatori, ogni volta che la nostra volontà e intelligenza e ispirazione giungono più in là di ciò che già esiste in noi o intorno a noi?); è il Dio della scoperta, è lui a dire:
Crescete e moltiplicatevi
Genesi 1,28
– cioè: ciascuno di voi cresca e scopra quante personalità, quante fasi di crescita gli sono accessibili. È inoltre il Dio che perdona, che cioè supera e permette di superare ogni blocco, o trauma, o errore – a differenza del Dio dell’ESSERE, Yahweh, che è l’emanatore di divieti, «il Geloso», colui che serba rancore e fa vendetta. Riconoscerlo è facile, nella Bibbia, anche nelle VERSIONI CONSUETE: per antica convenzione ’El viene infatti tradotto sempre «Dio» (per es., «Dio disse: Vi sarà la luce!», Genesi 1,3) mentre Yahweh viene tradotto «il Signore Dio» (per es., «il Signore Dio non faceva piovere», Genesi 2,6).
’El, nelle Scritture, e il divenire o Aldilà, nella nostra vita quotidiana, richiedono soltanto che non ci si rassegni a essere soltanto ciò che si è già, e che non ci si accontenti di ciò che già esiste. Il loro ostacolo è, dunque, tutto: tutto quello che già conosciamo, e che perciò ci limita, e ci lega. E il loro luogo è il presente – poiché credere che il divenire sia soltanto nel futuro vuol già dire rinunciarvi. Mentre la porta, il mezzo del divenire è il nostro io, ogni volta che ci accorgiamo di qualcosa che prima non avevamo notato, e scopriamo in tal modo quanto ciò che chiamiamo io sia più grande di quel che sappiamo di essere.
Impossibile è invece comprendere il divenire, capirlo, proprio perché CAPIRE una qualsiasi cosa significa ricondurla a ciò che già si era conosciuto in passato. In tal senso è legittima e utile la convinzione dei teologi che Dio non si possa comprendere in alcun modo: ciò vale appunto per ’El, e non certo per Yahweh – il quale richiede invece di essere soprattutto capito, e di volta in volta superato, inevitabilmente.
DOVERE. Ci sono due tipi di dovere, ben distinti l’uno dall’altro. Un uomo di cui non si conosce il nome disse a Gesù: «Signore, ti seguirò ovunque, ma lascia che prima io vada a seppellire mio padre»; Gesù gli rispose: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti, tu va’ e annuncia il Regno di Dio» (Luca 9,59) – e in questa terribile frase i due tipi di dovere sono precisamente mostrati, insieme alle due categorie di persone che preferiscono l’uno o l’altro: i «morti», certamente, preferiranno il primo; mentre il secondo è per «te».
I doveri del primo tipo sono quelli che possiamo avere verso ciò che esisteva già prima che nascessimo; l’altro tipo di doveri si riferisce invece a ciò che può prendere forma soltanto attraverso di te. Chi rispetta il primo tipo di doveri, fatica spesso a definire «doveri» quelli del secondo tipo. Chi invece sente di più questi ultimi, guarda ai doveri del primo tipo come a una prigionia.
In chi si accosta alla SAPIENZA, la tensione tra i due tipi di doveri è all’inizio fortissima: i «morti» che esigono sepoltura sono una folla, sia dentro di noi, sia tutt’intorno. Poi, possono avvenire due cose: o ci si dedica a una finta ricerca spirituale, e nella spiritualità si vogliono trovare soltanto modi per continuare quell’opera di sepoltura (cioè conferme a quel che sapevamo già prima); oppure, avventurandosi nell’Aldilà, non si esita ad abbandonare nulla che possa limitare l’orizzonte delle scoperte. Chi segue la prima via, diviene facilmente intollerante, autoritario o devoto di personalità autoritarie; quelli che seguono la seconda via, corrono un unico rischio: ritenere un dovere fermarsi a spiegare, a far capire a qualcun altro quel che stanno scoprendo.
Con ciò, essi ricadono inevitabilmente nel dovere verso «i morti»: fermarsi a spiegare sembra infatti un gesto legittimo e generoso, ma in realtà ha soltanto l’effetto di frenare la tua ricerca. Non puoi far capire a qualcuno ciò a cui costui non è ancora giunto: le CONTENENZE di cui dispone sono troppo strette, facilmente si irriterà; ancor più facilmente potrà avvenire che, nel tentativo di spiegargli il nuovo in termini a lui accessibili, quel che hai trovato di nuovo finisca per disgregarsi, o per snaturarsi a tal punto da non essere più nulla. Al che si riferisce un’altra dura esortazione di Gesù:
Non date le cose sante ai cani, e non gettate le vostre perle ai porci, perché non avvenga che le pestino con i loro piedi e che, rivoltandosi contro di voi, non vi sbranino.
Matteo 8,6
Ciò vale naturalmente anche nel rapporto con se stessi: è dannoso voler conciliare quel che scopriamo di nuovo, con quel che dentro di noi è «cane», o «porco» – oppure «morto», o morente. Si cresce nonostante queste componenti di noi, superandole di continuo e lasciandosele alle spalle, e non aspettando che migliorino, o che le ragioni di quel che in noi le supera appaiano giuste anche a loro.