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Donato Carrisi
Il maestro delle ombre
IL TRAMONTO
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Tornarono alla casa staffetta a bordo dell’enduro.
Non era possibile portare la valigia con sé, così l’avevano
affidata al portiere di notte perché la custodisse per loro. Avevano
lasciato l’hotel Europa aggrappandosi a una elementare
deduzione, cioè che quel bagaglio rappresentasse la prova che,
dopo nove anni, Tobia Frai era ancora in vita. Ma c’era comunque
una stranezza: perché la valigia conteneva solo pochi abiti? Uno
per ogni anno d’età del bambino. Sembrava essere stata preparata
apposta per mandare un messaggio.
Esattamente quel messaggio: Tobia è vivo, venitelo a cercare.
Chi era il destinatario? E perché?
Forse il commissario Crespi avrebbe potuto aiutarli a ottenere
le risposte. Con l’intenzione di confrontarsi con lui, giunsero in
via del Governo Vecchio.
«Va’ dal tuo amico» disse Marcus. «Chiedigli se sa qualcosa e
non lasciarti intenerire. Ho l’impressione che quelli della Chiesa
dell’eclissi non abbiano ancora ucciso Tobia per un motivo, ma
stanotte potrebbe essere il momento giusto.»
«Tu non vieni?» chiese Sandra.
«Devo sbrigare una faccenda» disse soltanto, e le passò uno
dei due telefoni satellitari. «Il primo che ha una novità contatterà
l’altro.»
«D’accordo» convenne lei.
Marcus controllò il livello del carburante della Honda. Era in
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riserva.
«Cosa devi fare di così importante?» lo incalzò Sandra, che
non sopportava di essere lasciata all’oscuro.
«Devo trovare un libro» rispose il penitenziere. Poi innestò la
marcia e si allontanò.
Mentre saliva in casa, la poliziotta continuava a domandarsi
cosa avesse voluto dire Marcus con quella frase. Di che libro
parlava? Cosa aveva in mente? Giunta sul pianerottolo, bussò alla
porta perché Crespi si era chiuso dentro. Non ottenne risposta.
Provò di nuovo, stavolta più forte. Poteva essersi addormentato,
ma lei non ne era così convinta. Estrasse il revolver e sparò un
colpo alla serratura.
La porta si spalancò.
Puntò la torcia. All’interno sembrava tutto tranquillo.
Accanto al camino spento c’era un pacchetto di sigarette vuoto,
accartocciato. «Crespi, ci sei?» chiamò, e intanto avanzava piano
con l’arma in pugno. Controllò in cucina e anche in bagno, ma il
commissario non c’era. Una delle stanze, però, era chiusa.
Stavolta Sandra non provò nemmeno a bussare. Sparò
direttamente allo stipite e spinse la porta con un calcio.
Una nuvola grigia la investì. Cominciò a tossire. La polvere
finissima le era andata anche negli occhi e iniziò a lacrimare, ma
riuscì lo stesso a vedere il corpo esanime del commissario sul
pavimento. Si sollevò il colletto della tuta sulla bocca ed entrò.
L’uomo era a pancia in giù, stringeva in mano un mozzicone
di candela. Sandra lo voltò. Era ancora vivo.
Lo prese per le ascelle e lo trascinò in corridoio. La polvere
scura li seguiva come uno spettro curioso, poteva ancora
soffocarli entrambi. Cenere, si disse lei. Com’era possibile?
Avvicinò una mano alla bocca e al naso di Crespi, il respiro era
flebile. Doveva liberargli le vie aeree. Lo lasciò lì e corse in
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cucina a cercare dell’acqua. Dai rubinetti usciva solo melma e,
mentre rovistava fra gli scaffali della dispensa in cerca di qualche
bottiglietta, rammentò un metodo usato dagli antichi romani per
far confessare i prigionieri. Li chiudevano in una stanza con il
pavimento cosparso di cenere e li lasciavano lì finché non
parlavano. Il pulviscolo era talmente leggero che veniva
facilmente inalato, poi andava a depositarsi con rapidità nei
polmoni, dove si ricompattava senza lasciare scampo. In realtà,
anche i prigionieri che alla fine parlavano e venivano liberati
morivano dopo pochi giorni, a causa dell’ostruzione degli alveoli.
Una tortura, si disse Sandra. E a Crespi, incallito fumatore,
era valsa anche da contrappasso.
Ma c’era un timore peggiore di ogni altro. L’assassino che
stava uccidendo uno a uno i membri della Chiesa dell’eclissi era
arrivato anche lì e aveva lasciato una trappola per il commissario.
Come aveva fatto?
Tornò con dell’acqua minerale e gliela versò in bocca, ma lui
la risputò. Però aprì gli occhi e la vide. La fuliggine che gli
ricopriva il volto fu scavata da una lacrima. Crespi sollevò una
mano e, col dito sporco di cenere, scrisse qualcosa sul muro
accanto a sé. Una parola.
Ricatto.
Sandra si accorse che avrebbe voluto dirle altro, ma non ci
riusciva. «Abbiamo scoperto che Tobia è ancora vivo» gli
mormorò, pensando che volesse parlare di quello.
Il commissario annuì.
«Sai dov’è o dov’è stato in tutti questi anni?»
L’altro fece cenno di no con la testa.
«Allora cosa?»
Crespi si sforzò di parlare, ma non ce la faceva a emettere dei
suoni. Il respiro era diventato affannoso, straziante. Sollevò di
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nuovo la mano verso la parete e stavolta cominciò un disegno.
Era uno strano sole, piuttosto infantile, però i raggi non
s’irradiavano all’esterno, bensì all’interno del cerchio.
«Non capisco» disse la poliziotta, esasperata. «Che cos’è?»
Ma Crespi distolse lo sguardo da lei e puntò gli occhi al
cielo. L’affanno divenne rantolo e, poco dopo, il torace smise di
sollevarsi. Sandra lo osservò per un lungo momento. Poi con una
carezza gli abbassò le palpebre.
«’Ricatto’ e poi un cerchio con dei raggi dentro» disse a se
stessa. Ma non aveva tempo di pensare al significato del
messaggio. La casa staffetta non era più sicura. Doveva andare
via. Subito.
 

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