CABALA, VEDI QABBALAH.
CAOS. Secondo le Sacre Scritture, prima della Creazione vi era il caos – il tohu-bohu, com’è chiamato nel secondo versetto della Genesi (nelle versioni consuete è tradotto: «informe deserto»). Moltissimi ritengono che ciò sia vero nel senso banale del termine, cioè che realmente vi fosse una gran confusione nell’universo alcuni miliardi di anni fa. Io ritengo invece che anche quel caos, come tutto il RACCONTO della Creazione, abbia una sua verità atemporale: il caos torna a manifestarsi, nella vita di ogni individuo, ogni volta che gli si annuncia la possibilità di creare di nuovo la propria realtà; e vi sono persone (ne conoscerete certamente anche voi) che non riescono a essere creative proprio perché hanno troppa paura del caos che dovrebbero scoprire e attraversare prima di cominciare a creare.
Caos, in tal senso, è la perdita di certezze, il senso di vuoto, lo sgomento, la sensazione che nulla di ciò che siamo, che conosciamo, che abbiamo costruito possa reggere all’irrompere di qualcosa di ignoto, di nuovo. È paura, ma può anche essere una risata – fenomeno realmente caotico della nostra psiche, come anche delle nostre vie respiratorie. Ho infatti notato che talvolta le percezioni dell’Aldilà e soprattutto le conversazioni con i MAESTRI suscitano il riso nei principianti: io stesso, la prima volta che incontrai i Miei, risi per tutto il tempo, per una sensazione che allora intesi semplicemente come sorpresa, ma che oggi mi appare soprattutto come un senso di liberazione da tante cose che fino a quel momento avevo creduto vere.
Da allora ho cominciato a convincermi che soltanto chi ha buoni rapporti con il caos stia conducendo una vita degna di essere vissuta, e che soprattutto per questo il tohu-bohu compaia proprio all’inizio della Bibbia. Quanto alla controversa interpretazione del termine EBRAICO, la mia opinione è che, decifrato nei geroglifici che lo compongono, tohu-bohu venga a significare: «ciò che è chiuso in se stesso e pronto a trasformarsi, a generare nuove possibilità».
CAPIRE. È un verbo molto sopravvalutato. In realtà deriva dal latino capere, cioè «contenere» e «far contenere», e indica dunque l’atto (in genere, lo sforzo) di inserire qualcosa di nuovo in un recipiente di cui già si dispone. Non migliore è il suo sinonimo, «comprendere», dal latino comprehendere, «stringere d’assedio», «incatenare». Più promettente sarebbe il termine usato in EBRAICO al posto di «capire»: hebin, che, decifrato come geroglifico, significa «lasciare che l’invisibile (H) produca (B) cose nuove (N)». Ma nelle lingue e di conseguenza anche nelle mentalità occidentali prevale ovunque un capire reclusivo, imprigionante, oppressivo – dall’understand inglese («sotto-stare»), al verstehen tedesco (letteralmente: «insistere nello star fermi», «reggere a una spinta»), al ponyat’ russo («afferrare»), al comprendre francese ecc.
«Questo lo capisco! Posso capirlo!» vuol dunque dire: «Questo non mi dice nulla di veramente nuovo, questo può trovar posto nel recipiente che ho già, e che ho adattato al modo di pensare e di vivere dei miei contemporanei!». Mentre «Non capisco!» dovrà di conseguenza significare: «Ecco qualcosa di veramente nuovo, che il mio recipiente mentale non arriva a contenere; ora dovrò allargare questo mio recipiente, ci riuscirò? E vale la pena? Bisogna?».
Si riferisce a ciò il famoso passo evangelico sul vino nuovo che va messo in otri nuovi, perché se si usassero otri vecchi li farebbe esplodere. E a questo passo rimando quei lettori che, fin dai miei primi libri, mi facevano notare che quel che scrivo è «un po’ difficile, non si capisce sempre…» In realtà non si capisce mai, non è tale cioè da trovar posto nei recipienti vecchi in circolazione, e appunto perciò lo scrivo; riterrei invece disonesto nonché noioso scrivere cose che in quei recipienti si possano capire-capere senza causare problemi.
CAUSA ED EFFETTO. Benché la scienza sostenga di averlo superato da un pezzo, il principio causale continua a determinare il pensiero dei più – ivi inclusi molti scienziati. Tale principio consiste nella convinzione che tutto quel che esiste debba trovare la sua spiegazione in qualcosa che è esistito prima: per esempio, un mio amico ha il raffreddore perché da qualche tempo mangia poche vitamine e ieri l’altro ha preso freddo, una mia amica si è innamorata perché da un po’ si sentiva sola e la settimana scorsa ha incontrato un brav’uomo, e così via.
La RAZIONALITÀ, soprattutto negli ultimi tre secoli, poggia saldamente su questo modo di spiegare le cose, e perciò essa considera, in ciascuna cosa, soltanto quegli aspetti che confermino la validità del principio causale. Secondo alcuni, ciò è dovuto al fatto che il principio causale sia una condizione del pensiero, cioè che gli uomini non possano ragionare se non guardando al passato come decisiva fonte di significato; secondo altri, non soltanto la mente umana ma la realtà stessa è dominata dalla causalità, e quindi chi pensa in termini causali coglie la verità, e chi pensa diversamente si illude. E conosco pochissime persone che – consapevolmente o no, riuscendo o non riuscendo a dirlo con parole precise – non aderiscano all’uno o all’altro di questi due punti di vista (il primo è il punto di vista di Kant, il secondo è quello di Hegel).
A mio avviso, ciò è invece un modo di limitare la mente, e si basa su una fede sostanzialmente simile a quella di chi, ai tempi di Galileo, voleva ancora sostenere che il sole gira attorno alla terra. Come tutte le fedi che mirano a limitare qualcosa, infatti, anche la fede nel principio causale procura danni notevoli non soltanto alla conoscenza, ma anche alla salute mentale, e precisamente:
– il tenere sempre lo sguardo volto indietro, credendo dal passato dipenda tutto, non fa che togliere valore al presente e al futuro, e alle generazioni presenti e future, ad esclusivo vantaggio dei genitori e dei nonni;
– la fede nel principio causale è stata sempre la principale alleata dello status quo ante, ovvero di ciò che alle generazioni precedenti era sembrato giusto e necessario (per esempio, le guerre) e che continuava a sembrare tale soltanto perché «anche prima si faceva così»;
– dalla fede nel principio causale, cioè nella supremazia del passato sul presente e sul futuro, dipende totalmente il senso di colpa, la sensazione cioè che un errore compiuto chissà quanto tempo fa possa limitare adesso le nostre possibilità.
Da qui si alimenta l’idea del «peccato originale», cara soprattutto ai cristiani; e che sia tanto diffusa, non significa certo che sia una verità. Le verità non sono strumentalizzabili, l’idea del «peccato originale» invece lo è, eccome: si pensi all’episodio in cui, al miracolato che li accusa di ipocrisia, i farisei rispondono, con stizza:
«Sei nato tutto quanto nei peccati, e vorresti dare lezioni a noi?»
Giovanni 9,34
È facile istillare, con il senso di colpa, anche quel senso di inadeguatezza, d’inferiorità, che tanto favorisce nella gente la rassegnazione a farsi dominare.
Anche perciò capita raramente di sentir parlare del principio opposto a quello di causa-effetto, cioè del principio di scopo, o fine, che pure ebbe sostenitori illustri fin dalle origini della filosofia occidentale. La vera causa d’ogni cosa è nel suo fine, spiegava Anassagora (V sec. a.C.), ovverosia: quel che decide tutto non è il passato, ma il modo in cui nel presente si sa guardare al futuro. E va notato che Anassagora capì – duemila anni prima di Keplero e Galileo – che il sole è una massa incandescente, e la luna un globo roccioso: di certo non sarebbe potuto giungere a questa conclusione, se avesse dovuto attendere che le sue ipotesi avessero una causa (cioè che fosse inventato il telescopio). E «il fine giustifica i mezzi», spiegava Machiavelli: questa sua frase viene solitamente interpretata come una cinica, piatta esortazione alla spregiudicatezza in politica, e voleva invece significare che i «mezzi», cioè le opportunità che possiamo intravvedere in un dato momento, sono determinati non da quel che è avvenuto prima, ma precisamente dallo scopo che in quel momento ci stiamo proponendo, consapevolmente o inconsapevolmente. In ogni attimo possono infatti agire su di noi, dal nostro passato recente e remoto, miliardi di cause più o meno potenti, che ci spingono ciascuna in una direzione diversa: ma quali di quelle cause agiranno su di noi e quali no, lo decidiamo sempre e comunque noi, a seconda della direzione in cui stiamo andando ora.
Così, per esempio, se il nostro fine è di riuscire in qualcosa ed essere molto felici, agiranno su di noi le cause che portano a ciò, e non le altre; se invece il nostro fine è di patire, di ammalarci ecc. agiranno su di noi le cause che ci portano proprio verso l’infelicità e le malattie. E principio di causa-effetto e principio di scopo non possono coesistere con pari efficacia: l’uno deve per forza subordinarsi all’altro. Così, se tu credi che la verità stia nel principio causale è inevitabile che qualsiasi scopo tu possa proporti, esso debba spiegarsi sempre come l’effetto, magari inconsapevole, di un qualche avvenimento passato; mentre se ritieni che a decidere tutto siano il presente e il futuro, il principio di causa-effetto cessa di essere la legge a cui i viventi sono fatalmente sottoposti, dato che nessuna causa è determinante se non quando tu decidi che lo diventi.
E che in realtà sia sempre il principio finale a prevalere, è dimostrato dal fatto stesso che
– tu abbia la possibilità di scegliere tra queste due opzioni; e che
– tutta la tua esistenza e il modo in cui va il mondo ti appaiano completamente diversi, a seconda che tu scelga la prima o la seconda; e che
– qualunque sia la scelta, non ci metterai molto a intuire per quali ragioni, per quali tuoi scopi tu l’abbia fatta.
D’altra parte, né Machiavelli, e nemmeno Husserl, o Sartre (che sostennero anch’essi il primato del fine, l’intenzionalità d’ogni atto cosciente) sembrano esser stati al corrente del fatto che Gesù la pensasse proprio come loro: tutto ciò che i Vangeli insegnano sull’onnipotenza del CHIEDERE a Dio implica infatti il predominio del presente e del futuro su tutte le possibili cause. Nel Vangelo di Giovanni la questione della causalità è affrontata in modo sistematico, in due episodi: prima di sanare un paralitico, Gesù gli domanda: «Ma tu vuoi guarire?» (Giovanni 5, 6), mostrando in tal modo che nessuna forza provieniente dal passato può di per sé limitare la nostra energia; e quando i discepoli chiedono perché un uomo sia nato cieco, risponde che «è perché in lui si manifesti il potere d’azione di Dio» (Giovanni 9,3), ovverosia che quel tale è malato perché adesso lo si guarisca: anche qui è il fine che conta – tanto più, quanto più la mente riesce a liberarsi dal pensiero causale come da un limite superstizioso, da un tabù.
Ed è ben comprensibile che il principio di fine abbia trovato posto in un testo tanto rivoluzionario com’è appunto il Vangelo: il modo di pensare finalistico apre davvero prospettive enormi, in ogni campo sia pratico che teorico. Tutto il tuo agire cambia, d’ora in avanti, se, come in quella risposta di Gesù, tu capovolgi i tuoi «perché?» in modo che guardino verso il futuro, invece che verso il passato.
La medicina, la psicologia cambiano, se di una malattia o di una nevrosi indaghi lo scopo più che l’origine: e ti accorgi che la malattia o la nevrosi sono sempre il modo di raggiungere uno scopo che non avevi osato confessare a te stesso, e che, una volta individuato, può sia essere raggiunto in altro modo, sia venire riconsiderato, e cambiato, se lo vuoi.
Cambia, con il pensiero finalistico, ogni tipo di ricerca: una psicologia della scoperta scientifica, se esistesse una disciplina del genere, permetterebbe di stabilire quanto il fine che uno scienziato veramente si propone determini sia la portata di ciò che egli può scoprire, sia – necessariamente – la sua capacità di distogliersi dalle cause passate che limitano la sua visuale.
Anche l’immagine della realtà cambia, e diventa più profonda, più sorprendente, più avventurosa (come intuì Jung negli anni Cinquanta, nei suoi scritti sui nessi a-causali, o «sincronicità», o coincidenze): a qualunque argomento lo si applichi, il pensiero finalistico diventa immediatamente un pensiero filosofico, che indaga sia la capacità che l’uomo ha di conoscere, sia i fini della conoscenza stessa. Se intendi il «perché?» come un sinonimo di «a che scopo?», non solo puoi ma ti viene voglia di domandarti di qualsiasi cosa «Perché questo c’è? Perché è così?», e di qualsiasi avvenimento «Perché, a che scopo succede?»; e subito e inevitabilmente passi al «perché, a che scopo voglio saperlo, e prima non me l’ero mai chiesto?» e al «perché, a che scopo, per non vedere cosa, per preservare cosa, gli altri non si fanno domande del genere?».
E ti ritrovi d’un tratto nel bel mezzo di un esercizio di libertà.
Certo, è altrettanto inevitabile che queste successioni di «perché?» anassagoriani finiscano per mettere a repentaglio, ai tuoi occhi, il significato di numerose istituzioni – che appunto perché formatesi in passato, hanno invece tutto da guadagnare nel propugnare il pensiero causale. In compenso, quanto più ci distanzia dal pensiero causale, tanto più accessibile diviene a ciascun individuo e in qualsiasi istante della giornata l’ALDILÀ, che è una dimensione in cui (com’è evidente fin dal suo nome di Aldilà) possono valere soltanto i fini, e di cui le cause possono soltanto rendere più difficoltosa la percezione.
Mi è infatti capitato spesso di sentirmi chiedere, durante le mie conferenze: «Ma se mi hanno sempre detto che non posso arrivare a percepire l’Aldilà, perché ora potrei?» e anche: «Se nessuno dice mai queste cose, perché lei le dice?». Ed è molto bello, perché chi pone queste domande si trova proprio sul confine (se ne accorga o no) tra pensiero causale e pensiero finalistico. Se provassi a replicare in termini causali, ci si impantenerebbe di certo tra complicate interpretazioni del passato; invece è sufficiente rispondere: «Ma appunto per questo!», il che è pensiero finalistico. Ed è come se negli occhi di chi aveva domandato, si accendesse improvvisamente una luce: «Eh già…» E tutto ciò che quella luce illumina, è nuovo.
CENSURE, vedi MEMORIA.
CERCARE, TROVARE, STUPIRSI. Questi tre concetti basilari della SAPIENZA si trovano magnificamente connessi all’inizio del Vangelo gnostico di Tomaso (II sec. a.C.):
Chi cerca non smetta di cercare finché non avrà trovato; quando avrà trovato, si stupirà; quando si sarà stupito, sarà turbato e allora sarà re su tutto.
Raccomando questo loghion alla riflessione. Da notare, in particolar modo, due cose:
– innanzitutto, il fatto che se non ti stupisci, vuol dire che non hai ancora trovato; e conviene dunque diffidare, quando ci sembra di aver trovato qualcosa che confermi nostre convinzioni: quello non è un trovare; e
– il dover essere in cerca, per poter trovare.
L’essere in cerca è uno dei grandi vettori di trasformazione in ogni aspetto della vita. Tutto è diverso, se uscendo per una passeggiata si sta cercando qualcosa o no. I sensi sono più desti, il mondo è più reale, più pieno, ci si ACCORGE – e tanto più ci si accorge, quanto più grande è ciò che si ha il coraggio di cercare.
Quanto all’essere «re su tutto», si veda la voce ENERGIA.
CHAKRA. Da qualche tempo i sette chakra («ruote» o «vortici» energetici dell’essere umano) sono fortunatamente un concetto risaputo in Occidente: di grande utilità è infatti la sintesi, che i chakra istituiscono, tra il funzionamento del corpo e il comportamento della persona, tra organi e talenti, tra traumi psicologici e malattie, facendo corrispondere a ciascuna area del corpo un ambito delle potenzialità psico-spirituali dell’individuo. Purtroppo pesano, sull’interpretazione occidentale dei chakra, alcuni elementi di CONCRETISMO e vari preconcetti, che ne appannano il significato in maniera talvolta sorprendente. Per esempio:
– Del Settimo chakra si ritiene che sia situato poco sopra la testa, come una piccola aureola: in realtà, quella sua collocazione è SIMBOLICA, e sta a significare che l’energia vitale trasmessa dal Primo chakra proviene dalla nostra connessione con un Aldilà «più alto» di ciò che chiamiamo io.
– Del Sesto chakra (corrispondente alla parte superiore del capo) si ritiene che sia la sede dell’intelligenza, perché lì c’è il cervello. Ma che noi pensiamo con il cervello, è un’idea invalsa nei primi secoli cristiani, quando le membra e gli organi dagli occhi in giù cominciavano a creare problemi d’ordine morale: talmente forte era il rifiuto e la fobia della sessualità, che parve indispensabile porre la sede del pensiero dentro la scatola cranica – appunto perché questa è la parte adoperata di meno nell’attività sessuale. Prima d’allora risultava invece che mens sana in corpore sano: cioè che la mente si trovi in tutto quanto il corpo, e che non vi sia malattia fisica che non esprima anche una malattia dell’intelligenza. Quanto all’autentica funzione del Sesto Chakra, è piuttosto quella dell’orientamento in senso lato – nello spazio, nel tempo, e in ogni possibile situazione, – il che non coincide certo con tutta quanta l’attività dell’intelligenza, ma solo con una sua specializzazione.
– Del Quinto chakra (corrispondente alla zona tra il naso e le clavicole) si ritiene che sia il centro della comunicazione, perché lì ci sono orecchie e bocca. Come se noi non comunicassimo anche e molto di più con lo sguardo, i gesti, l’andatura, i pensieri, i sentimenti! Il Quinto chakra è bensì la sede della nostra attenzione, della capacità di mettere a fuoco, di guardare in faccia alla realtà: non per nulla, da sempre, chi legge tiene il testo a minore distanza dalla gola che non dagli occhi – altrimenti le scrivanie dell’umanità sarebbero state verticali, e non orizzontali o inclinate.
– Del Quarto chakra (dalla base del collo allo sterno) si ritiene che sia la sede degli affetti, per la ben nota associazione «cuore-amore». Ma, di nuovo, i nostri affetti si manifestano non soltanto con variazioni del battito cardiaco, bensì con quelle della pressione del sangue in tutte le membra del corpo. E il Quarto Chakra è bensì la sede del coraggio (parola che non per nulla deriva da «cuore») e in particolar modo del coraggio personale, assai più impegnativo del coraggio altruistico.
– Del Terzo Chakra (dalla base dello sterno all’ombelico) si ritiene che sia la sede della capacità di autoaffermazione, della voglia di potere, e che rivesta dunque un ruolo primario nella carriera, e in ogni altra situazione in cui tutto dipenda dall’approvazione ricevuta dagli altri e in particolar modo dai superiori. Al contrario: il Terzo Chakra è la sede della forza di star soli, di sapersi unici, non uniformabili agli altri – e da una carenza d’autonomia, dalla paura dell’isolamento dipendono appunto tutte le malattie di quest’area del corpo. Perfino la banale pancetta cresce, con l’età, di pari passo alla paura di sentirsi messi da parte.
– Del Secondo chakra (dall’ombelico alle anche) si ritiene che sia la sede della sessualità, del desiderio. Valga per questo ciò che ho già detto riguardo al Sesto chakra: solo in quei primi secoli cristiani si volle pensare che la sessualità di un individuo potesse essere confinata a ciò che stava sotto alla famigerata foglia di fico – invece di accettare l’idea che essa pulsasse non soltanto in ogni parte del corpo, ma anche in ogni moto dell’animo. Il Secondo chakra è bensì la sede del nostro senso della libertà, dell’«io voglio-io non voglio», nonché dell’intuizione, e della rivelazione (che della libertà non possono assolutamente fare a meno), come ben testimonia il ruolo che ha la Vergine Maria, ipostasi appunto del Secondo chakra, nella più alta teologia cristiana.
– Del Primo chakra si ritiene che sia nel perineo, e che presieda alla ricezione delle «energie della terra», idea questa un po’ vaga. In realtà, il Primo chakra è la sede del nostro equilibrio in ogni senso: sia fisico, sia mentale, sia economico (il «bilancio» tra l’impegnarsi in qualcosa e il ricevere le giuste ricompense) e solo simbolicamente viene situato nel perineo, perché quest’ultimo è il punto del torso più vicino a entrambe le gambe e sta all’equilibrio d’un corpo in piedi proprio come l’ago della bilancia sta ai suoi due piatti.
A quest’altro modo di interpretare i sette chakra coordino il tipi di TRAUMI da cui ciascuno di essi può ricevere danno, e che vanno dunque considerati come ragioni di malattie:
– il Primo chakra viene danneggiato da delusioni, disonestà, ingiustizie, sia subite, sia commesse, sia anche viste – nel caso di nature particolarmente sensibili, come i bambini;
– il Secondo chakra viene danneggiato da quelle che nel linguaggio corrente si chiamano «castrazioni»;
– il Terzo chakra, dai traumi del tipo «non dico quello che voglio, altrimenti loro non mi vorranno più bene»;
– il Quarto chakra, da tradimenti e abbandoni, sia subiti, sia attuati (inclusa quella particolare forma di tradimento di se stessi che consiste nel non abbandonare qualcuno con il quale ogni legame si sia esaurito);
– il Quinto chakra viene danneggiato dai traumi connessi con il sentirsi esclusi (per esempio durante le liti tra genitori, di cui al bambino non vengano spiegati i motivi) e così pure con l’autoescludersi, con il mentire, il fingere, il non voler aprire gli occhi su qualcuno altro o su se stessi;
– il Sesto chakra, viene danneggiato dai traumi connessi con il «non sentirsi all’altezza» (dalle bocciature alle separazioni);
– il Settimo chakra, dai traumi connessi con il rapporto con il proprio territorio, sia in senso proprio (un trasloco in età infantile, un terremoto, ecc.) sia in senso lato (gli svenimenti, l’improvvisa morte di una persona amica ecc.): come un sommovimento del terreno può far crollare la cupola di una chiesa, allo stesso modo questi traumi della nostra «geologia» personale possono facilmente dissestare la nostra connessione con ciò che vi è «più in alto», e alterare il flusso d’energia vitale che il Settimo chakra ci trasmette.
Queste caratteristiche dei chakra tornano molto utili nelle conversazioni con i MAESTRI, come criterio sistematico d’autoanalisi. Quando per esempio si ha a che fare con un problema di difficile soluzione, con un blocco, o con una malattia, è dunque bene domandare, nella Stanza tonda: «Quali miei chakra non funzionano a dovere, in questa situazione, e perché?». I Maestri indicano facilmente (se si ha il coraggio di ascoltarli) quale tipo di trauma ha causato i danni, e aiutano a ricordare come e quando avvenne, indicando addirittura la data. Dal trauma si può poi risalire all’intenzione, al desiderio che quella volta non avevamo osato sostenere in noi, e che avevamo preferito far arenare su un contrattempo più o meno grave, appositamente trasformato da noi stessi in un trauma.
E a quel punto diviene solo questione di tempo, perché torni ad agire quell’energia che con il trauma si era bloccata, ed era divenuta malattia o blocco. Solitamente i Maestri accelerano questa reintegrazione sia tornando più e più volte sull’argomento, durante le conversazioni, sia anche proponendo semplici esercizi di meditazione, mudras, o hastas (cioè mudra da pronunciarsi mantenendo una determinata posizione). Ne parlo in dettaglio ne Il mondo invisibile.
CHIEDERE. «Chiedete e vi sarà dato», raccomandano i Vangeli: cioè, se non chiedete non vi sarà dato nulla. Occorre il CORAGGIO di chiedere, e non è da tutti: chiedere significa infatti accorgerci che ci manca qualcosa, che in qualcosa non siamo ancora riusciti (desiderare, in latino, significava appunto «non disporre ancora di astri – sidera – favorevoli a qualche nostro scopo») e che la vita come la stiamo vivendo ora non ci basta; non conosco molte persone capaci di ammettere di trovarsi in una situazione del genere e di spiegarsi chiaramente perché, così da poter appunto individuare, chiedere e ottenere ciò che davvero potrebbe migliorarla.
Alcuni di quelli che «stanno bene così come stanno» adducono ragioni religiose o moralistiche, a giustificazione del proprio non-chiedere: per esempio, «bisogna accontentarsi di quel che si ha», «chiedere è da egoisti», ecc. In tal modo, tuttavia, non fanno che confessare il proprio egoismo: in primo luogo, perché escludono stranamente che si possa chiedere non per proprio immediato vantaggio ma per il bene altrui; in secondo luogo, perché nulla è più egoista del sentirsi soddisfatti del presente in un mondo tanto orribile e ingiusto come quello in cui viviamo. Viceversa, si ricordi: «Beato chi ha fame e sete di giustizia… E guai a voi che ora siete sazi» (Luca 6,21.25).
Per chiedere è inoltre necessaria una considerevole dose di immaginazione e di sincerità – qualità queste di cui un egoista è solitamente sprovvisto.
Raccomando in proposito il seguente passo di Giacomo (II sec. d.C.):
Da che cosa derivano i conflitti che ci sono in voi? Non vengono forse dai desideri che combattono gli uni contro gli altri, nel chiuso dei vostri corpi? Voi bramate di possedere, ma non ne siete capaci: ed è allora che vi viene voglia di uccidere; invidiate e non siete capaci di ottenere quel che invidiate: ed è allora che sorgono i conflitti. Ma voi non avete perché non chiedete; e se chiedete e non ottenete, è perché chiedete male.
Lettera di Giacomo, 4,1
Da notare che per «chiedere male» non si intende affatto chiedere l’impossibile: anzi, chiedere di veder realizzato un nostro autentico desiderio che ci sembra del tutto impossibile è non soltanto una splendida avventura spirituale e pratica al tempo stesso, ma sembra esser stato addirittura la regola per Gesù, il quale esortava a chiedere appunto cose irreali – come far sì che un albero o un monte si spostassero – proprio per verificare di persona che «ciò che è impossibile per gli uomini, è possibile con Dio» (Luca 18,27).
Per sviluppare le facoltà necessarie al chiedere, consiglio in alcuni miei libri di sperimentare la «tecnica dei 101 desideri», un esercizio di meditazione orientale che trovai accennato nel volume The Aladdin Factor di Jack Canfield (Chicago 1995) e che ho poi sviluppato per mio conto. È una procedura molto semplice da spiegare, ma che richiede pazienza e notevole CORAGGIO per venire attuata. Si tratta di scrivere dapprima centocinquanta desideri che rispettino le seguenti regole:
1) la formula giusta è «Io voglio…»;
2) non scrivere né la parola «non» né alcuna negazione (evitare, per esempio, le parole «intatto» o «incolume», che sono negazioni);
3) ogni desiderio può avere al massimo 14 parole, cioè non può durare più di una singola emissione di fiato (se lo si scrive in italiano, s’intende; in inglese o francese avrebbe più parole, in russo o in tedesco meno);
4) vanno chiesti soltanto obiettivi, e non i mezzi per raggiungerli (cioè non si possono chiedere SOLDI, in alcuna forma);
5) vanno evitati i paragoni: per esempio «voglio essere famosa come la tale»;
6) vanno esclusi i desideri seriali: per esempio la serie «voglio un appartamento a Berlino», «voglio un appartamento a Madrid», «voglio un appartamento a Parigi» ecc.;
7) vanno scritti solo desideri il cui esaudimento sia precisamente verificabile – e dunque non desideri del tipo «voglio essere felice» o «voglio essere molto ricco» (felice in che senso? Molto ricco quanto?);
8) vanno evitati diminutivi o vezzeggiativi: ciascun desiderio deve essere descritto nella forma più oggettiva, più netta possibile;
9) non si possono esprimere desideri per conto altrui: troppo facile! Se si vuol giovare ad altri, occorre assumersi la responsabilità e le spese energetiche del giovamento: per esempio, non «Io voglio che mio zio torni a essere sano» ma «Io voglio fare in modo che mio zio torni a essere sano» (nel primo caso, si tratterebbe infatti non di un desiderio ma di un comando, a cui il suddetto zio dovrà obbedire);
10) è bene evitare di chiedere storie d’amore o di sesso con persone precise, o legami eterni con qualcuno – anche perché ci si potrebbe pentire, poi, d’averlo chiesto.
Una volta ultimati i centocinquanta desideri – operazione che solitamente richiede diversi mesi – ne vanno scelti centouno: li si trascrive su un apposito quaderno, li si rilegge una volta al giorno per un anno intero e, quando uno di essi si realizza, lo si sostituisce con uno dei quarantanove rimasti sul quaderno di brutta, o con un altro desiderio che si sia riusciti a formulare nel frattempo.
Il risultato di questa tecnica è davvero prodigioso, sia per il numero di desideri che si realizzeranno nell’arco del primo anno (e inevitabilmente si rimpiangerà di non aver chiesto cose più audaci), sia per le trasformazioni che si producono nell’animo e nel rapporto con la realtà già durante l’iniziale compilazione dei centocinquanta desideri. Si destano infatti emozioni di cui avevamo perduto il ricordo: antiche e vivaci curiosità, antichi e magnifici sogni, talenti, speranze; si alimenta una straordinaria fiducia nel mondo e nell’universo; si ritrova il gusto di camminare per strada domandandosi «Mi piace questo? E quest’altro? Lo vorrei per me? Ha un futuro per me?» proprio come lo potrebbe pensare un bambino. Tutto ciò che ci circonda comincia ad assomigliare a una promessa di felicità, che chiede di essere considerata e accolta. Di questa tecnica ho spiegato sia i dettagli sia i fondamenti ne Il mondo invisibile.
CHIESA, vedi RELIGIONI.
CIELO, vedi ALDILÀ.
CONCRETISMO. È quel modo di pensare, i cui processi e prodotti si mantengono sempre in stretto rapporto con i dati forniti dai nostri cinque sensi. Va dal credere che un Angelo debba essere biondo e alato solo perché lo si è visto spesso raffigurato così, al valutare l’importanza di qualsiasi idea, ipotesi o argomento in base a criteri basati su fatti e cifre di cui si è udito parlare. Gravi sono i danni che ne derivano.
Da un punto di vista psicologico, il concretismo è infatti uno squilibrio: è indice di una preponderanza della sensazione, dell’elemento fisiologico, sulle altre FUNZIONI DELL’IO. E: «Non di solo pane vive l’uomo» avvertono, proprio a questo riguardo, la Torah e i Vangeli. Il concretista, sopravvalutando i dati esteriori, finisce per dipendere da essi in modo quasi superstizioso, spesso ossessivo – proprio perché sopravvalutandoli trascura, reprime altre sue funzioni e facoltà, e inevitabilmente le proietta sui dati e sui fatti stessi, attribuendo a essi una volontà e un potere che, in realtà, sono soltanto dentro di lui. Così avveniva un tempo per gli idoli, e per le immagini sacre e miracolose; il che tuttavia non significa – come molti psicologi e antropologi danno invece per scontato – che il concretismo sia caratteristico dei primitivi: a me risulta bensì che i nostri contemporanei siano assai più concretisti di quanto lo fossero, poniamo, gli antichi egizi ed ebrei.
Tipico dell’occidentale contemporaneo è infatti figurarsi che l’Aldilà sia lontanissimo; che Dio sia un essere di sesso maschile; o che per conversare con gli Spiriti guida sia necessario udirne le voci – senza che perciò l’occidentale stesso si ritenga in alcun modo un primitivo: anzi, considera piuttosto dei primitivi quegli antichi di cui lui crede che affermassero cose del genere, e non lo sfiora il dubbio che essi intendessero, invece, tutt’altro.
Ciò si deve al fatto che da un paio di secoli (salvo un breve periodo nella fin de siècle) si sia molto appannata nella mentalità occidentale l’idea di SIMBOLO – l’idea, cioè, che la raffigurazione di una qualsiasi realtà dello spirito sia non un ritratto di essa, ma una descrizione da interpretare. Ed è come chi vedendo su un cartello stradale «VENEZIA 160 km» non facesse caso all’indicazione della distanza, e si lagnasse di non vedere gondole e calli nei dintorni. È sorprendente constatare quanta teologia, e quanta psicologia anche, si comporti oggi esattamente in questo modo – e finisca naturalmente in interrogativi senza via d’uscita, per esempio: «Se gli Angeli sono accanto a noi per aiutarci, perché non hanno aiutato tanta gente nel pericolo?».
Ottimo, a questo riguardo, è il precetto biblico che esclude la possibilità di raffigurare aspetti divini (…); purtroppo venne inteso, da ebrei e islamici, come una proibizione dell’arte sacra, cioè come un tabù culturale: ma di per sé significava che il concretismo, il voler imprigionare in immagini concrete le realtà spirituali è solamente un modo di smarrirsi, nei mondi che la SAPIENZA va esplorando da sempre.
CONFERME. A mio parere, «come in cielo così in terra» significa che ogni conquista o scoperta compiuta nell’Aldilà deve corrispondere alla scoperta e al superamento di qualche ostacolo nell’Aldiquà. Ciò vale anche per le conversazioni con i MAESTRI, che divengono semplici fughe dalla realtà se non portano, poi, a risultati concreti, ad autentici cambiamenti in meglio nella nostra vita quotidiana. Perché possano portare a ciò, occorrono due condizioni:
– che le informazioni ricevute dai Maestri siano ben chiare, e
– che esse provengano davvero dai Maestri, e non dal nostro io piccolo (altrimenti non vi sarebbe alcun bisogno di andarle a cercare nell’Aldilà).
La prima condizione è molto semplice da attuare: è sufficiente porre domande precise, ed esigere spiegazioni ogni volta che le risposte risultino oscure o contraddittorie. La seconda condizione richiede invece criteri di verifica fattuali, e finora ne ho elaborati tre sicuri, da impiegarsi tutti durante le conversazioni stesse.
– La velocità di SCRITTURA: ho notato che quando si è davvero «in contatto» con i Maestri, la mano scrive con una particolare velocità costante, tra le 35 e le 40 parole al minuto – dunque né affrettata, né lenta. Quando invece, durante le conversazioni, si scrive come siamo soliti fare nell’Aldiquà, cioè ora accelerando ora fermandoci a riflettere, non si è ancora o non si è più «in contatto» ma si sta semplicemente prendendo nota dei propri pensieri o fantasie.
– Lo stile: quando si è «in contatto», tutto quel che si scrive è netto, senza parole superflue; si ottengono così, di getto, pagine in cui ogni frase è concisa e importante, come nei grandi classici o nelle belle canzoni. Se invece lo stile è prolisso, vuol dire che è di nuovo l’io piccolo ad almanaccare.
– La «conferma», come la chiamano i miei Maestri. È una vera e propria tecnica di controllo, alla quale ricorro e insegno a ricorrere da una decina d’anni: consiste nel produrre coincidenze significative semplicemente chiedendole. Tutte le volte che sorgano dubbi su qualche informazione che si sta ricevendo da un Maestro (e ciò capita ogni cinque minuti), gli si chieda di indicare in un libro molto voluminoso una o più righe che si riferiscano a ciò di cui sta parlando. Io adopero a tale scopo la Bibbia – anche perché cambia argomento quasi ad ogni versetto, e offre quindi una gamma di argomenti vastissima. In risposta alle mie richieste di «conferma», i miei Maestri mi indicano un numero di pagina, e alcune righe di essa, contando dal basso in alto: per esempio «pagina 635, righe dalla diciottesima alla ventesima dal basso». Se il passo così indicato non corrisponde esattamente a ciò di cui i Maestri stavano parlando, significa che il «contatto» si è perduto: e in tal caso va ripristinato scoprendo che cosa l’ha fatto perdere (RESISTENZE, ANSIA, BLACK-OUT ecc.). Per esempio, se si sta parlando di alimentazione, potrà capitare un passo come Daniele 1,14, in cui si narra appunto di una celebre dieta; se si sta parlando di denaro, potrà capitare la parabola dei talenti, ecc.
Questa tecnica della conferma è particolarmente impressionante le prime volte, ma ci si abitua sempre presto al meraviglioso. Consiglio di farsi indicare le righe contandole dal basso, perché è un mezzo per impedire la memorizzazione dei passi indicati: sarebbe più comodo e ovvio farsi dire il numero del versetto, ma a lungo andare certi versetti rimarrebbero di certo in mente, e ciò interferirebbe con l’attendibilità della «conferma» – per esempio, se mi ricordo che alla fine del capitolo 20 di Giovanni c’è la frase «Queste cose sono state scritte perché voi crediate», e i Maestri mi indicassero proprio quel versetto a conferma di qualche loro discorso, non potrei in nessun modo liberarmi dalla sensazione d’essere stato io stesso a darmi l’indicazione. Rammentarsi, invece, le righe in cui si trovano determinati passi in un libro di milleduecento pagine, è impresa difficile anche a un livello di coscienza ordinario: figurarsi durante le conversazioni nella STANZA TONDA, quando si ha la decisa prevalenza dell’emisfero destro, al quale i numeri sono tanto ostici.
Quanto a ciò che permette ai Maestri di indicare tanto facilmente le righe opportune, non si tratta certamente di una maggior ampiezza e precisione della loro memoria – dato che la MEMORIA non trova posto nell’Aldilà, dove tutto è presente. Il loro vantaggio consiste bensì nell’atemporalità: proprio perché per i Maestri tutto è presente (anche il futuro), possono sapere in quale punto esatto della Bibbia avrei trovato ciò che chiedo, se l’avessi sfogliata attentamente, magari per ore. Perciò, se trovo quel passo in un secondo, non possono essere stati che loro a indicarmelo – e ciò significa che sono «in contatto», e la «conferma» vale.
CONNESSIONE CON L’ALDILÀ, vedi IO.
CONTENENZA. È un termine dantesco, adoperato nella Commedia per la descrizione della Trinità:
parvermi tre giri
di tre colori e d'una contenenza
Paradiso XXXIII,116-117
Ed è un’adeguata traduzione italiana di containment, concetto sul quale giustamente insistono vari psicologi statunitensi (Wilkinson, Gaitskill ecc.). Containment è la capacità di riconoscere e comprendere emozioni e sentimenti che sorgono in noi a dispetto dell’orientamento generale della nostra ATTENZIONE, senza temere che tale orientamento generale ne sia sminuito o appaia illusorio. Per esempio: se la tua contenenza è sufficientemente ampia, puoi accorgerti di avere improvvisi impulsi d’odio verso una persona che ami molto, senza che questo amore cessi di essere tale; oppure improvvise fantasie distruttive nei riguardi di un progetto a cui tieni, senza che quel progetto cessi di essere valido e importante per te. Viceversa, quanto più ti rifiuti di riconoscere tali elementi contradditori, tanto più li PROIETTI su altre persone, o sulle circostanze, e ti senti avversato dalle une o dalle altre: è facile, allora, assumere il ruolo di «vittima», quando il contenuto della proiezione è un impulso distruttivo; oppure quello del «giusto rattristato», quando il contenuto è un sentimento vile. Ed entrambi questi ruoli provocano guai.
I «giusti rattristati» (ne sono un esempio i farisei descritti nei Vangeli) esercitano un pessimo influsso su chi li frequenta, perché le loro proiezioni e il loro malumore sono contagiosi (v. VAMPIRI).
Le «vittime», in genere, procurano del male soprattutto a se stesse, con la loro irresistibile tendenza a forzare le circostanze in modo da rendere le loro proiezioni il più possibile verosimili; ma capita che facciano anche di peggio, quando si riuniscono in gruppi numerosi: scatenano persecuzioni contro una qualsiasi minoranza di cui si siano appunto sentiti «vittime» (si pensi alla persecuzione contro gli ebrei «lubrici» e «impuri», da parte dei tedeschi, in un periodo di contenenza minima, di assurdo rigore morale, qual era appunto quello nazista) e al tempo stesso determinano l’ascesa di leader di cui tali persecuzioni hanno bisogno per potersi scatenare (anche l’ascesa d’un leader è soprattutto un fenomeno proiettivo: chi non sa riconoscere e accettare i propri sentimenti aggressivi o «impuri», non sa riconoscere e accettare neppure i propri pregi e la fierezza che gli suscitano, e proietta gli uni e l’altra su qualcun altro, e lo venera, e se ne sente suddito).
Nelle psicoterapie, la contenenza del paziente viene ampliata grazie al rapporto con il terapeuta: insieme, i due arrivano appunto a contenere ciò che il paziente da solo non avrebbe osato ammettere; dopodiché il paziente deve essere aiutato a interiorizzare quella più ampia contenenza, e a esserne all’altezza.
Nelle conversazioni con i MAESTRI avviene esattamente lo stesso, solo senza l’intervento di un’altra persona: tutto ciò che l’io arriva a scoprire dell’Aldilà accresce la sua contenenza, sia per ciò che riguarda i suoi lati oscuri, sia per ciò che riguarda quelle doti che non vuol ammettere di avere. Come usano dire i Miei: «Noi siamo te; ma tu sei tu in un mondo piccolo, noi siamo te in un mondo più grande». E i Maestri, se glielo si chiede, aiutano poi a concretare quella maggiore contenenza nella vita quotidiana, nei rapporti col prossimo, nel coraggio di CHIEDERE, di VOLERE.
CORAGGIO. Viene dal latino cor, «cuore». E al pari di molte altre parole che finiscono per –aggio, indica:
– un agire che abbia un preciso scopo (come in «atterraggio» è il giungere a terra; in «ancoraggio» è l’ancorarsi ecc.);
– l’ampiezza di qualcosa (come in «voltaggio», «amperaggio», «pescaggio» ecc.).
Coraggio, perciò, vuol dire fare cose che rivelino (a te innanzitutto) il tuo cuore, cioè la tua autenticità; e scoprire in tal modo quanto è grande quel che in te è autenticamente tuo. Mentre il contrario del coraggio, la codardia, è l’andare a coda bassa, accodandosi ad ALTRI.
In tal senso letterale, il coraggio è ciò che, consapevolmente o inconsapevolmente, cerca chiunque sia attratto dalla SAPIENZA. Perciò l’ultima fase dell’INIZIAZIONE si chiama da millenni l’«opera al rosso», o rubedo: è il momento in cui, nella personalità nuova dell’iniziato, il cuore comincia a battere e il sangue a pulsare. Bisogna «collocare il cuore al suo posto», dicevano i sacerdoti egizi; e saper dire «sì» quando per te è sì, e «no» quando per te è no, diceva Gesù nei Vangeli (Matteo 5,37). È una perfetta definizione della salute psichica, dell’armonia interiore. E un nuovo modo di agire ne è sempre la manifestazione: è infatti impossibile accorgersi del proprio cuore e lasciare tutto così com’è; caratteristica fondamentale del coraggio è il far nascere e il realizzare desideri; il coraggio fa CHIEDERE, e chi non chiede non ha ancora cuore. Altrettanto impossibile, poi, è che questo chiedere cessi, se non quando dal coraggio si retrocede a quel che si era prima di averlo conquistato.
CORPO. Indubbiamente la SAPIENZA, quando si comincia a cercarla e a trovarne un po’, viene avvertita dal corpo come una specie di malattia: si ha l’impressione che molto di ciò che piace al corpo non sia bene, e vada evitato – come quando qualche organo non funziona a dovere. Anche Gesù, prima di intraprendere la sua vita pubblica, si isola e digiuna a lungo.
Ma poi, narrano i Vangeli, «ebbe fame» (Matteo 4,2): il digiuno finisce, e ha inizio tutt’altro periodo, in cui né verso il proprio corpo né verso i corpi altrui Gesù mostra alcuna ripugnanza. Diventa «un mangione e un bevitore», come dicevano di lui i farisei, scandalizzati dal suo rifiuto dell’ascetismo (Luca 5,33); e si mette a guarire corpi, oltre che anime, e a insegnare terapie: tanto che non solo nessun suo discepolo ha mai problemi di salute, ma, secondo Marco, non può dirsi discepolo di Gesù chi non abbia imparato a «guarire i malati imponendo loro le mani» (Marco 16,18).
Questa evoluzione del rapporto tra spirito e corpo ha naturalmente una sua funzione esemplare, cioè una ragione ben precisa e valida per chiunque. Sia nella sua prima fase, autolesionista, sia nella seconda, festosa, in quel rapporto di Gesù con il corpo si esprime una specialissima esigenza di libertà dal «mondo degli ALTRI».
Nella prima fase, vi è il desiderio di liberarsi da ciò che il nostro corpo è diventato nel «mondo degli altri»: un servo, addestrato a obbedire, a tacere, e a rappresentare (sempre più, in Occidente, da duemila anni a questa parte) la componente bestiale, stupida di noi. Non dal corpo, ma da questa immagine del corpo vuole divincolarsi chi sta cominciando a scoprire il proprio CORAGGIO. E al tempo stesso, oscuramente, ha paura di tale liberazione: di ciò che potrebbe avvenire se le sue membra si accorgessero di quanta vitalità, di quanta vita le priva il mondo a cui fino a quel momento si era adeguato – «Che la mia mente sia più libera, non mi preoccupa più di tanto: potrà pensare di più, intuire cose… Ma se anche il mio corpo si libera, che farò? Che sarà dei miei legami, dei miei tabù, di tutto ciò che finora mi sono proibito o di cui non mi credevo capace?». E il digiuno serve anche a questo, nelle sue varie forme (dall’ascesi agli esercizi di temperanza, castità ecc.), durante il periodo di apprendistato alla sapienza.
Ma il corpo è sempre più saggio di quel che la mente non creda: e davvero, quando la sapienza cresce, «si ha fame». Molta fame, e in tutti i sensi: tanto quanto l’anima ha «fame e sete di giustizia» e di conoscenza, così il corpo comincia ad averne anche di calore umano, di sentimenti intensi, di gioia, di modi di impiegare quel perenne sovrappiù di ENERGIA che la sapienza rende disponibile all’io. Allora il corpo diventa, invece che un animale da disprezzare o da temere, una guida.
«Come in cielo così in terra»: non può esservi conquista spirituale che non comporti anche cambiamenti nella dimensione materiale, e nel senso di una sempre maggiore salute del corpo. «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»: non vi è ragione perché l’Io grande non riorienti e risolva anche i problemi economici. E non vi è bisogno del nostro corpo e dei corpi altrui, che non indichi limiti che si possono superare, rassegnazioni che possiamo scuoterci di dosso – dal bisogno di attività fisica (perché negare soddisfazioni e fierezza al corpo? perché ignorarne le potenzialità?) fino al bisogno di far star bene i corpi del maggior numero di persone possibile.
Se d’altra parte questa «fame» viene negata, e un corpo che va colmandosi di tanta energia continua a venire trascurato in nome di una supremazia della spiritualità sulla fisicità, le conseguenze sono sempre nefande; non vi è energia disponibile che non venga prima o poi utilizzata da qualcuno o qualcosa, e se non se ne incarica l’io, se ne impadroniranno altre istanze: forme nevrotiche, isteriche, depressive – quelle che gli antichi chiamavano spiriti bassi, entità, demoni ecc.
Come l’avarizia nei riguardi del proprio corpo possa alla fine determinare il crollo di chi si dedica troppo severamente alla spiritualità, è narrato nel mito di Orfeo, che divenuto maestro di anime si impose la castità: per caso si imbatté, un giorno, in un gruppo di baccanti furiose, che lo fecero a pezzi. Quelle baccanti erano, naturalmente, dentro di lui: Orfeo venne fatto esplodere dalle energie che tentava di comprimere.
COSCIENZA, vedi ATTENZIONE.
CREAZIONE, vedi ALBERO DELLA VITA e FARE.
CREDERE. Da circa diciotto secoli suppergiù, il verbo «credere» viene usato per indicare la capacità di lasciarsi attrarre da SIMBOLI, come da vere e proprie correnti d’energia – tanto più potenti quanto meno si sa dire che cosa precisamente rappresentino. Prima si preferiva usare, per tale capacità, verbi come «adorare», «venerare», «obbedire», ma il discredito gettato dal cristianesimo sui culti politeistici determinò lo spostamento semantico: si cominciò a dire «credere» perché c’erano simboli nuovi di cui avvertire la forza, e quella forza appariva non soltanto grande ma anche vicina, amica, amorevole, tale insomma da potersi «affidare» a essa (e «affidarsi» è il senso originario sia del greco pisteuein, sia del suo equivalente latino credere).
In seguito, quando cominciarono le grandi persecuzioni di eretici, invece che alla forza dei simboli si cominciò a credereaffidarsi sempre più all’autorità, al potere dei capi religiosi – e tale cambiamento ebbe, naturalmente, conseguenze immense. Da un lato, «credere» divenne un sinonimo di «sottomettersi», e tale fatto linguistico venne sancito addirittura ufficialmente (da Carlo V, verso la metà del ’500) con il principio cuius regio eius religio, cioè «la religione di un uomo sia quella della regione in cui è suddito». D’altro lato, il bisogno di «credere» divenne sempre più il bisogno di possedere verità precise in fatto di spiritualità, e non di cercarle – dato anche che a volerne cercare, ci si sarebbe facilmente allontanati dalla religio dei propri connazionali, e soprattutto dei propri capi, rischiando molti guai. Questa accezione del «credere» prevale tuttora, ed è appunto in base a essa che i «non-credenti» sono spesso definiti «liberi pensatori», cioè gente libera di pensare quel che vuole appunto perché non crede a quel modo.
Tutto ciò fa sembrare remoto e strano quel che del «credere» si legge nei Vangeli. Gesù, nei Vangeli, esclude infatti che sia utile credere a qualcuno («Nessuno di voi si faccia chiamare sacerdote… nessuno di voi si chiami maestro!» Matteo 23,8-10): che, cioè, si vogliano vedere simboli in persone che vogliono importi qualche verità, o convincerti di qualcosa. E raccomanda di credere soltanto in tre realtà interiori: nell’io (e non «in me», v. VERSIONI CONSUETE); in quel Padre infinito che è tutt’uno con l’io; e in ciò che è impossibile, purché lo si desideri (ogni volta che esorta ad aver fede che un miracolo si compia). Questi, secondo Gesù, sono simboli autentici, poiché davvero ti fanno superare quel che già conosci – anche l’io autentico è infatti ignoto agli uomini, tanto quanto il Padre divino. E «credere» diventa, in tal modo, un aprirsi alla scoperta, senza limiti, senza direttori di coscienza, senza dogmi.
Oggi è invece il contrario. I roghi certamente non sono più in uso, ma è come se ne fosse rimasta una memoria genetica. La cosiddetta «fede» è una barriera psicologica con la quale il credente impedisce a se stesso di domandarsi: «Cosa avverrebbe se invece di fidarmi delle mie autorità religiose mi fidassi di me? E se trovassi risposte migliori di quelle che mi dà la religione del mio popolo?». E quanto più essi premono, di là dalla barriera, tanto più il credere diventa un voler credere, assai ansioso, che può moltiplicarsi indefinitamente (credere di voler credere; voler credere di voler credere ecc.).
Il maggior vantaggio che ciò presenta per i credenti, è quello di dar loro occasione di una ginnastica intellettuale e filosofica, in un mondo in cui né l’intelletto né la filosofia sono considerati dai più come bisogni importanti. Il maggiore svantaggio sta invece nella scissione interiore che questo modo di «credere» produce inevitabilmente: il credente, infatti, si abitua a sorvegliare le proprie idee, a valutare quanto di esse corrisponda alla sua fede e quanto se ne discosti, il che lo conduce a due problemi gravi:
– innanzitutto, le sue idee perdono vigore, perché viene loro sottratta quella quantità di energia psichica che occorre per sorvegliarle;
– in secondo luogo, a forza di dedicare attenzione alle proprie idee invece che alle realtà a cui quelle idee possono riferirsi, il credente sviluppa particolari forme di egocentrismo e narcisismo.
La forma più acuta di tale egocentrismo e narcisismo spirituale si ha quando gli animi religiosi si convincono (e capita spesso) che dal loro credere dipenda ciò che essi definiscono «l’esistenza di Dio» e che dunque Dio stesso sia in qualche modo in loro potere – come se, cioè, la frase «io non credo in Dio» dovesse significare necessariamente «Dio non c’è». Senza dubbio, Dio non c’è per chi non ci crede – ovverosia, l’idea «Dio» non è un simbolo per chi non lo avverta come tale. Ma, come abbiamo visto, per gli animi religiosi «credere» è affidarsi a qualcun altro, è fidarsi di ciò che sentono dire da altri, e la loro frase «io credo in Dio» viene dunque a significare: «sono disposto a credere in questo Dio di cui tanti parlano, ma a patto che si comporti proprio così come i tanti dicono».
E ne consegue che:
– il «credere» diventa soprattutto una maniera di venerare quei tanti, ben più che il Dio in questione;
– il contenuto autentico d’una fede religiosa così intesa non può non erodersi, dato che quanto più un credente ritiene che Dio debba obbedire a lui e ad altri come lui, tanto meno quel suo Dio corrisponderà a ciò che la parola «Dio» sta a indicare; e infine che:
– le autorità religiose, nello sforzo di adeguare il più possibile Dio alle esigenze della massa dei credenti, finiscono spesso per tradire i fondamenti della loro religione: si pensi alla ripugnante violenza delle Crociate, alla caccia all streghe, al sostegno del Vaticano al fascismo, e a tanti altri casi in cui Dio venne presentato come protettore di oppressori festeggiati dai più, perché i più non si dimenticassero di Lui e non se ne cercassero un altro. Evidentemente, questi rischi del «credere» erano già ben chiari diciotto secoli fa, e i Vangeli tentarono di metterne in guardia; ma invano.
CRESCITA SPIRITUALE. Con il termine «crescita» si intende, di solito, il deprimente processo di trasformazione dei bambini in ADULTI. Elemento essenziale di tale processo è una duplice assimilazione: da un lato, lo sforzo di rendersi simili agli adulti, di lasciarsi inglobare, permeare dai loro modi di vivere; dall’altro, lo sforzo di adeguare alle categorie mentali della maggioranza adulta qualsiasi contenuto nuovo in cui ci si imbatta, e di valutare in base a quelle stesse categorie mentali i propri ricordi. Quando questa duplice assimilazione ha successo, quando cioè l’ex-bambino ha imparato a uniformarsi e a ignorare tutto ciò che gli adulti ignorano, si dice appunto che è cresciuto, maturo ecc.
Con il termine «crescita spirituale» io intendo invece il processo diametralmente opposto: la dissimilazione dell’individuo da ciò a cui si era adeguato e da cui si era lasciato inglobare, e la serie di scoperte che incominciano quando, invece di costringere i nuovi contenuti negli schemi già noti, pone in dubbio ciò che già sa di sapere e guarda al nuovo in modo nuovo. A questa crescita spirituale si riferisce la frase dei Vangeli: «Lascia tutto e seguimi», che io traduco «Lascia tutto e segui il tuo io» (v. VERSIONI CONSUETE). Qui Gesù esortava cioè ad abbandonare non tutti i propri beni materiali, bensì tutto, nel senso di tutto ciò che già conosci e a cui appartieni, e a dare inizio a una libera e coraggiosa scoperta del proprio Io.
Lo stesso significato hanno altri due famosi passi della Genesi: l’esortazione di Dio ad Abramo:
Vattene dal tuo paese, dalla tua patria
E dalla casa di tuo padre,
Verso il paese che l’Io ti indicherà.
L’Io sarà per te come un grande popolo
E ti benedirà, e renderà grande il tuo nome
E diventerai una benedizione.
Genesi 12, 1-2
E così pure, nel racconto della Creazione, l’esortazione di Elohiym:
Crescete e moltiplicatevi
Genesi 1,28
che non ha niente a che vedere con la riproduzione, e significa bensì: impara a crescere e a scoprire quanti sei, quante parti di te non conosci e quante sono le fasi evolutive a te accessibili, in ciò che tu chiami «io». Al riguardo, si veda anche EVOLUZIONE.