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Il maestro delle ombre
| Donato Carrisi Il maestro delle ombre |
| IL TRAMONTO |
| 16 5 ore e 3 minuti all’alba La dimora dei Šišman era in via della Gatta. A pochi passi c’erano via del Corso e la galleria Doria Pamphilj. In un’area molto ristretta del centro storico vi erano alcuni fra i palazzi più belli e misteriosi della nobiltà romana. La via prendeva il nome da una gatta di marmo, rinvenuta fra le rovine di un antico tempio dedicato a Iside e quindi posizionata su uno stabile del Cinquecento. Aveva ispirato due leggende. La prima voleva che il felino guardasse in direzione del punto in cui era nascosto un tesoro, che però nessuno aveva mai trovato. La seconda era la storia di un bambino in bilico sul cornicione. Si narrava che la gatta avesse richiamato l’attenzione della madre col proprio miagolio, impedendo così che il piccolo cadesse nel vuoto. Marcus pensò subito a Tobia Frai: chissà se sarebbe riuscito a evitare che precipitasse nel baratro della Chiesa dell’eclissi. Si introdusse nel palazzo scassinando la grata della vecchia carbonaia e si ritrovò nei locali che un tempo ospitavano le cucine. Salì lungo una stretta scala a chiocciola. Al primo piano c’erano solo alloggi di servizio, perciò proseguì verso il secondo, il cosiddetto piano nobile. Sbucò da una porta celata nel muro affrescato, che di solito veniva usata dalla servitù. La casa era buia e silenziosa. Marcus era sicuro che Nikolay Šišman – l’Alchimista – si nascondesse lì da qualche parte. Avvertiva la sua presenza, come un presagio cattivo. Per questo, prima di iniziare la ricerca, il penitenziere si inginocchiò e chiuse gli occhi. Dopo essersi fatto il segno della croce, a bassa voce iniziò a pregare. «Dio, conferiscimi il potere di scorgere i segni del male per scacciarlo da questo mondo. Fa’ che il mio sguardo sia incontaminato, il mio udito integro, i miei gesti incorrotti. Soprattutto, fa’ che la mia mente sia pura nella ricerca della verità. Concedimi la forza di vedere, così l’umile servo potrà adempiere in tuo nome al proprio dovere. E proteggimi dall’oscura minaccia del peccato… Amen.» Poi Marcus riaprì gli occhi. Come sempre, la prima sensazione fu che il mondo intorno a lui fosse cambiato. Lo spazio vuoto aveva assunto una consistenza diversa, una specie di spessore. Era come muoversi in un liquido. Il tempo aveva iniziato a dilatarsi, rallentando. Si era aggiunta una nuova dimensione, più profonda. Il compito del penitenziere era scandagliare quell’abisso. Avvertì subito un odore di incenso e candele spente. Lo seguì, incamminandosi per le stanze del palazzo. Erano soprattutto saloni che si susseguivano e sembrava non dovessero finire mai. Mobili antichi, seta cinese e velluti, arazzi e dipinti rinchiusi in vistose cornici barocche. Marcus poteva avvertire il lavorio dei tarli che divoravano dall’interno i legni e le preziose tappezzerie. Nonostante l’apparenza, tutto rischiava di crollare da un momento all’altro, come la quinta di una grottesca messinscena. Giunse in una grande camera con un letto a baldacchino. In un angolo della stanza era stato allestito un laboratorio chimico che adesso era coperto da un telo opaco di plastica. Il penitenziere lo levò. Riconobbe un miscelatore, il cromatografo, un distillatore. Accanto alla bilancia di precisione c’era persino una colonna di Vigreux. Imbuti, pipette e vetrini, e un microscopio. Tutto l’occorrente per creare l’illusione della guarigione, si disse ripensando al tentativo disperato di Nikolay di curare la moglie Penka da una grave malattia. Su un ripiano era posata una boccetta di vetro rosa, trasparente. Sembrava un profumo da donna, ma sopra l’etichetta c’era scritto: «Cloridrato di fenetillina». Marcus la ripose subito perché si accorse di una porticina dalla parte opposta della stanza. Il penitenziere si avvicinò e appoggiò una mano sul battente, spingendolo piano. Era una cameretta. C’erano un letto singolo e un armadio laccato di bianco. Le pareti erano rivestite di una carta da parati azzurro polvere. Accostato alla finestra, un banchetto con dei libri e un pallottoliere. C’erano un cavalluccio a dondolo e un trenino di legno con le rotaie. Su uno scaffale erano schierati i soldatini di piombo, su un altro erano esposte le macchinine di latta. C’erano un orso di peluche e un pagliaccio a corda che, caricato a dovere, suonava il tamburo. Gli venne in mente la collezione del Giocattolaio. Ma era la stanza dei balocchi di un bambino ormai vecchio. Cornelius non gli aveva parlato di alcun figlio dei Šišman, ma era verosimile che quelle cose appartenessero all’infanzia di Nikolay. Quando si voltò per uscire, gli cadde lo sguardo sulla cornice della porta. Ecco l’anomalia. C’erano delle tacche. Accanto a ognuna una misurazione. Erano del tutto simili a quelle che aveva notato nella cucina di Matilde Frai e che si fermavano al 22 maggio di nove anni prima – tristi testimonianze di un’abitudine interrotta con la scomparsa del suo bambino. Quelle che Marcus aveva davanti, invece, iniziavano dal giorno 23 e proseguivano fino a qualche giorno prima. È qui, si disse pensando a Tobia. Questa è la sua stanza. Immaginò un ragazzino imprigionato nel passato. Costretto a vivere in cattività in una casa enorme, insieme a un uomo impazzito di dolore. Un bambino malinconico che, da grandi finestre, guardava il mondo esterno andare avanti nel tempo, ma che nessuno là fuori riusciva a vedere. Marcus provò un’immensa pena per lui. Continuò l’esplorazione dirigendosi al terzo piano. Stavolta per salire usò la scala padronale. La prima stanza che incontrò era un vestibolo dalle pareti grigio scuro, adibito a guardaroba. In un armadio a muro erano appese ordinatamente delle tuniche nere. Poco più in là, una grande scarpiera che però era vuota. Il penitenziere registrava tutto con la mente, annotava ogni dettaglio. Per questo, quando varcò la soglia della seconda stanza rimase impietrito. Nulla avrebbe potuto prepararlo alla visione di ciò che aveva davanti. La scena, sospesa ai confini dell’irrealtà, era un incubo cosciente. Nel buio c’erano delle figure che lo aspettavano. Schierate in diverse file, formavano un semicerchio intorno a lui. Dalle loro teste s’innalzavano strane forme – alcune erano singolari geometrie, altre erano simili a corna o pennacchi. Le figure erano immobili e lo fissavano. Marcus si sentì gelare, ma avanzò verso di loro. Non erano persone, ma torsi umani. Ognuno infilzato in un palo che poggiava su una base. Manichini. Sul capo era posata una maschera rinascimentale di incredibile fattura. Il penitenziere si aggirò in quel lugubre veglione. Le maschere erano fatte di cartapesta ma anche di ceramica o di legno. Intarsiate con pizzi e merletti. Alcune erano arricchite di lapislazzuli e piccole pietre colorate. Altre erano adornate con piume di pavone o di uccelli esotici. Nasi allungati e adunchi, oppure delicati. Occhi grandi o felini, senza orbite. Alcune terminavano con una grande corolla, altre con un pomposo copricapo. Lasciatosi alle spalle la stanza delle maschere, finalmente il penitenziere entrò nel grande salone delle feste. Unico arredo, i tre candelabri di cristallo che incombevano sulla pista da ballo. Da uno di essi pendeva un corpo. Marcus si avvicinò e vide che si trattava di un uomo sulla settantina appeso per un piede a testa in giù. La corda legata alla caviglia destra lo faceva girare lentamente su se stesso – terminava un giro e poi cambiava il verso della rotazione. Sotto di lui una distesa di scarpe di tela bianche, anche se il cadavere ne indossava un paio nere. Marcus le riconobbe. Erano le sue. Al penitenziere non sfuggì l’ironia dell’assassino. Ecco dov’erano finite, si disse. Ed ecco anche perché, quella mattina all’alba, aveva trovato quelle di tela accanto ai propri vestiti nel Tullianum. Tuttavia, dovette constatare che la tortura toccata a Nikolay l’Alchimista era peggiore dell’essere chiusi al buio in una specie di cisterna di tufo, nudo e ammanettato ad attendere una morte per inedia. Quello che aveva davanti era sicuramente il supplizio più semplice ma terribile che potesse immaginare. Il sangue, che solitamente grazie a un ingegnoso meccanismo biologico riusciva a risalire il corpo ingannando la gravità, dopo due ore in quella posizione confluiva massicciamente nel cervello provocando prima una strana euforia e poi emicranie a grappolo, con fitte intense e accecanti lampi di luce. Dopo quattro o sei ore, a seconda della resistenza del condannato, i muscoli della gamba iniziavano a strapparsi e le ossa a staccarsi per l’impossibilità di reggere così a lungo il peso del corpo in una postura innaturale. La sofferenza era inenarrabile. La terza fase, la più tremenda, cominciava dopo circa dodici ore, quando gli organi interni erano costretti ad abbandonare la propria posizione originaria e si andavano ad ammassare sul fondo della cassa toracica, al livello delle spalle. Cominciavano a spingere l’uno contro l’altro come una folla disperata che cerca una via d’uscita in un budello. Però la morte sopraggiungeva soltanto quando il cuore, stremato dalla fatica, esplodeva improvvisamente. Marcus avrebbe voluto urlare la propria rabbia. Aveva trovato il luogo di detenzione di Tobia e anche l’Alchimista, ma il bambino non c’era. L’aveva portato via l’assassino o era nelle mani del Maestro delle ombre, il vertice della Chiesa dell’eclissi? Il penitenziere non aveva elementi per sciogliere l’enigma. E se si fosse trattato della stessa persona? No, si disse. C’era ancora qualcosa che non riusciva a comprendere. Dato che non aveva motivi per rimanere al buio, accese la torcia e la puntò su Nikolay Šišman perché voleva sapere almeno che faccia avesse. L’appeso lo guardava con occhi sgranati e con la lingua che fuoriusciva dalla bocca aperta, come una smorfia insolente. Sulla parete alle spalle del cadavere, Marcus notò delle foto incorniciate. Si avvicinò e cominciò a passarle in rassegna con l’ausilio della luce. Erano scatti in bianco e nero di veglioni del passato. Gli ospiti in smoking e abito da sera indossavano le maschere rinascimentali, dando vita a un piacevole miscuglio di epoche e stili. Danzavano nella sala da ballo illuminata. A Marcus sembrò di sentire l’eco del jazz dolce e ritmato dell’orchestra. Alcuni invitati fumavano ai tavolini, altri bevevano champagne servito da camerieri in livrea. Si percepiva la loro allegria. Il penitenziere pensò subito alle feste di Penka Šišman, era sicuramente lei l’animatrice di quelle serate. Da un certo momento in poi, però, nelle foto mutava radicalmente l’atmosfera. L’allegria spariva. Gli smoking e gli abiti da sera venivano sostituiti da lunghe tuniche nere. Le scarpe lucide e col tacco da calzature di tela bianche. Gli sguardi dietro le maschere diventavano vuoti e inespressivi. Penka era morta, lo si capiva subito. Le feste erano diventate qualcosa di diverso. Il carnevale si era trasformato nel rito oscuro della Chiesa dell’eclissi. «Ora ai suoi ospiti chiedeva di compiere rituali di magia, sedute spiritiche» aveva detto Cornelius a proposito del cambiamento di Nikolay dopo la scomparsa della moglie. Davanti agli occhi del penitenziere quella metamorfosi era evidente. Innocue riunioni goliardiche e conviviali si erano convertite in un perverso culto pagano. Scene orgiastiche condite da misteriosi simbolismi. In alcune erano presenti animali: un agnello, un cane nero, un corvo, un gatto. Seguendo le foto sulla parete, Marcus si soffermò su un’immagine risalente a molti anni prima. Al centro di un cerchio di maschere c’era una ragazza nuda. Il suo corpo era giovane e flessuoso. E il volto non era celato, era visibile. «Ricordo che ero a una festa, e che non ero in me. Ho scoperto di essere incinta un mese dopo.» Le parole di Matilde Frai riecheggiavano ancora nelle orecchie del penitenziere. Ma dall’espressione nella foto la donna non dava l’idea di aver perso il controllo di sé. Al contrario, dominava la scena. Era provocante e ammiccava chiaramente verso l’obiettivo. «Mio Dio, salvaci» disse Marcus al silenzio della sala da ballo quando vide il cerchio azzurro tatuato sul suo ventre. L’ex suora era una di loro. |
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