ACCORGERSI. Penso sia il verbo più importante, per chi voglia esplorare la SAPIENZA. Molti ritengono invece che contino di più i verbi CREDERE e CAPIRE. Ma è solo perché temono che l’accorgersi sia troppo semplice.
Lo è, infatti. La sua semplicità è tale (e talmente temibile) che, spesso, non ci accorgiamo neppure di sapere che cosa significhi accorgersi. In realtà, significa:
– notare qualcosa che prima non si era notato;
– cambiare idea, rendersi conto di aver avuto torto;
– percepire irresistibilmente la verità di qualcosa, dato che non ci si può accorgere di qualcosa che non sia vero; e
– fare tutto ciò autonomamente: nessuno, infatti, può obbligarti ad accorgerti di una qualunque cosa (mentre capita spesso che qualcuno riesca a farti credere qualcosa, o a farti capire qualcosa in un determinato modo).
Il che spiega perché Gesù parli spesso dell’accorgersi, nei Vangeli: quei quattro aspetti del verbo sono proprio le operazioni mentali che vengono richieste ai discepoli prima d’ogni altra, e in qualsiasi circostanza dell’esistenza. Ma per comprensibili motivi, ogni volta che nei Vangeli compare il verbo accorgersi (in greco, metanoein: letteralmente, «far giungere la tua mente più in là»), le versioni consuete lo traducono: «convertirsi», come se dovesse per forza significare il passaggio da una religione a un’altra, cioè da un modo di credere a un altro. Il che davvero non è.
Al contrario, chi si accorge smette di credere, cioè di fidarsi di quel che altri dicono – mentre solo chi non si è ancora accorto di una determinata cosa può credere che quella cosa sia vera, fidandosi di quel che ne sente dire da altri.
ADULTI. Con questo termine indico tutte le persone nelle quali, indipendentemente dalla loro età anagrafica, l’io è meno rilevante dei condizionamenti che hanno subito – come illustrato dalla Mappa a p. 11. Caratteristiche fondamentali degli adulti sono:
– l’identificarsi con il ruolo che rivestono nella famiglia e nella società (è veramente adulto, per esempio, chi dice: «io sono un ingegnere», e non «io adesso faccio l’ingegnere, per alcune ore al giorno»);
– il non accorgersi di ciò che non comprendono, o il credere che ciò che non comprendono abbia comunque una sua ragion d’essere che non tocca a loro scoprire; e di conseguenza,
– il domandarsi raramente «perché?»;
– il non prendere in considerazione possibilità che si discostino da ciò a cui sono stati abituati, e che vedono fare dagli ALTRI, dai MOLTI (nella mente degli adulti, pensieri e idee hanno la terribile tendenza a seguire percorsi obbligati, come i tram);
– l’atrofia dei desideri, cioè il volere non quello che veramente vogliono, ma soltanto quel che bisogna volere, perché anche gli altri o i molti lo vogliono;
– la quotidiana sensazione di avere sempre meno futuro da vivere: gli adulti la chiamano «paura della morte», o pensano che la paura della morte ne sia la conseguenza; in realtà, dietro a questa paura della morte si nasconde un forte e segretissimo desiderio di morire, che è la vera origine di quella sensazione di aver sempre meno futuro da vivere.
Tutto ciò rende gli adulti assai infelici, e invidiosi di chi adulto non è. Perciò buona parte di loro considera i bambini come esseri problematici, da far diventare adulti il più presto possibile – come se l’età adulta costituisse il vertice dell’evoluzione umana. Al contrario, proprio dal punto di vista dell’evoluzione gli adulti si sono rivelati, nella nostra epoca, gli esseri più arretrati e dannosi del pianeta: manca loro la principale qualità necessaria all’evoluzione stessa, cioè la capacità di adattarsi all’ambiente naturale (non sono stati gli adulti a distruggerlo, non riuscendo più a chiedersi «perché?» di tante cose?). Altrettanto arretrati essi risultano nei riguardi della crescita spirituale: non per nulla Mosè (Mes, o Mses) in egiziano significava «il Bambino», e nei Vangeli viene precisato che «se non diventerete come un BAMBINO, non entrerete nel Regno dei Cieli».
ALBERO DELLA VITA. È il ben noto schema, immaginato non si sa da chi né quando, attorno al quale vertono la maggior parte delle ricerche cabbalistiche. Con la sua forma allungata e le sue sfere somiglia un po’ all’abete natalizio (che molto probabilmente ne ha tratto origine); ma non è né volle mai raffigurare un albero in alcun senso: lo ‘ets khayym, come si dice in EBRAICO, è bensì la «Crescita di tutte le vite», e mostra – così dice la tradizione – le fasi che ogni io attraversa, a partire dall’attimo in cui la possibilità di essa sta emergendo dall’Uno-Infinito divino, e fino all’attimo in cui a quell’Uno-Infinito ritorna. Ecco qui questo sublime Gioco dell’Oca, in una raffigurazione tradizionale (la lieve inclinazione verso sinistra allude al fatto che l’Albero della Vita è spesso descritto come elicoidale):

Ne tratto spesso nei miei libri, perché ritengo sia uno schema fondamentale della psiche e della conoscenza umana, tanto quanto i punti cardinali lo sono per il nostro orientamento nello spazio. Non penso sia un caso se, quando in biologia si riuscì a organizzare un’immagine del DNA (in cui sono contenute le informazioni per la vita), ne risultò una struttura tanto simile a quella dello ‘ets khayyim:

E così pure le funzioni degli emisferi cerebrali, secondo la neurologia attuale:

Probabilmente gli antichi cabbalisti avevano «visto» bene. Avevano scoperto, cioè, che quanto più la mente indaga i fondamenti e l’origine di quel che essa sa al di là o al di qua del visibile, tanto più perviene a quello schema; e che la ragione per cui vi perviene, deve evidentemente essere la stessa per la quale quanto più tocchiamo qualcosa con una mano, tanto più sentiamo innanzitutto le cinque dita e il palmo della mano stessa. Ma di solito non ce ne accorgiamo. La nostra attenzione è focalizzata sull’oggetto toccato. Un gatto, un serpente, uno Spirito guida, se percepissero quel che percepiamo in quel toccare, sarebbero invece interessati soprattutto alle dita e al palmo: confrontando le nostre percezioni tattili con le loro, capirebbero molto di com’è il mondo per noi, e di come funzionano dunque i nostri pensieri, di come selezioniamo le nostre idee.
L’Albero della Vita è appunto la descrizione del nostro organo di conoscenza, della sua forma e del suo modo di dar forma – dal punto di vista di un qualcuno o di un qualcosa (realmente esistente o ipotetico, non importa) che conosca e dia forma in altri modi. E non riesco a immaginare nulla di più utile alla sapienza, alla psicologia, alla filosofia, dell’intento di fornire una tale descrizione.
Quanto al fatto che, per attuare tale intento, gli antichi cabbalisti avessero ritenuto necessario puntare l’organo della conoscenza verso l’impercepibile e il non-ancora-conoscibile, ciò scredita totalmente, oggi, le loro descrizioni agli occhi delle persone razionali – che ritengono l’ALDILÀ una questione di fede, incompatibile con la scienza. Ma questa è una banale sciocchezza. Solo i moderni credono ingenuamente che l’Aldilà debba essere qualcosa là fuori, chissà dove. In realtà, il nostro Aldilà, ciò che noi percepiamo e conosciamo meno di tutto è quel che in noi percepisce e conosce – così come la tua pupilla può vedere ogni genere di cose, ma non può vedere direttamente se stessa; e la tua mente può pensare ogni genere di cose, ma non se stessa nell’atto di pensare. E puntare il nostro organo di conoscenza direttamente sull’Aldilà equivale dunque a puntarlo direttamente sulle sue stesse dinamiche più profonde, più segrete.
Ciò fa apparire in una luce diversa anche l’idea tradizionale che nell’Albero della Vita sia narrato il tragitto dell’energia vitale, dell’anima, dal più remoto Aldilà fino al nostro Aldiqua, cioè al mondo materiale. Tale narrazione è e vuol essere un MITO: un servirsi cioè delle potenzialità del discorso mitico, che sono assai più ampie di quelle di qualsiasi discorso teorico. Di discorsi teorici sull’Albero della Vita sono pieni migliaia di trattati, e se ne potrebbero scrivere altrettanti senza riuscire a esaurire tutto ciò che la descrizione mitica dello ‘ets khayyim comunica a chi la legga con un poco di attenzione.
E il mito dell’Albero, in sostanza, è il seguente:
Quando sei emerso dall’Uno Infinito – molto, molto tempo prima di venire concepito, – tu hai ricevuto innanzitutto il dono della Volontà, nella prima Sephirah («sfera»), che è chiamata Kether, «la Corona»: lì hai imparato, cioè, che alla base di ogni attività del nostro io cosciente vi è un’intenzione, un VOLER percepire; e che, di conseguenza, tutto ciò che ti avviene obbedisce direttamente o indirettamente al tuo volere – poiché ti avviene e ti avverrà sempre e soltanto ciò che il tuo percepire, il tuo voler accorgerti permetterà che ti avvenga. Poi, nelle Sephiroth successive, ricevesti gli altri «doni» delle Gerarchie angeliche, i quali sono, nell’ordine:
Khokmah, la Sapienza illimitata, che è ciò che tu non sai di sapere, ed è tutto e più ancora di tutto: da questa sapienza attingerai quel che via via riuscirai a sapere di sapere nella tua vita, e che in realtà sarà sempre un ricordare ciò che vi è in Khokmah;
Binah, l’Intelligenza, che è la facoltà di capire e organizzare sia la realtà, sia le possibilità, e che precede anch’essa ogni apprendimento e addirittura ogni percezione (v. SOGGETTIVITÀ);
Da‘at, la Conoscenza (questa quarta Sephirah è, secondo la maggior parte dei cabbalisti, la più misteriosa di tutte, assimilata all’Albero della Conoscenza del Bene e del Male di cui l’’adam osò assaggiare i frutti): qui, Volontà, Sapienza e Intelligenza confluiscono, e diventano l’ACCORGERSI, l’atto cioè attraverso cui l’io accede alla rivelazione e si rende conto di accedervi;
Khessed, l’Abbondanza di Sentimento, che è la capacità di superare ogni divisione, di percepire il nostro intimo legame con tutto ciò che percepiamo, e con tutti i viventi (v. ALTRI);
Geburah, la Forza, che è l’opposto della precedente: cioè la capacità di percepire i confini, le differenze, l’individualità (v. INDIVIDUAZIONE);
Tiphereth, l’Armonia, cioè la capacità di trovare un equilibrio, una sintesi tra le due precedenti: e, per gli iniziati, qui risiede la percezione della bellezza;
Netsah, la Costanza, che è la capacità di perdurare: il nostro io l’ha, e se non l’avesse non vi sarebbe alcuna continuità tra le nostre percezioni; l’io può, altresì, comunicare la netsah a qualsiasi sua idea, impressione, relazione, intenzione, opera; oppure può toglierla;
Khod, la Maestà, che è il potere di orientare e disporre; Yessod, il Fondamento, che, per gli iniziati, è di nuovo una sintesi tra le due precedenti: ed è la capacità di percepire e di dare forme a tutto – a un gesto, a un progetto, a un desiderio, a una frase.
Il reticolo di canali che collegano le varie Sephiroth mostra le connessioni, le incidenze tra ciascun «dono» e gli altri. E particolarmente delicata è l’ultima connessione, il canale che conduce a:
Malkuth, cioè al «Regno», al nostro Aldiquà, dove i viventi sono nati e agiscono: e qui tutti i «doni» ricevuti più su vengono a trovarsi in uno spazio terribilmente ristretto, che non è in grado di contenerli.
In Malkuth dunque – nel tuo Aldiquà – vi sono gli ostacoli, cioè la tua certezza di valere e potere ben di più di ciò che le tue condizioni e la durata della tua vita ti consentano, e al tempo stesso le continue scoperte della mancanza di qualche tuo «dono», che non è ancora fluito del tutto lungo l’ultimo canale. Qui, in Malkuth, può anche avvenire che le varie doti ricevute entrino in contrasto fra loro (come altrettanti venti che prima soffiavano liberi e in quello spazio ristretto formano invece vortici) e producano circostanze avverse.
In Malkuth hai, infine, anche la nostalgia di altri mondi, e tale nostalgia può spingerti a risalire i canali dell’Albero, ritrovando in ciascuna Sephirah la pienezza e il senso di quel che lassù avevi ricevuto. Per far ciò, non occorre essere degli iniziati (non occorre, cioè, aver cominciato a meditare sul significato delle undici Sephiroth, delle Gerarchie angeliche che a ciascuna di esse presiedono, e via dicendo); può avvenire benissimo che l’intuizione, o l’immaginazione, guidino a volte la mente verso qualche elemento dell’Albero. Gli iniziati hanno soltanto il vantaggio di accorgersi di quando ciò avviene, e di come avvenga.
Parallelamente a questa interpretazione incentrata sulla conoscenza e sulla sorte dell’individuo, procede nella tradizione cabbalistica un’altra interpretazione dell’Albero come schema della Creazione – cioè del processo di trasformazione di tutta l’energia vitale dell’universo dalla soglia dell’Uno-Infinito divino fino al mondo della materia. Nelle VERSIONI CONSUETE della Genesi, la Creazione è narrata come se si fosse compiuta soltanto «in principio», un po’ come il Big Bang; in realtà, essa è perenne: i «Sette giorni» sono le sette Sephiroth più basse, le tre Sephiroth più alte sono il luogo in cui la Creazione stessa si prepara: la configurazione, potremmo dire, che Dio assume quando crea (e lì è il «noi» divino, menzionato nel versetto Genesi 3,22); mentre nella Sephirah Da‘at si trova l’Albero proibito da Yahweh.
Yahweh, il Dio dell’ESSERE, è – in questa interpretazione cosmica – il modo in cui la Divinità opera nel Mondo della Formazione, cioè nelle tre Sephiroth che sovrastano Malkuth; ’Elohiym, il Dio del DIVENIRE, è invece l’agire della Divinità nelle tre sfere immediatamente superiori; mentre nelle tre sfere più alte si trova, in un certo senso, ciò che Dio è per Yahweh e ’Elohiym: ovverosia ciò che la Genesi non narra di Dio – ma che attraverso le dinamiche dell’Albero si può arrivare a scorgere. E non lo si immagini come qualcosa di lontano: tutt’altro! La Qabbalah insegna che i ventidue canali che congiungono le Sephiroth corrispondono alle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico: e ciò vuol significare, simbolicamente, che nelle nostre parole sono contenute le vie – i canali, appunto – per scoprire tutto ciò che l’Albero raffigura.
Dunque è vicinissimo. Hai quelle vie sulla punta delle labbra, nei nomi delle cose e delle persone e degli esseri invisibili, ne parli ogni volta che dici qualcosa – ma è come se un incantesimo ti impedisse di accorgertene (v. PASSAGGIO DEL MARE), così come chi tocca qualcosa non si accorge delle proprie dita. E l’incantesimo lentamente si dirada per chi lo indaga, fino a trasformare tutte le parole in rivelazioni, in parole magiche addirittura.
Quello che invece si sottrarrà sempre al linguaggio (cioè agli aspetti della nostra conoscenza che possono venir spiegati come che sia, in discorsi teorici o in discorsi mitici) è l’Uno-Infinito che circonda tutti i contorni dell’Albero, e che in ebraico è chiamato ’Ayn Soph, cioè «Senza-limite». Questo ’Ayn-Soph non è un volto o un Nome di Dio, ma Dio stesso, e rispetto a esso sia l’uomo sia tutti i volti divini sono pressoché nella medesima condizione: l’’Ayin Soph si trova sempre e ovunque a un passo da loro, ma quel passo è al di là di loro.
E qui vi è un elemento della teologia dell’Albero, al quale sono particolarmente affezionato: il fatto che nell’opera – ancora in corso – della Creazione, l’io dell’uomo e i vari volti di Dio siano impegnati in egual modo, rispetto all’Infinito che li circonda e da cui traggono le loro energie. Immagino quest’opera divino-umana come una tensione tra l’Infinito stesso e il limitato che ancora gli si oppone, e che in qualche istante avvenire diventerà infinito a sua volta, grazie proprio all’impegno creatore di chi sta in terra e di chi sta in cielo – qualunque cosa si voglia intendere con «terra» e con «cielo».
ALDILÀ E ALDIQUÀ. È presto detto: chiamo Aldilà tutto quel che si trova al di là di ciò che sappiamo di sapere, di ciò che pensiamo di pensare, e di ciò che crediamo di percepire. L’Aldiquà, viceversa, è quel che nei Vangeli è chiamato, in greco, kosmos toutos, «questo sistema di cose» (nelle VERSIONI CONSUETE viene tradotto «questo mondo») e cioè il complesso ordinato e coerente di ciò che la stragrande maggioranza degli uomini ritengono vero e reale – non perché sia vero e reale, ma solo perché hanno imparato e si sono rassegnati a CREDERE che lo sia.
Così inteso, l’Aldilà non coincide affatto con quel che i più indicano con questo termine, cioè con il regno dei morti. E non va cercato né altrove e neppure lontano, ma è come quel «Regno dei cieli» che secondo i Vangeli si trova dentro di noi e ovunque intorno a noi. Anche il confine tra Aldiquà e Aldilà è soltanto in noi stessi, e precisamente nella nostra capacità di ACCORGERCI di esso – e di quante cose vi siano in noi e intorno a noi, che siamo abituati a ignorare.
In tal senso, l’Aldilà potrebbe corrispondere a ciò che la psicologia chiama Inconscio, se non fosse per due importanti differenze:
– la psicologia si fonda sul presupposto che l’Inconscio sia costituito dai residui del passato individuale (secondo Freud) e in parte anche del passato ancestrale dell’umanità (secondo Jung), e che rappresenti perciò un livello psichico inferiore a quello raggiunto dall’io cosciente dell’odierna umanità civilizzata;
– la maggior parte degli psicologi è persuasa che al cosiddetto Inconscio non si possa accedere volontariamente, ma soltanto in stati di incoscienza (come il sogno o l’ipnosi), o di semicoscienza (visioni, ecc.).
Quanto al secondo punto, a me risulta invece che territori vastissimi dell’Aldilà siano accessibili abbastanza facilmente, e in modo del tutto consapevole, con l’aiuto di semplici tecniche di meditazione (v. IMMAGINAZIONE e MAESTRI) e di un po’ di coraggio.
Quanto al primo punto, a me risulta che l’Aldilà apra all’individuo l’accesso a un livello evolutivo superiore. Constato infatti che nell’Aldilà sono possibili intuizioni, idee, elaborazioni concettuali straordinariamente più penetranti e più coerenti di quelle che la nostra mente riesce a formulare nell’Aldiquà. Nell’Aldilà la nostra memoria è più vasta, l’attenzione è più lucida, e si verificano normalmente fenomeni di veggenza che nell’Aldiquà apparirebbero prodigiosi. Secondo la fisica contemporanea, un buon 95% della materia esistente nel nostro universo non è percepibile né ai sensi umani né ad alcuno strumento attualmente in uso o progettabile; secondo la neurologia, un’analoga percentuale delle nostre facoltà psichiche non viene ancora utilizzata dagli individui civilizzati: penso che con queste ipotesi sia i fisici sia i neurologi stiano tentando di descrivere in termini quantitativi quello stesso Aldilà di cui stiamo discorrendo in questo libro, e che in termini qualitativi è da sempre oggetto della SAPIENZA.
Quanto infine a un’idea fissa di alcuni psicologi, secondo la quale il cosiddetto Inconscio sarebbe molto pericoloso, sempre sul punto di interferire e addirittura di irrompere nell’attività della coscienza (che deve perciò prendere tutte le precauzioni necessarie per farlo rimanere al posto suo), penso che si tratti, da un lato, di una vecchia superstizione, molto simile a quella antica secondo cui al di là delle Colonne d’Ercole si voltolavano nell’Oceano terrificanti mostri. D’altro lato, come tutte le superstizioni, anche questa tende a produrre situazioni che la confermano: così come chi teme i gatti neri farà in modo che le cose gli vadano almeno un po’ peggio del solito dopo averne visto uno tagliargli la strada, allo stesso modo quanto più si teme l’Aldilà, quanto più si trema al pensiero di quel che potrebbe rivelare e di quanti cambiamenti produrrebbero le sue rivelazioni, tanto più ci si convince che possa venirne soltanto qualcosa di abominevole o perlomeno di abnorme, fino a che, da qualche parte, qualcosa di abominevole o abnorme non salta fuori davvero. Nulla di più facile! Una persona che abbia tanta paura di quel che non vuol conoscere alimenta pazientemente questa sua paura con le idee e le immagini più svariate, che giorno dopo giorno assumono consistenza sempre maggiore. Ma qui l’Aldilà c’entra ben poco, ed è soltanto l’io a far paura a se stesso, nel suo Aldiquà. Il vero accesso all’Aldilà, in questi casi, ha puntualmente l’effetto di dissolvere, e non di confermare quelle paure – semplicemente dando modo di vederle per ciò che realmente sono.
ALTRI. È una parola importantissima per tutti, e soltanto gli ADULTI ne conoscono il significato: vale qui, appieno, quell’espressione tanto cara ai parenti: «Quando sarai diventato grande, capirai…» Il BAMBINO infatti non ha il concetto di «altri»; non l’ha, perché non concepisce il plurale riferito a esseri viventi: un bambino considera soltanto l’individuo; un gruppo, un parentado, la popolazione di una città, per un bambino sono, perciò, soltanto interessanti sfondi sui quali osservare i singoli io che ne fanno parte, e che gli appariranno significativi ciascuno di per sé. Per l’adulto, invece, il mondo è soprattutto un agglomerato di altri, i quali esercitano su di lui influssi irresistibili. Quanti adulti hanno scelto il proprio lavoro, il luogo dove abitare, il compagno di vita, e persino le proprie predilezioni più segrete, appunto in base a quel che gli altri ritenevano opportuno o inopportuno?
E tuttavia è il bambino ad aver capito meglio la questione: davvero i cosiddetti altri non esistono, se non nell’idea che l’adulto si è fatto di loro. Chi sono, infatti, questi altri, e dove si trovano precisamente? Nessun passante a cui domandassi «Tu sei un altro?», risponderebbe di sì. Il che non significa che gli altri siano soltanto un modo di dire: sono, al contrario, un modo di non dire, di lasciare nel vago qualcosa che l’adulto non ha il coraggio di riconoscere, e precisamente: la totalità dei condizionamenti che ha subito e ai quali si è rassegnato, durante la sua trasformazione da bambino in adulto.
Non per nulla ciascun adulto vede gli altri a modo suo: cioè a seconda dei condizionamenti con i quali lui personalmente ha avuto a che fare, e del modo in cui si è rassegnato a lasciarsene determinare. Ne deriva un grave equivoco, di cui pochi si accorgono: quando un adulto parla degli altri, e si comporta e ragiona in base agli altri, crede di riferirsi a un termine oggettivo, cioè a una moltitudine che tutti si figurano nello stesso modo in cui se la figura lui, e sta invece esprimendo qualcosa che riguarda lui solo. Le conseguenze di tale equivoco sono enormi: su questi altri si fondano infatti tutti quei contenuti della coscienza che si dicono collettivi, quali per esempio lo Stato, la morale, la cultura ecc. con tutti i sentimenti e le emozioni che essi suscitano – e su tali contenuti poggia interamente ciò che si chiama RAZIONALITÀ. Apparentemente sono tutti modi in cui un adulto riesce a pensare non con la propria testa, ma con la testa di quegli altri che, a suo parere, nel loro insieme pesano e contano più di lui: ma, dato che gli altri non esistono al di fuori delle sue personali proiezioni, quei contenuti collettivi, e la razionalità, e il buon senso esprimono non la mentalità di una popolazione reale, ma solamente le resistenze del singolo a fidarsi di sé. In tal senso, costituiscono un fenomeno paragonabile a certe fobie, per le quali ci si vieta di fare o dire determinate cose, temendo che non-si-sa-chi possa fare nonsisacosa per punirti di averle fatte o dette.
E veramente grande è, qui, l’opera dell’ingegno: quanta creatività, quanta coerenza e tenacia vengono adoperate da ciascun adulto per tener vivi e per riempire di senso quei contenuti collettivi riferiti a una collettività irreale, e quindi di per sé vuoti! Quante cose potrebbe invece pensare e realizzare ciascun adulto, se invece di sprecare le suo forze per far esistere gli altri e la loro mentalità e il potere che attribuisce loro, le adoperasse per esistere lui un po’ di più. Ma la maggior parte delle persone non osa neppure immaginare come sarebbe il mondo se quei fantomatici altri sparissero (voi ci avete mai provato?).
Dagli altri e da quei contenuti collettivi occorre in ogni caso distanziarsi, sia quando si comincia a scoprire la SAPIENZA, sia quando ci si avventura nell’Aldilà. Per stabilire una connessione autentica con il proprio Io grande, bisogna cioè imparare a lasciarsi alle spalle quelle convinzioni, regole, valori, validità, ragionamenti e parole altrui, che valgono in tutti quei contesti in cui tu coincidi con il ruolo che rivesti nel mondo degli altri. E tale superamento non è mai né definitivo, e nemmeno durevole: scivolare di nuovo indietro, ricominciare a pensare e a parlare come gli altri è bensì facilissimo tanto nella sapienza che nell’esplorazione dell’Aldilà, specialmente quando nell’una o nell’altra capita di toccare argomenti connessi con la posizione sociale o la famiglia. Parlo di ciò in varie altre voci: BLACK-OUT, CONFERME, CHIEDERE ecc.
ANGELI E ANGELOLOGIA. Da almeno tremila anni gli Angeli sono l’immagine più dettagliata dei modi in cui l’io piccolo può utilizzare l’ENERGIA resa disponibile dalla sua connessione con l’Aldilà. L’angelologia, cioè la «scienza degli Angeli», d’origine egiziano-ebraica, è infatti una vera e propria energetica psichica, i cui princìpi vennero dimenticati soltanto nel cristianesimo, per quattro ragioni: antigiudaismo (cioè ostilità per la cultura ebraica durante i primi due secoli d.C.), antisemitismo (cioè avversione verso gli israeliti), ignoranza superstiziosa e, dal V sec. d.C. in poi, il timore ecclesiastico che, disponendo degli Angeli, i fedeli potessero fare a meno del clero per conoscere la «volontà divina».
Perciò, degli Angeli antichi, rimasero ai cristiani soltanto le tradizionali figurazioni di splendidi giovani o di visetti alati, e alcune idee confuse a loro riguardo, nelle quali si mescolarono tratti di altre entità immateriali – degli Spiriti guida, per esempio, o delle cosiddette anime dei defunti. Non che quelle figurazioni alate siano fuorvianti di per sé: solo, erano SIMBOLI, andavano interpretati, e tra i cristiani ne andò persa la chiave, che è la seguente:
– le belle membra umane dell’Angelo rappresentano ciò che l’Energia resa disponibile dalla tua connessione con il divino può diventare in ciascun istante della tua esistenza; e
– le ali sono la «via» che quell’energia ti traccia nel mondo, il suo diagramma di flusso in tutti i punti dei tuoi rapporti con gli ALTRI.
Riportato sulla Mappa di p. 11, un Angelo assumerebbe dunque questo aspetto:

Settantadue Angeli così diametrali, ciascuno con una diversa inclinazione, sono un’efficace rappresentazione del mondo come lo intendevano gli antichi angelologi: tutto pieno di «ali» da riconoscere, da studiare, e da usare. L’angelologia ne è, dicevo, la sistematizzazione scientifica rigorosa, e tutto sommato abbastanza semplice, dato che si fonda su due elementi soltanto: l’alfabeto EBRAICO geroglifico, e i gradi dell’eclittica.
Di lettere ebraiche è costituito il Nome di ciascun Angelo, e occorre conoscerle per scoprire come ciascuno di questi Nomi sia quella che oggi chiameremmo un’equazione dell’energia (adattati ad altre lingue, i Nomi angelici – Michele, Gabriele ecc. – non dicono di per sé nulla di significativo).
L’eclittica (nel disegno riportato più sopra sarebbe la circonferenza esterna) rappresenta per gli angelologi il confine del mondo umano: e ciascuno dei settantadue Angeli varca tale confine per una «porta» di cinque gradi, corrispondenti a circa cinque giorni dell’anno solare, e imprime la sua particolare «via» sia a coloro che nascono nei giorni corrispondenti a quei cinque gradi, sia agli avvenimenti che in quei giorni si verificano o possono verificarsi.
«Perché così pochi Angeli?» domandano solitamente i profani, e non è che l’inizio d’una serie di perplessità che l’angelologia suscita oggi, tutte molto facili da risolvere – a condizione che nell’angelologia stessa si voglia vedere appunto un’energetica antica, e non una questione di FEDE. Alla fede come noi la intendiamo oggi, gli antichi sapienti erano del tutto indifferenti: la intendevano come una forma di rassegnazione a non poter decifrare e scoprire qualcosa, mentre a loro importavano l’audacia e la precisione delle ipotesi.
E quel settantadue era precisamente audace.
Di per sé, il settantadue era soltanto un simbolo numerico dell’idea di confine, di limite (i numeri del confine sono sempre il quattro o i multipli del quattro: 4 lati per la porta di una casa o per le mura d’un tempio, 360 per l’eclittica, 12 per lo Zodiaco, 40 anni per l’«età rabbinica» o, tra i latini, per l’ingresso nella vita adulta ecc.); ma applicato agli Angeli, quel settantadue poneva il caposaldo teorico di una scienza: stabilire che i flussi, le modalità dell’energia cosmica fossero settantadue al di qua dell’eclittica – cioè del confine tra il nostro mondo e l’infinito – significava infatti aver deciso che quelle modalità costituivano un insieme finito, e perciò misurabile, analizzabile. Un oggetto dunque del pensiero, e non del sentimento religioso, o superstizioso.
E tanto più si apprezza tale decisione, se si considera quanto essa contrasti con l’idea che solitamente si ha oggi delle potenze ultraterrene, molto simile a quella che si aveva delle precipitazioni atmosferiche prima che si sviluppasse la meteorologia: per la maggioranza dei nostri contemporanei l’Aldilà, se esiste, è costituito da fenomeni incomprensibili ed entità volatili, tra cui appunto gli Angeli, ai quali i devoti non possono far altro che implorare soccorso.
Gli angelologi invece, all’epoca di Ekhnaton, di Ramses, elaboravano quella loro scienza angelica indagando i «settantadue» flussi in tutto il mondo umano, così come millenni più tardi si cercarono in tutto il nostro mondo le leggi della meccanica e della chimica. La funzione che attribuivano alle date di nascita li avvicina certamente all’astrologia, ma i principi delle due discipline erano e rimasero diversi – e tutto lascia pensare che quelli angelologici fossero più antichi. L’astrologia ha infatti un’impostazione nettamente deterministica, studia cioè cause ed effetti (proprio come le moderna scienza): pone come cause gli influssi degli astri e dei pianeti, da calcolare accuratamente giorno per giorno, e come loro effetti il come e il quando degli avvenimenti e delle decisioni umane. L’angelologia proviene invece da una mentalità molto diversa da quella moderna: è finalistica, studia gli scopi degli avvenimenti e delle decisioni, e precisamente: quali scopi puoi dare sempre alla tua vita per esprimere meglio la particolare energia che ti riempie e ti guida, e così pure quale scopo hanno gli avvenimenti che capitano o che puoi far capitare in ciascun giorno dell’anno. Neppure gli Angeli sono intesi, dagli angelologi, come cause di alcunché, bensì come espressioni, ciascuno, di un preciso fine, e come condizioni del procedere verso di esso.
Non vanno dunque cercati «più in alto» di te, o prima di adesso; tu non sei né più piccolo del tuo Angelo, né separato da lui (come lo sei invece dagli astri e dai pianeti): ma lo avverti e lo fai esistere in te tanto più, quanto più il tuo agire corrisponde alla direzione – al fine, appunto – della sua energia. Il tuo giorno di nascita vi corrispondeva, all’inizio della tua vita eri cioè perfettamente allineato al tuo fine: e ora lo sei?
Ed è molto probabile che proprio negli uomini gli angelologi avessero cercato gli Angeli, o perlomeno negli uomini prima e ben più che nei cieli. Il loro modo di descrivere le caratteristiche dei settantadue Angeli fa supporre che avessero svolto un lavoro statistico e tipologico enorme, analizzando destini, felicità, infelicità, trionfi, sventure, tensioni, desideri, vocazioni di migliaia di persone, e fissandone i risultati nei settantadue Nomi-equazione – il cui elenco più antico si trova, cifrato, nel celeberrimo episodio del PASSAGGIO DEL MARE, in Esodo 14,19-21 (e da qui viene il titolo ebraico dell’Esodo: Shemoth, che significa appunto I Nomi).
Quei Nomi documentano mirabilmente il rigore e la lucidità degli angelologi. Sono strutturati tutti allo stesso modo, in cinque lettere consonanti, di cui
– le prime tre indicano le dinamiche di ciascuna corrente dell’energia superiore, e le tre fasi del suo progressivo manifestarsi nell’esistenza di chi è nato nei gradi di essa;
– le ultime due lettere, che sono sempre –’el oppure –yah, indicano caratteristiche generali di quelle stesse correnti: gli - ’el (per esempio, Miyka’el) sono gli Angeli connessi a ’Elohiym, e personificano le energie di chi costruisce, crea cose nuove; gli -yah (per esempio, La’awiyah) sono gli Angeli connessi a Yahweh, e personificano le energie di chi raffigura, plasma, scopre, interpreta ciò che già è stato creato.
Quanto all’interpretazione di ciascun Nome, richiede certamente un po’ di pazienza: oltre che dei significati delle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico geroglifico bisogna tener conto delle sillabe che esse formano (e che sono radicali di verbi e nomi); ma ciò è molto meno difficile di quel che potrebbe sembrare: solo all’inizio appare come un groviglio di enigmi, e poi d’un tratto – come spesso avviene con le tecniche antiche – «scatta qualcosa» nella facoltà intuitiva di chi sta imparando, e le dinamiche dei Nomi gli diventano d’un tratto talmente chiare e familiari, che si meraviglia di non averne mai sentito parlare prima.
Per alcuni ciò avviene quando si constatano i rapporti nettissimi della modalità energetica di un dato giorno con celebri avvenimenti capitati proprio in quel giorno dell’anno, o con la sorte e le opere di persone celebri nate in quel giorno; per altri avviene quando, leggendo la descrizione energetica del proprio Angelo, vi riconoscono qualcosa che prima d’allora avevano spesso sfiorato nel pensiero senza riuscire ad esprimerlo: «Ecco perché faccio e vivo così! Ecco perché la tal cosa non mi riesce, e quell’altra mi dà tanta gioia!..» ecc. Quell’«Ecco perché!» segnala che l’«iniziazione» personale all’angelologia si è avviata, e da lì in avanti è come imparare la grammatica di una lingua straniera che avevi parlato già da bambino.
La principale RESISTENZA a questo «scatto» intuitivo è determinata, negli occidentali, dallo smarrimento, dalla paura anche, che si prova all’idea di poter valutare la propria esistenza in base a ciò che avremmo potuto fare con le capacità, le prospettive, i doni che avevamo ricevuto nascendo. Per moltissimi, tale valutazione è insopportabile non tanto perché mostra quanto tempo si è sprecato nel fare cose a loro profondamente estranee, e che altri ritenevano opportune, ma soprattutto perché quando esaminiamo noi stessi dall’ideale punto di vista dell’istante della nascita, cioè da un momento in cui tu eri soltanto tu, quell’istante ridiventa in qualche modo presente, con tutte le sue possibilità, prospettive e con tutti i suoi talenti – e molto forte è allora il timore di non esserne all’altezza: di non essere, cioè, all’altezza di se stessi.
E davvero non saprei dire quale aspetto di quest’antica disciplina sia oggi più utile e stimolante: se l’impostazione finalistica, o l’intento tipologico (con tutto ciò che implica per la conoscenza della psiche umana), o il concetto di energia, oppure questa temibile prova di libertà, a cui l’autonalisi angelologica ti conduce. A ciò si aggiunge, nella tradizione popolare ebraica, anche un’utilità immediatamente pratica: vi è infatti la credenza che chi conosce il proprio Angelo e gli Angeli dei vari giorni dell’anno possa chiedere all’uno o a ciascuno degli altri ogni sorta di aiuti nell’ambito specifico dei loro poteri (l’aumento del fascino personale, agli Angeli della bellezza; l’aumento della ricchezza, agli Angeli della prosperità; risoluzione di liti, agli Angeli della giustizia ecc.) e che, se la richiesta è fatta con precisione, venga rapidamente esaudito. E mi risulta che ciò sia vero, specialmente per quel che riguarda il proprio Angelo di nascita, ed è anche ben spiegabile, appunto in termini tipologici: se infatti hai scoperto di appartenere a un determinato tipo psicologico, e selezioni le tue aspirazioni di conseguenza, accorgendoti di quali siano i tuoi autentici desideri, ciò basta già a dissolvere i più complicati ostacoli esistenziali, l’origine dei quali risiede sempre nelle scelte che hai compiuto contro te stesso. A realizzare i tuoi desideri, in tal caso, non è solamente l’Angelo ma soprattutto – di nuovo – la tua libertà, e autenticità, e autonomia da tutti e da tutto.
Tale autonomia ha d’altra parte il vantaggio, nella prospettiva angelologica, di non richiedere alcun conflitto con il prossimo: in un mondo pieno di quelle «ali» c’è veramente posto per la libertà e per le ragioni di tutti. Va da sé, infatti, che entro ciascuno di quei settantadue flussi di energia si avrà una differente visione di ciò che è giusto, importante, vero, e che nessuna di queste settantadue verità sia migliore o peggiore delle altre: è, semplicemente, quella che vale per quel particolare flusso – mentre la Verità suprema, che tutti i filosofi hanno cercato, non potrà che essere un punto di vista che di tutte quelle settantadue prospettive intenda il senso e il pieno diritto.
Più in là della data di nascita, nelle varie sfere dell’Aldilà, si estende poi un’angelologia teologica, invece che antropologica: secondo la Qabbalah, le lettere dei settantadue Nomi degli Angeli formano nel loro insieme uno dei principali Nomi divini, lo Shem-ha-mephorash, che significa sia «il nome di ciò che è comunicato», sia «il nome di ciò che è nascosto». In quelle lettere, cioè, la profondità di Dio comincerebbe vertiginosamente a rivelarsi e a velarsi al tempo stesso – secondo i cabbalisti.
Ciò che di Dio si rivela, è propriamente la sua azione sulle sfere sottostanti; ciò che di Dio è invece «nascosto» dallo shem-ha-mephorash, è la sua essenza una e infinita, che si trova all’estremo dell’universo e del pensiero, proprio come all’altro estremo, nella nostra vita quotidiana, vi è ciascun individuo terreno – e questi due estremi sono i livelli di potenziale, i poli dell’energia che gli antichi angelologi volevano indagare. Anche in ciò io trovo indicazioni fondamentali per l’impostazione dei problemi dell’energia psichica e della conoscenza: quel volto nascosto di Dio, e quel suo rivelarsi nei Nomi dei flussi energetici che attraversano tutto, è anzi la migliore descrizione a me nota del fondamento e dell’estensione di quel centro dell’universo che ognuno di noi chiama «io», e che la psicologia attuale non è stata ancora in grado di definire in modo non contraddittorio.
Ciò di cui invece non si trova proprio più traccia in questa angelologia antica, sono gli Angeli come li si intende di solito, con tutto il loro folklore attuale – che va dalla definizione di «più cari amici dell’uomo», cara a un mio conoscente, sacerdote cattolico, particolarmente ottuso, ai giovanotti in morbide vesti chiare che tanti giurano di aver intravisto in certe loro notti, in piedi accanto al letto. Nel migliore dei casi, questi angelotti sono opera di facile poesia (un po’ goffa, a mio parere, non fosse che per quella tendenza a vederli con i tratti di alcune popolazioni europee: mai nordafricani, mai asiatici, perché?); nei casi peggiori, sono invece il prodotto di preoccupanti allucinazioni, che tendono tanto più a diffondersi quanto più il clero delle varie religioni ignora l’esigenza che i loro fedeli hanno di contenuti spirituali: gli Angeli diventano allora forme consolatorie d’una para-spiritualità banale, sempre disastrose, come lo sarebbe qualcosa che non è cibo o medicina e viene invece adoperato come tale.
ANIMA. Questa parola ha oggi due accezioni fondamentali:
– l’anima considerata come un prezioso possesso di ciascuno di noi;
– l’anima come orizzonte di conoscenza.
E ciascuna delle due richiede un discorso a parte.
L’Anima come esclusivo possesso di ciascuno. Jung la definisce «l’insieme di tutte le qualità umane che fanno difetto nell’atteggiamento cosciente». In tal senso si può dire che un individuo abbia o non abbia più un’anima, a seconda che egli sia o non sia cosciente di quelle qualità che nella sua esistenza ha trascurato e di cui può avvertire ogni tanto il bisogno. Di un dirigente inflessibile, per esempio, noi diciamo che «è senz’anima» se si identifica totalmente con il proprio ruolo e non coglie in sé, né desidera in altri le qualità della tenerezza, della comprensione, della delicatezza; un intellettuale è «senz’anima» se non lascia spazio al sentimento, ecc.
Più in generale, questa accezione di anima compare nella speranza caratteristica di un certo tipo di CREDENTI, i quali trascurano molte loro qualità umane, e confidano che poi, dinanzi al tribunale celeste, la loro «anima» riuscirà lo stesso a cavarsela: che cioè, stranamente, nella loro vita futura essi possano venir premiati proprio per quelle qualità che nella vita presente non hanno adoperato abbastanza. Alcune religioni hanno prosperato e tuttora prosperano su questa assurda speranza; e, in tutta franchezza, mi pare sia soltanto un modo di tener buona la gente, di evitare cioè che una ricerca della propria «anima» interferisca con gli obblighi imposti dall’autorità e dal MONDO, e metta perciò nei guai i cercatori.
Purtroppo, anche nella ricerca spirituale avviene talvolta qualcosa di simile: alcuni ritengono che letture, conferenze, esercizi ecc. abbiano principalmente lo scopo di far bene a questa loro «anima», cioè a loro qualità che nella vita pratica vengono poi ignorate.
L’Anima come orizzonte di conoscenza. È ciò di cui Plotino (III sec. a.C.) scriveva: «Sappiamo dove comincia, ed è dentro di noi, ma nessuno sa dove finisca». È dunque una dimensione più vasta dell’io piccolo, il quale può andarne alla scoperta, e più ampia anche dell’Io grande, che è l’estensione delle scoperte che l’io può compiere nell’Aldilà. Perciò varie religioni sostengono che tale anima sia eterna (cioè illimitata nel tempo) e che dopo la morte, o in stati di illuminazione, possa giungere fino a Dio: anche questo ascendere è infatti una descrizione SIMBOLICA dell’ampiezza dell’anima, la quale in realtà giunge sempre fino a ciò che chiamiamo Dio – ma possono accorgersene solo coloro che accedono, appunto, a certi stati di illuminazione, o accettano un cambiamento talmente profondo dell’idea che hanno di se stessi, da poterlo definire una «morte».
In tal senso Anima è, dunque, quasi un sinonimo di ciò che, alla voce IO, descrivo come la maggior ampiezza dell’io stesso, cioè l’insieme dell’io piccolo, dell’Io grande e delle dinamiche che li connettono. E tale era appunto il principale significato del termine greco psykhé, così come viene usato nei Vangeli: l’insieme delle attività e delle energie psichiche di un individuo. Accanto a tale significato, ve n’era anche un altro: il modo in cui un individuo comprende e limita le proprie attività ed energie psichiche _ ovvero l’immagine che uno ha della propria anima. Perciò Gesù può dire:
Chi ama la propria anima (psykhé) la perde, ma chi odia la propria anima in questo mondo, la salva nel suo andare verso la vita eterna.
Giovanni 12,25
Cioè: a partire dall’insegnamento di Gesù stesso, quelli che rimangono aggrappati a ciò che sanno della propria attività ed energia psichica, non sapranno mai ciò che la loro attività ed energia psichica possono diventare; quelli che invece si sentono oppressi da quel poco che in questo mondo possono sapere della propria psykhé, aprono ad essa la via verso una scoperta dell’ETERNITÀ – cioè di una dimensione ben superiore al cosiddetto mondo, alla quale la loro anima li condurrà.
Il che è quasi come dire «chi ama il proprio io non si conosce, mentre chi odia quel che sa del proprio io scoprirà di essere assai più grande di se stesso»: l’unica differenza è che dicendo «io» è pressoché inevitabile pensare a ciò che si è, a ciò di cui si consiste, e «io» è dunque un concetto prevalentemente statico; mentre il termine «Anima» esprime, fin dalla sua etimologia (dal greco anemos, «vento»), una realtà in movimento, e indica proprio tutto ciò che nell’io è dinamico.
Perciò in varie tradizioni antiche l’anima è concepita come multipla, e per lo più trina. Secondo gli ebrei, le sue tre componenti sono Nephesh, Neshamah e Rwakh – tutti e tre i termini si riferiscono a movimenti dell’aria. Nephesh è propriamente il «soffio» che ci fa vivere nel corpo: il risultato di una serie di impulsi e forze vitali, mai in stabile equilibrio, sempre spinti da un desiderio, da una curiosità verso se stessi e verso ogni cosa. La Rwakh è lo «spirito» divino, l’infinito divenire, fonte perenne di energie, di senso, di direzioni evolutive. E Neshamah è il «respiro», il ritmo con cui il Nephesh e la Rwakh si possono fondere nell’uomo. Questa tripartizione si può descrivere anche così: la Rwakh è il fluire delle possibilità che ci sono offerte ogni giorno; Nephesh è ciò che, in noi, può accorgersi di quelle possibilità, e sceglierle, accoglierle, farle fruttare, o viceversa non vederle, perderle e venirne trascinato via, come da venti che un veliero non sappia prendere; e Neshamah è ciò che può guidarci nella scelta.
Un’analoga tripartizione dell’Anima compare sia in Aristotele e nell’Islam, sia nello Gnosticismo: gli storici delle religioni spiegano che, secondo gli Gnostici, il genere umano si divideva in tre gradi di dignità, chiamati Hylikoi, Psykhikoi, Pneumatikoi – cioè individui legati alla materia, hyle; individui ancora imbrigliati da conflitti psicologici; e individui giunti alla dimensione del Pneuma, o Spirito – ma tale suddivisione va intesa anch’essa, a mio avviso, non alla lettera, ma come un’altra descrizione simbolica delle tre dimensioni dell’«Anima» di ciascun individuo. Nei Vangeli, la tripartizione diventa: Figlio dell’Uomo (o Figlio di Dio), Padre, e Spirito santo, ma, anche qui, è ancor sempre della nostra «Anima» che si tratta, in realtà. Il Figlio è infatti, per Gesù, quell’illimitata evoluzione che ciò che sappiamo di noi stessi può avere; il Padre è l’infinita forza che la genera, e verso la quale tutti cresciamo e alla quale, al tempo stesso, siamo connessi nella nostra più intima essenza («il Padre è nell’io e l’io è nel Padre», Giovanni 17,21); mentre lo Spirito è ciò che connette il Padre al Figlio, la loro differenza di potenziale e l’energia che se ne produce.
A mio avviso, ciò che più conta in tutti questi schemi, splendidi di per sé, è in ciò che essi non dicono: nel fatto cioè che qualcosa, in noi, possa descrivere le componenti dell’Anima come se la vedesse dal di fuori. E proprio questo qualcosa d’altro io è quella nostra autentica Anima-orizzonte di conoscenza, quella che davvero «nessuno sa dove finisca» e che è il più profondo e al tempo stesso il più vasto dei nostri dinamismi interiori. Conoscerla è impossibile e non occorre neppure, non perché all’uomo sia vietato, ma perché quest’Anima è l’autentico soggetto del nostro conoscere e – come dicono le Upanishad riguardo a Brahma – è ciò che vede e non è visto, perché è la nostra pupilla, ed è ciò che ode e non è udito, perché è il nostro orecchio. Quest’Anima, in noi, attraverso di noi, può solamente agire, scoprire, creare. Del suo agire, scoprire e creare consiste in ultima analisi ciò che, in questo libro, chiamo SAPIENZA, e di cui la mia psicologia (nel senso proprio di «modo di parlare dell’anima») cerca di dare spiegazioni, analisi, criteri.
ANSIA. Dal latino angere, «stringere». È uno dei grandi ostacoli che si incontrano nelle PERCEZIONI DELL’ALDILÀ: la sensazione di sentirsi costretti, impediti da qualcosa o da qualcuno, intralcia pressoché tutti, nelle prime conversazioni con i MAESTRI. Può assumere tre forme:
– ansia riguardo al futuro, ed è quando oscuramente si pensa: «Ora sto per scoprire qualcosa di terribile riguardo al futuro mio o di persone a me legate… Qualcosa che magari desidero ma che al tempo stesso temo, e che non oserei mai confessare»;
– ansia riguardo al passato, ed è quando oscuramente si pensa: «Ora sto per affrontare qualche mio rimpianto o rancore o rimorso che finora sono riuscito a tenere nascosto: e se lo affronterò me ne vergognerò molto, dapprima, ma poi lo supererò, me ne sbarazzerò… e non sono pronto alla condizione di felicità in cui, in tal modo, mi verrei d’un tratto a trovare»;
– ansia riguardo al presente, ed è quando oscuramente si pensa: «Non valgo abbastanza, posso soltanto obbedire ad altri; come posso fidarmi di quel che penso o percepisco io? ho costruito tutta la mia esistenza su questa mia certezza di non valere abbastanza…».
Le conseguenze più immediate dell’ansia sono, in tutte e tre le sue forme, il senso di frustrazione e al tempo stesso di ORGOGLIO. Ho notato infatti questa caratteristica, durante i miei seminari sulle percezioni: le persone bloccate dalla loro ansia non chiedono «Come posso sbloccarmi? Cosa potrei fare per percepire meglio?» ma affermano: «Io non percepisco, non sento e non vedo niente» calcando forte sull’«io», e assumendo quasi un atteggiamento di sfida, come se la loro ansia fosse una virtù che non lasceranno violare.
Queste crisi d’ansia si possono facilmente superare proprio domandandosi (o domandando ai propri MAESTRI): «Che cosa mi sta frenando? Cosa non voglio percepire e perché?». Domande simili trasformano le situazioni di impasse in memorabili occasioni di scoperta; ma – nota bene – non eliminano mai radicalmente l’ansia stessa: permettono solo di conoscerla meglio, e di riconoscerne gli effetti in settori della nostra personalità e della nostra vita, che magari fino ad allora non ci erano sembrati particolarmente problematici.
Quanto più si impara, infatti, a conoscere nell’Aldilà la dinamica dell’ansia nelle sue tre forme, tanto più ci si accorge di quanta parte del nostro comportamento nell’Aldiquà sia interferito da ansia: e di quanto l’ansia influenzi cioè sia le nostre sconfitte, sia i limiti nell’individuare i nostri obiettivi. Tra l’altro, ci si accorge che è soprattutto l’ansia a rendere le cose importanti, agli occhi di ciascuno di noi – e in genere rende troppo importanti proprio le cose meno significative, limitando, «restringendo» in tal modo gli orizzonti della nostra vitalità e creatività.
Al contempo, quanto più procede questa scoperta dell’ansia, tanto più emerge il vero problema: come utilizzare l’enorme energia che l’ansia limita, e che adopera come suo carburante? Tale problema determina di solito crisi d’ansia ancora più grandi, veri e propri crampi dell’io, per sciogliere i quali possono occorrere decenni. Le si supera, a quanto ne so, soltanto con la FELICITÀ, con il CHIEDERE e con il VOLERE.
ARCA. Non ho conosciuto nessuno che non si raffigurasse l’Arca di Noè come un tozzo natante sovraccarico di animali. Ma è un antichissimo equivoco: «arca» in EBRAICO è thebah, e significa «parola», «linguaggio». Ciò che Noè costruì fu dunque un suo dizionario personale: vi incluse tutte le parole e i concetti che nel suo mondo erano vivi e fertili (questo significano le «coppie di tutti gli esseri viventi», di cui si parla in Genesi 6,19) e ne escluse tutti i termini oscuri, vuoti, vaghi, finti o sterili.
Così intesa, la costruzione dell’Arca è una splendida attività filosofica, praticabile da chiunque non abbia paura del «Diluvio», cioè del profondo cambiamento che essa inevitabilmente provoca. Basti pensare a parole come «politica», «lavoro», «denaro», «matrimonio», «patria», «genitori» e alla possibilità di decidere se il loro significato è chiaro e importante per te, o se finora hai soltanto lasciato che occupassero molta parte della tua mente perché qualcosa spinge tanta gente a ritenerle importanti. E quel qualcosa, che cos’è in realtà, per te? Qualche valore vero, o idee vaghe e inutili alla vita?
Il Diluvio incomincia così, lentamente, parola dopo parola. Non ti obbliga a nulla: ti accorgi soltanto che le parole rivelatesi per te vuote non intervengono più nei tuoi pensieri, se non come ricordi di un periodo della tua vita sempre più lontano. E il mondo e la vita stessa ti appaiono diversi, pensi di più e meglio, parli di più e meglio con alcune persone, mentre con altre non ti intendi più – e anche queste ultime si allontanano sempre più, proprio come se l’acqua del Diluvio, salendo, ti portasse in alto mentre quelle rimangono giù. Né puoi più tornare indietro. Questa tecnica d’evoluzione è ciò che la Genesi insegna nel racconto di Noè, ed è ciò che sempre avviene nelle nuove fasi evolutive dell’umanità.
ARCHETIPO. Dal greco arkhètypos, «modello originario». È un termine molto usato nella psicologia junghiana, a indicare immagini presenti nel cosiddetto inconscio collettivo, che deriverebbero da esperienze ancestrali dell’umanità.
Jung attribuisce agli archetipi uno speciale «potere numinoso»: quando cioè nella realtà o nei sogni si incontra qualcuno o qualcosa che ha valore archetipico, se ne è profondamente turbati senza saper dire perché. Per lo più, inoltre, Jung raccomanda qui cautela: mette in guardia dai pericoli di quella che lui chiama «l’identificazione con l’archetipo», o la «proiezione di archetipi su altri»; e, più in generale, intende l’evoluzione della psiche umana, sia individuale, sia collettiva, come una progressiva liberazione dalle «fascinazioni archetipiche».
Io intendo gli «archetipi» in modo un po’ diverso, come spiego diffusamente ne Il mondo invisibile: ritengo che provengano non dal lontano passato dell’umanità, ma dal suo futuro; che siano, cioè, non elementi ereditari della psiche, ma sue direzioni evolutive: contenuti psichici, emotivi, culturali, esistenziali, non ancora pienamente realizzati e vissuti dall’umanità, e perciò sempre riemergenti al nostro orizzonte – e «numinosi» sì, ma per ragioni ben precise: perché attendono che tu li realizzi e li viva, benché i tuoi contemporanei non ne siano ancora capaci.
Da un lato, questa mia convinzione mi porta a un particolare sistema d’interpretazione delle Sacre Scritture, nelle quali si trova un enorme repertorio di tali archetipi ancora in attesa. D’altro lato, sugli archetipi come «forme del futuro» ho strutturato la mia teoria delle FUNZIONI DELL’IO.
ASCENSORI. Il TRAGITTO che conduce alla STANZA TONDA è una connessione che rende disponibile una determinata quantità di energia psichica, e tale energia è sufficiente per comunicare con alcuni tipi di Maestri; per incontrarne altri, più alti e impegnativi, per compiere viaggi nell’Aldilà, per approfondire argomenti particolarmente complessi o per affrontare e risolvere traumi e blocchi della personalità particolarmente profondi e dolorosi, è necessario ampliare la connessione, e disporre di maggiore energia: e ciò si ottiene IMMAGINANDO tragitti ulteriori. Nella letteratura classica sull’Aldilà, questi tragitti ulteriori richiedono l’intervento di mezzi di spostamento eccezionali, quali figure arcangeliche o anime volanti e in grado di comunicare il potere di volare; oppure si presentano come molto faticosi: si pensi alle lunghe scale che Faust percorre per giungere nel «Regno delle Madri» (GOETHE, Faust, II, 1, Galleria oscura) mentre Mefistofele lo aspetta nervoso. Ma oggi, per così dire, la tecnologia viene qui in aiuto: senza bisogno di scomodare le Gerarchie celesti, la nostra immaginazione può infatti, molto più efficacemente, munire la Stanza Tonda di ascensori, e adoperare questi per i propri tragitti.
E ciò per diverse ragioni di carattere spirituale:
– innanzitutto, gli ascensori sono oggetti semplici, ordinari e possono dunque costituire simboli ad alto potere di conduzione dell’energia psichica (v. TRAGITTO);
– i tragitti, o break-throughs in plane, sono sempre immaginati come ascese o discese, e un ascensore fa dunque al caso; ma in realtà, nell’Aldilà non vi è nulla di «più in alto» o di «più in basso», ma ogni spostamento avviene in realtà verso il basso verso l’alto e verso ogni altra direzione contemporeaneamente, poiché non consiste in un muoversi dell’io lungo una qualsiasi linea, ma in un ampliarsi sia dell’intero orizzonte della percezione, sia dell’io stesso che percepisce: spostarsi, là, significa diventare più grandi in un mondo che diventa più grande, dunque subire una trasformazione; quanto a questo, un ascensore – cioè un luogo chiuso, protetto – risulta più adatto di un qualsiasi velivolo, elicottero, astronave o tappeto volante che sia, proprio perché dà meno l’impressione di stare viaggiando: l’io piccolo se ne sta lì, da solo o con i suoi Maestri, e tutto sta cambiando fuori dall’ascensore, ma lui non sa, non vede come, e non solo non avverte spostamenti (se non molto vagamente) ma ignora – dato che l’ascensore non ha finestre – anche le fasi della traiettoria che sta percorrendo. Ne conosce solo la durata e la meta.
– Il ricorso agli ascensori è confortevole anche per la misurazione della durata dei tragitti: è sufficiente che l’io piccolo, o i Maestri, contino i piani. Qualsiasi altro mezzo di spostamento richiederebbe una maggiore concentrazione razionale: immaginare, poniamo, un contachilometri, o un «contadimensioni», oppure tener d’occhio l’orologio, o altri espedienti più macchinosi – tanto più inopportuni, in quanto il bisogno di sorvegliare qualcosa produce sempre una certa inquietudine nell’Aldilà, e ho notato che nei tragitti è invece utile rilassarsi il più possibile. Così, i miei Maestri possono dirmi, per esempio, che per discutere di un determinato argomento occorre «andare al piano 75» – cioè accrescere di settanticinque unità non meglio definite (io penso, di settantacinque volte) la differenza di potenziale psichico – e incontrare là un determinato Spirito guida che di quell’argomento si intenda più di loro. E io non avrò altro da fare che accomodarmi in uno degli ascensori della Stanza Tonda e cominciare a contare: «75, 74, 73…» fino a 1 (per favorire il rilassamento è bene contare a ritroso, così che non vi sia la preoccupazione di ricordare a quale cifra fermarsi: il viaggio in ascensore termina semplicemente quando si arriva all’1).
– Un ascensore, infine, è sempre collegato a robusti cavi, e ciò corrisponde a una ben precisa caratteristica degli spostamenti nell’Aldilà: l’io, per quanto lontano possa giungere lungo i vari piani, non interrompe mai il «circuito» lungo il quale scorre l’energia, ma lo amplia soltanto. Allo stesso modo e per la medesima ragione, anche i canali che collegano le Sephiroth dell’ALBERO DELLA VITA non si interrompono in nessun punto.
ATTENZIONE. La mia definizione di «attenzione» è simile a quella che ne dà qualsiasi dizionario: un particolare grado di concentrazione su un qualsiasi oggetto esterno o contenuto psichico. Solo, attribuisco a questo particolare grado di concentrazione un significato maggiore del consueto, e considero l’attenzione un sinonimo di quel che nella psicologia attuale si chiama «coscienza»; e ciò richiede qualche precisazione.
Secondo la maggior parte degli psicologi, la coscienza non è, a differenza dell’attenzione, una funzione del tutto volontaria: andrebbe paragonata, diciamo, più al senso dell’udito che non a quello della vista – poiché su quest’ultima possiamo esercitare maggior controllo, che non su quello. Secondo me, invece, l’attività della nostra coscienza è sempre intenzionale: in ogni istante noi scegliamo, cioè, di percepire alcune cose e non altre – proprio come in ogni istante scegliamo di vedere o non vedere qualcosa, o magari di chiudere gli occhi. Certo, su queste nostre continue scelte intervengono diverse forze, non tutte consapevoli, ma, a mio parere, anche il rapporto tra tali forze e il nostro io dipende da ciò che l’io vuol sapere di sé, e rientra dunque nell’intenzionalità.
Da un lato, tali forze sono quelle dei cosiddetti ALTRI, i quali influiscono su di noi sia attraverso ciò che dicono di vedere attorno, sia attraverso ciò che a nostro parere essi vedono, sanno e presumono di noi.
Dall’altro, vi è l’influsso di quello che io chiamo «l’Io grande», cioè l’elemento trascendente della psiche – che attraverso la nostra attenzione cerca di manifestarsi e di agire nel mondo. È infatti la nostra attenzione a stabilire che cosa il mondo è per noi, e di conseguenza che cosa noi siamo per il mondo, poiché non vi è, per noi, occasione o avvenimento che non dipenda da ciò che fino a quel momento eravamo riusciti a vedere e considerare. In tal senso, molti teologi amano ripetere che la vita di ognuno sia il campo di battaglia tra due forze avverse – quelle che Gesù, nei Vangeli, chiama «il MONDO» e «il Padre celeste» – e quale sia l’esito della battaglia, è ognuno di noi, in ogni istante, a deciderlo.
Per far sì che sia l’Io grande a prevalere, non so immaginare modo migliore del lasciar agire la nostra attenzione il più liberamente possibile: nel puntarla cioè decisamente verso ciò che ci distrae da quel che già sappiamo di noi stessi. Per esempio, nel guardare una cosa, è assai meglio concentrarsi sulla cosa stessa, invece che su ciò che ci sembra di provare guardandola (e che, appunto, corrisponderà inevitabilmente a quel che già sappiamo di noi). Il tuo Io grande, o «Padre celeste dell’io», è in ciò che NON SAI ancora; a questo proposito Gesù spiega che vi è un modo di usare la propria attenzione, trasformandola in una perenne «nascita dall’alto»:
Non ti meravigliare se ti ho detto che bisogna nascere dall’alto. La brezza soffia dove vuole e tu ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito.
Giovanni 3,7-8
Sia in greco, sia in latino, sia anche in ebraico, «Spirito» e «brezza» sono la stessa parola (Pneuma, Spiritus, rwakh). Dalla difficoltà – vertiginosa a volte – che si incontra in quest’esercitare l’attenzione al non-sapere derivano, tra l’altro, tutti gli intralci, le RESISTENZE che si possono incontrare nelle percezioni dell’Aldilà: i discorsi dei MAESTRI sono infatti tanto più vaghi e indecifrabili, quanto più chi li ascolta fa caso alle proprie emozioni, dubbi, sensazioni, invece che al contenuto dei discorsi stessi – quanto più, cioè, vuol tenersi aggrappato a quel che già sa di sé, invece di aprirsi alla scoperta. Da questo aprirsi dipendono bensì tutte le forme di ispirazione, di genialità, di rivelazione.
ATTESA. La SAPIENZA è indubbiamente un’arte dell’attesa. Si può avere gran desiderio e impazienza di scoprire il significato di un passo delle Scritture, o di accorgersi del senso d’una decisione da prendere, o di sapere cosa i MAESTRI pensino di quella decisione, ma la via più rapida per riuscirci è saper aspettare: anche qui
a retro va chi più di gir s’affanna,
Purgatorio XI,15
– ovvero: quanto più ti sforzi di accelerare, tanto più rallenti. Viceversa, quando si può e si sa aspettare, bastano spesso pochi istanti.
Tale paradosso si deve al fatto che nell’impazienza si nasconda molto spesso il timore di cambiare: per esempio, vogliamo conoscere al più presto la risposta dei Maestri riguardo a un determinato argomento, per poter poi porre altre domande che ci eravamo già preparate in precedenza, o magari per scegliere, in base a quella risposta, tra due o più opportunità d’azione che avevamo, anch’esse, già chiare da prima (compiere o non compiere un viaggio, accettare o non accettare una proposta ecc.). Ciò che in noi ha fretta è precisamente l’impulso o il progetto che ci era noto prima di rivolgerci ai Maestri, e che rispecchia ovviamente il modo di vivere e di pensare che ci era proprio fino a quel momento: questo modo di vivere e di pensare non vogliamo sia posto in discussione, quando abbiamo fretta.
Quando invece non avvertiamo impazienza, è perché in ciò che già sappiamo o che abbiamo già previsto non vi è nulla a cui teniamo talmente, da pretendere che gli Spiriti lo approvino e ci aiutino a realizzarlo. Allora siamo più aperti, più disponibili; nel nostro passato e nel nostro presente cominciamo a trovare – giustamente – soltanto interrogativi che possono portarci verso scoperte nuove.
E, quando la si è ben imparata, questa attesa non cessa mai, e non fa che ampliarsi.
AUTORITÀ. I cosiddetti CREDENTI, più che credere in qualcosa, credono purtroppo a qualcuno, e precisamente ai sostenitori di qualche tradizione – a coloro cioè che, a loro volta, credono e insegnano a credere a qualcun altro. Ciò è comprensibile: per buona parte dei credenti, infatti, la religione è un fatto sentimentale, è un fidarsi – e ciò che essi vi cercano è soprattutto il rimedio a profonde delusioni patite durante l’infanzia e l’adolescenza. Nella Chiesa, per esempio, i cattolici vedono la Madre chiesa, nel Papa vedono il santo Padre: e celebrano nei riguardi di questa ideale coppia di altri genitori un culto dell’obbedienza che può compensare i loro personali ricordi di obbedienze più amare.
Tale transfert millenario svolge un’indubbia funzione benefica, a livello psicologico, ma quel che in tal modo si perde sono i grandi tesori di conoscenze che ogni religione custodisce. Non per nulla quegli stessi credenti non leggono gran che né dei Vangeli né tantomeno della Bibbia – libri in cui varie caratteristiche di quella stessa autorità religiosa sono, d’altronde, esplicitamente condannate. Alcuni non sanno neppure in che cosa propriamente consista la loro religione: quali ne siano i principali dogmi (pochi cattolici sanno cosa sia l’Immacolata Concezione) o quale siano stati i momenti decisivi della sua storia due, cinque, diciotto secoli fa. Si accontentano di avere un’autorità venerabile a cui fare riferimento, e temono che qualsiasi dettaglio o specificazione possa interferire con la venerazione stessa.
Con questo tipo di persone le conversazioni su argomenti spirituali sono, il più delle volte, improduttive e anche spiacevoli; ma il peggio è che la stragrande maggioranza dei cosiddetti non-credenti si siano convinti da secoli che religione e spiritualità consistano principalmente in quel culto dell’autorità, per il quale essi provano per lo più una miope avversione. Anch’essi si precludono, in tal modo, l’accesso a quella millenaria sapienza che le religioni nascondono, e che per troppo peso dell’autorità religiosa rimane da parte, e si copre di polvere.
AVER RAGIONE. È di gran lunga lo scopo più dannoso che ci si possa proporre sia nella ricerca spirituale, sia in quella filosofica o scientifica. Purtroppo, è anche lo scopo che gli appassionati di queste discipline si pongono più di frequente – e spesso senza quasi accorgersene, semplicemente perché la voglia di aver ragione è talmente diffusa nel mondo, da sembrare una cosa ragionevole.
I principali diffusori di questa voglia sono i cosiddetti CREDENTI, cioè coloro che hanno deciso di appartenere a una determinata religione: ciò che questi credono innanzitutto è, ovviamente, che la loro religione abbia ragione (altrimenti perché dovrebbero appartenerle?) e che dunque, inevitabilmente, tutte le altre religioni abbiano torto. Da quasi diciannove secoli, da quando cioè (con Paolo di Tarso) sono incominciate le religioni katholikai, «universali», questa convinzione non fa che produrre divisioni tra gli uomini, incomprensioni, ostilità e grandi sofferenze, e ciononostante permane. «Si vede che l’uomo è fatto così» se ne potrebbe dedurre. Ma così è fatto soltanto un certo tipo d’uomo, che in qualche periodo della sua vita ha deciso che i «credenti» fossero il modello da seguire e, credendo d’aver ragione, non ha più cambiato idea.
A ogni altro tipo umano la capacità di aver torto si rivela bensì il principale strumento della conoscenza: non puoi compiere nessuna scoperta autentica, se non ti accorgi che quel che sapevi prima era sbagliato o insufficiente; e, non per nulla, compito essenziale di chi abbia costruito, sulle proprie scoperte, una teoria filosofica, scientifica, o spirituale, è dedicarsi con tutte le proprie forze al tentativo di «falsificarla» (come dicono i filosofi della scienza), di scovarne cioè i punti deboli. Soltanto allora – cioè solo quando il teorico ammette di poter avere torto in qualcosa – la teoria può evolversi.
Ciò vale anche nella pratica quotidiana: non ricordo più chi abbia detto «nella vita o hai ragione o sei felice», ma condivido appieno il suo punto di vista; l’aver torto è un istante di liberazione, mentre la voglia di aver ragione è soltanto paura di quel che ti succederebbe se fossi più libero.
«Ma così non rimarrebbe più nessuna certezza!» potrebbe obiettare qualcuno. Infatti: ce ne sarebbero sempre molte, e non una sola. Il vantaggio è facilmente misurabile: preferireste parlare con uno che dica «Le cose stanno così, punto e basta!» o con uno che dopo aver esposto le sue opinioni vi domandi con sincero interesse: «E tu cosa ne pensi?».
Allo stesso modo è utile procedere anche con se stessi: una volta chiarite, cioè, le proprie idee su un dato argomento, è buona cosa chiedersi «Ma io, cosa ne penso davvero?» e rimanere in ascolto, senza fretta, nell’immenso futuro che chi è pronto ad aver torto ha sempre davanti.