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Donato Carrisi
Il maestro delle ombre
IL TRAMONTO
22

Quando arrivò al convento di clausura alla fine del bosco,
non ebbe bisogno di bussare. La porta di legno era aperta.
S’introdusse nell’antico corridoio di pietra e vide il primo
corpo. Si avvicinò alla consorella riversa sul pavimento. Sotto il
drappo nero che le copriva il volto, aveva la gola tagliata.
Una lama, pensò. Come aveva fatto Cornelius Van Buren a procurarsela?
Le candele che illuminavano da sempre quel luogo – ben
prima di qualsiasi blackout – erano spente. Così il penitenziere
dovette farsi precedere dal fascio luminoso della torcia elettrica.
Con quell’oggetto moderno, gli sembrò di profanare il voto di
quel posto col passato, rimasto intatto per secoli. Trovò il
secondo cadavere sulle scale. Riconobbe la vedova di Cristo dagli
stivaletti neri allacciati in modo castigato agli stinchi. Chissà
dov’erano le altre undici. Ma non riusciva a immaginare che
qualcuna potesse essersi salvata dalla furia di una belva rimasta
in gabbia per così tanto tempo.
Quando finalmente arrivò davanti alla cella aperta, sperò
ancora di rinvenire il corpo senza vita del vecchio serial killer.
Assurdamente, una parte di lui confidava che il Maestro delle
ombre si fosse suicidato. Invece era solo fuggito chissà dove.
La valigia con gli abiti maschili e il rasoio, pensò subito il
penitenziere. Matilde lo avrebbe atteso fuori dalle mura del
Vaticano, i bastioni che l’avevano tenuto prigioniero per ventitré
lunghissimi anni. Il mondo non aveva mai saputo dell’esistenza di
Cornelius. Adesso, invece, il mostro era libero. «Libero e
pericoloso» si corresse Marcus a bassa voce.
Van Buren, però, non era scappato senza salutare. Aveva
lasciato qualcosa per lui sulla branda. Un regalo. L’incunabolo di
Plinio il Vecchio, che il penitenziere stesso gli aveva procurato
prelevandolo quella notte dalla Biblioteca Angelica.
La copertina di pelle dell’antico manoscritto era lacerata.
Ecco dov’era nascosta la lama, si disse Marcus. Anche se
faceva le pulizie, Matilde Frai aveva una laurea in lettere e
filologia. È stata lei a mettere l’arma nel libro – che stupido sono stato.
All’interno della prima pagina dell’incunabolo c’era un
messaggio, scritto di proprio pugno da Cornelius.

Mio caro Marcus,
sento il dovere di spiegarti. Non solo perché sei stato
parte determinante, anche se inconsapevole, del mio
progetto. Ma soprattutto perché, che tu ci creda o meno, in
questi anni mi sono affezionato a te.
Nel momento in cui mi hanno rinchiuso in questo posto,
ho capito con gelida certezza che non sarei più uscito. Un
giorno sarei morto e mi avrebbero seppellito nel piccolo
cimitero dietro il convento, dove le vedove di Cristo
ripongono i resti delle consorelle. Sulla mia tomba ci sarebbe
stata una lapide anonima. E nessuno avrebbe mai conosciuto
la storia dell’essere umano sepolto sotto quella pietra.
Ho convissuto con quest’idea per molto tempo. È stato
l’aspetto più insopportabile della prigionia.
Perciò, prova a immaginare quando mi sono trovato di
fronte una giovane novizia. Era piena di vita e dotata di una
fede purissima. Ma proprio la fede è il più potente additivo
dell’esistenza, ed è su di essa che ho costruito il mio piano per fuggire.
L’avevano incaricata di portarmi il pasto. Così, una volta
al giorno, veniva da me. Provavo a parlarle, ma lei rispettava
il voto del silenzio. Poi le ho nominato un incunabolo di
Plinio il Vecchio e, sorprendentemente, da sotto il drappo
nero è arrivata una risposta.
Una frase breve, ma è stata sufficiente. Matilde mi ha
detto sottovoce: «Lo conosco».
È iniziato un dialogo paziente, fatto di parole rubate con
fatica. Il segreto è che non l’ho mai ingannata. Alla fine, la
mia sincerità l’ha convinta che la cosa migliore era
proseguire nel mondo reale la sua missione. Ha dismesso il
proprio abito e ha resuscitato per me l’antica setta della
Chiesa dell’eclissi.
Il suo proselitismo ha convinto un vescovo pieno di
innominabili tentazioni. Un fabbricante di giochi perversi.
Un principe bulgaro con il cuore infranto e la passione per la
chimica. E anche, come sai, molti altri. Fra cui uno
spacciatore e un commissario di polizia.
La mia sacerdotessa li ha riuniti sotto un’unica effige: il
tatuaggio del cerchio blu. E con un solo scopo: restituirmi la libertà.
Ma avevamo bisogno di un’eclissi.
Ci sono voluti molti anni. L’attesa è stata lunga e
pesante. Poi un giorno, inaspettatamente, un segno divino: il
blackout.
Lo so, adesso ti starai domandando che ruolo ha avuto in
tutto questo la scomparsa di un bambino. Non voglio privarti
della gioia di scoprire da solo il motivo per cui era
necessario che Tobia fosse prigioniero, proprio come me.
Però posso rivelarti che l’idea del suo rapimento mi è
stata suggerita da Leone X.
Prima di emettere la bolla con cui ordinava che Roma
non restasse «mai mai mai» al buio, aveva fatto un sogno
premonitore: una visione della propria morte. Il fatto che poi
sia defunto realmente nove giorni dopo ha contribuito ad
alimentare dubbi e misteri. In realtà, il papa del
Cinquecento, come tutti i potenti, era diventato paranoico. I
comuni esseri umani temono solo per la propria vita, i
potenti non godono di tale privilegio.
La loro paura più grande è morire privati del proprio potere.
Adesso però ti lascio, amico mio. Il viaggio che mi
attende è lungo e non sono ancora certo che, alla fine, ce la
farò. Ma i timori che provo ora nel mio cuore sono anche
incredibilmente piacevoli. Avevo scordato quanto fosse
imprevedibile l’esistenza. Là fuori mi attendono ostacoli e
impedimenti, ma sono felice perché di questo, in fondo, è
fatta la vita di ogni essere umano.
Quanto a noi due, continuerò a pensare a te con paterno
affetto. So che mi cercherai, quindi è probabile che ci
rivedremo. Lasciamo che sia il destino a decidere per entrambi.
Intanto, mi auguro che recuperi la memoria di ciò che ti è
accaduto ieri notte.
Tuo
Cornelius Van Buren

Marcus richiuse l’incunabolo e si sedette sulla branda. Era
sfinito dalla propria sconfitta. Non avrebbe mai potuto raccontare
una simile verità a Sandra, non senza svelarle il segreto che il
Vaticano teneva prigioniero da ventitré anni un simile mostro.
Era scappato da casa di Matilde Frai senza una spiegazione,
perché sperava solo di fare in tempo a fermare Cornelius. Ma il
serial killer era stato più rapido di lui.
Due passaggi del suo messaggio l’avevano colpito. Il primo
era l’augurio finale di recuperare la memoria. Perché mi stavo
occupando di questo caso?, si domandò per l’ennesima volta il
penitenziere e si maledisse ancora.
«La loro paura più grande è morire privati del proprio potere»
ripeté, rammentando la seconda frase dello scritto che lo lasciava perplesso.
Poi, finalmente, un’intuizione. Le parole dette in punto di
morte a Sandra dal commissario Crespi.
Un ricatto, si disse, e tutto fu improvvisamente chiaro.

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