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Il maestro delle ombre
| Donato Carrisi Il maestro delle ombre |
| L’ALBA |
| 33 giorni dopo l’alba Un pallido sole primaverile asciugava le strade dall’umidità. Il centro di Roma era un cantiere. Moderne rovine si erano aggiunte alle più antiche, ma era cominciata la ricostruzione. Non era ancora stata ripristinata la viabilità, potevano circolare solo i mezzi autorizzati. Fra questi un’Audi nera con targa della Città del Vaticano. Mentre l’autista procedeva lungo via dei Fori Imperiali, dai vetri oscurati della lussuosa berlina il cardinale Erriaga ammirava la trasfigurazione di Roma. La catastrofe aveva mutato per sempre il panorama, ma aveva recato con sé anche qualche effetto positivo. Per esempio, si registrava un netto aumento delle conversioni. In tanti, dopo la disperazione, avevano abbracciato la fede cattolica. La prova era l’incremento nelle donazioni di denaro a scopi di beneficenza. Siccome Erriaga non pensava di meritare il paradiso, per consolarsi dalla tragedia si era regalato un nuovo crocifisso di brillanti e ametiste che si sposava benissimo con la porpora della tonaca di seta. «Vuole che alzi l’aria condizionata, eminenza?» domandò l’autista. «Va bene così, grazie» rispose il cardinale che in quel momento godeva della carezza calda di un raggio di sole. Poco dopo si lasciarono alle spalle la città e iniziarono a percorrere delle stradine di campagna. La natura era stata l’unica a giovarsi delle piogge intense del mese precedente. Adesso sbocciava rigogliosa e piena di profumi. Erriaga si scoprì sereno, quando invece avrebbe dovuto essere preoccupato. Il mondo era un posto meno sicuro da quando Cornelius Van Buren era scappato. Chissà quanti avevano già pagato con la vita il solo fatto di averlo incrociato sulla propria strada. Avrebbe dovuto occuparsene il penitenziere, ma il cardinale non aveva notizie di lui dal giorno del blackout. Quando, davanti al suo sguardo impotente, aveva lanciato tra le fiamme il taccuino con la confessione. «Eminenza, siamo arrivati» annunciò l’autista. Erriaga guardò la casa colonica in cima alla collina. Poco dopo, l’Audi nera si fermò nel piazzale. L’autista andò ad aprirgli lo sportello e il porporato poggiò le scarpe inglesi fatte a mano sulla ghiaia polverosa. Gli si fecero incontro due suorine. «Benvenuto, eminenza» gli dissero in coro. Il cardinale benedisse i loro capi chini con un gesto frettoloso della mano. «Avete provveduto a tutto?» «Sì, eminenza. Così come ci è stato richiesto.» «Bene» si complimentò lui. «Accompagnatemi.» Le due suore lo scortarono all’interno della casa. C’era odore di refettorio e di minestra. Erriaga pensò che c’erano posti da cui quel sentore non se ne andava mai. Salirono lungo una scala fino al primo piano. Poi, dopo aver percorso un breve corridoio, le religiose lo introdussero in una stanza vuota. «Questa ha la vista migliore, eminenza» gli assicurò una delle consorelle. Erriaga si recò subito alla finestra e l’aprì per verificare. In effetti, dal davanzale si dominava la valle sottostante, con i vigneti e i pascoli. Ma non era quella la vista che interessava al cardinale. Sotto di lui c’era un campetto da calcio in terra battuta. Due squadre di ragazzini si affrontavano rincorrendo un pallone. «Come stanno gli orfani?» domandò. «Sono obbedienti? Studiano? Mangiano abbastanza?» «Sì» confermò la suora. «Stanno bene.» Erriaga annuì soddisfatto. «Me ne compiaccio.» Non potendo chiedere informazioni sull’unico che lo interessava, si accontentò di generiche rassicurazioni su tutti. In realtà, non sapeva nemmeno che faccia avesse o se somigliasse ancora alla foto apparsa sui giornali nove anni prima. «L’uomo con la cicatrice sulla tempia è più tornato?» «No, eminenza. Non più da quella notte.» Erriaga richiuse la finestra. Aveva visto abbastanza. «Tornerò» promise, e si avviò. |
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