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Donato Carrisi
Il maestro delle ombre
IL TRAMONTO
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6 ore e 43 minuti all’alba
Si risvegliò quando avvertì il liquido caldo che gli scorreva
fra le gambe. Mi sono pisciato addosso, pensò Vitali.
Poi, come un cazzotto in pieno volto, arrivarono i ricordi.
Sono morto, si disse. No, non sono morto, si corresse. Però
dovrei essere morto, questo sì. Provò ad aprire gli occhi. Ne aprì
soltanto uno, perché una parte del volto era tumefatta, lo
avvertiva chiaramente. Era buio. Puzza di acqua stagnante e olio
lubrificante. Piccole gocce riecheggiavano nel silenzio. Dove
sono? Provò ad alzarsi, aveva male ovunque. L’ultima immagine
che rammentava era di essere stato sbattuto ripetutamente dalla
corrente contro le pareti di una galleria, come un pupazzo di
pezza. Quando provò a voltare il busto, nello sguardo esplosero
migliaia di luci, come fuochi d’artificio. E urlò di dolore. Non
sentiva più il braccio destro, probabilmente aveva una spalla
lussata. Con fatica si rimise in piedi. Era difficile conservare
l’equilibrio, i capogiri si divertivano a ingannare il suo
orientamento. Era scalzo, ma ciò era sopportabile. Non lo era,
invece, aver perso i mocassini marroni a cui teneva tanto.
«Ehi» gridò all’oscurità che subito gli restituì la sua stessa voce.
Era sottoterra, ma non si trovava più nelle fogne, di questo
era sicuro. L’acqua poteva averlo trascinato ovunque. Il
sottosuolo di Roma era ricco di sorprese geologiche e storiche,
alcune non ancora rivelate. L’idea di essere finito in un cazzo di
tempio dedicato a Giove che si trovava a cinquanta metri di
profondità non lo allettava, anche se forse era il primo essere
umano a metterci piede dopo migliaia di anni. Rise a quel
pensiero – anche se le costole gli facevano un male terribile, lui
rise forte. Aveva immaginato la faccia degli archeologi quando
l’avrebbero trovato. Si sarebbero domandati cosa ci facesse lì una
mummia con un completo grigio chiaro e la cravatta blu. Forse
finirò esposto in un museo, si disse l’ispettore.
La risata gli aveva fatto bene. Sono ancora vivo, perciò tanto
vale giocarsi anche questa chance.
Provò ad avanzare sulle gambe malferme e inciampò al primo
passo, sbattendo nuovamente la faccia al suolo durissimo. Aveva
voglia di bestemmiare, provò a scalciare l’ostacolo che aveva
provocato la caduta e solo allora si accorse che c’era qualcosa
avvinghiato alla sua caviglia, simile a una biscia. Scattò
all’indietro, ma la bestiaccia non voleva mollare la presa. Quando
finalmente si calmò, trovò anche il coraggio di allungare il
braccio sano per liberarsene.
Non era un serpente, ma la tracolla di una borsa.
Vitali la tirò a sé, aprì la zip e cominciò a frugarci dentro.
L’interno era asciutto. C’era perfino della carta ancora integra. Al
tatto avvertì una consistenza familiare. Un distintivo. Sandra
Vega, pensò. La borsa era sua. Rammentò di essersi aggrappato
alla tracolla per non affogare. Sperò con tutto il cuore che la
collega fosse una fumatrice o che si fosse portata appresso un
accendino nel caso le fosse capitato d’accendere qualche candela.
Dimmi che l’hai fatto, stupida idiota. Infatti, lo trovò.
Lo afferrò con la mano sinistra e tentò di azionarlo con il
pollice. Ma non era mancino e per poco non gli scappò la presa.
L’idea di smarrire l’unica speranza di sopravvivenza lo atterrì.
Calma, si disse. E ci riprovò.
La fiammella si accese e subito si spense. Ma in quell’unico
attimo gli era apparso un antro buio. Nessun tempio, pensò. E poi
c’era una leggera corrente d’aria di cui lui non si era accorto, ma
l’accendino sì. Al terzo tentativo protesse meglio il fuoco. Il poco
calore che si irradiava lungo la sua mano lo confortò. Poi iniziò a
ruotare la fiammella intorno a sé. Era in un tunnel. L’acqua aveva
abbattuto la parete della fognatura alla ricerca di una via di fuga,
irrompendo in una galleria molto più grande. Ma fu quando
abbassò l’accendino che Vitali capì esattamente dove si trovava.
Due pezzi d’acciaio brunito che correvano paralleli nel buio.
Binari, si disse. La metropolitana.
Si alzò nuovamente da terra e, con qualche sforzo, si mise a
seguire le rotaie. Guardò in una direzione e poi nell’altra. Doveva
decidere da che parte andare. Non era una scelta semplice, perché
poteva incontrare nuovamente il fiume sotterraneo, essere travolto
da uno smottamento o – peggio – da una frana. Sarebbe stata una
fine troppo beffarda dopo che era sopravvissuto a un sicuro
annegamento.
Con la borsa della Vega a tracolla e il braccio destro che gli
penzolava lungo il fianco, optò per la propria sinistra – che era
anche la direzione da cui proveniva il venticello che aveva
avvertito poco prima.
La fiamma si spense più volte durante il tragitto, ma dopo
duecento metri giunse finalmente in una stazione. «Flaminio»
lesse sul cartello, poi trovò il modo di arrampicarsi sulla
banchina. Qui individuò subito un pilastro. Si avvicinò e, dopo
averlo puntato col fianco destro, prese una breve rincorsa e vi si
schiantò. Il grido di dolore si disperse rapido nell’eco. Aveva le
lacrime agli occhi, ma la spalla era tornata nella propria sede
naturale. Vitali provò più volte ad aprire e richiudere la mano.
Faceva ancora male, ma andava meglio.
Poco dopo, salì al piano dove c’erano i tornelli e le
biglietterie automatiche. C’era anche un distributore di bibite
spento. Il poliziotto avrebbe voluto tanto appoggiare le labbra
aride sulla lattina di una bibita, anche calda. Provò a
manomettere la macchinetta e poi a rompere il vetro usando il
distintivo che aveva trovato nella borsa, ma era troppo spesso. La
felicità era a portata di mano, ma lui dovette rinunciare. Prima di
andarsene, però, vide il riflesso del proprio volto. Una metà, in
effetti, era una maschera di lividi violacei. Ci vorrà una vita prima
di scopare di nuovo, pensò.
Imboccò le scale che conducevano in superficie e si trovò
davanti la cancellata che chiudeva l’entrata della metro. Per
fortuna qualcuno l’aveva divelta, altrimenti sarebbe rimasto là
chissà per quanto. Uscì sul piazzale e rivolse subito lo sguardo in
direzione della porta Flaminia, che prendeva il nome dall’antica
strada consolare.
Oltre gli enormi bastioni, cominciava piazza del Popolo,
fulcro degli scontri della nottata. Al momento, però, da lì
proveniva solo un inquietante silenzio, reso più spettrale dal
bagliore dei fuochi.
Vitali si avviò e, poco dopo, superò l’arco risalente all’anno
mille. Davanti a lui si stendeva un deserto di rifiuti e resti umani.
Pensò subito ai barbari, ma ciò che vide non assomigliava
nemmeno lontanamente alle descrizioni che c’erano nei libri di
scuola del sacco di Roma del V secolo dopo Cristo, a opera di
Alarico e dei Visigoti. L’episodio sanguinoso era stato
interpretato da sant’Agostino come la punizione divina contro la
Roma capitale dei pagani che non voleva accettare il
cristianesimo. Stavolta, però, i barbari non erano invasori. Per
buona parte, erano nati e cresciuti lì.
Il morbo, si disse.
I leoni di pietra a guardia della fontana e dell’imponente
obelisco erano stati sfigurati. In più punti della piazza bruciavano
dei falò. C’era una camionetta del reparto celere. Erano stati i
primi ad accorrere allo scoppiare dei tumulti, rammentò
l’ispettore. Il mezzo era stato abbandonato dagli agenti e poi
qualcuno se n’era servito per issarsi su un lampione. Sul palo era
legato, mani e piedi, un uomo in divisa.
L’avevano ammazzato di botte.
Il viso era sfigurato, non sembrava più avere un osso sano in
tutto il corpo, ma Vitali notò che l’orologio che aveva al polso
continuava a funzionare. Ridicolo, pensò. Lo conosceva? Forse
sì. Chissà quante volte si erano incrociati nei corridoi della
questura. Avrebbe voluto dire una preghiera. Ma non era mai
stato bravo a rivolgersi ai santi e adesso non sapeva da dove
cominciare. L’unica cosa che poteva fare per i morti era
sopravvivere. Perciò salì a bordo della camionetta. Nonostante gli
pneumatici fossero a terra, mise in moto e si allontanò lasciando
solo il cadavere del poliziotto.
Era stato fortunato a riuscire a passare fra le auto e i bidoni
della spazzatura messi di traverso lungo le strade. Ma poi aveva
dovuto abbandonare il mezzo in via Veneto e proseguire a piedi.
La strada della Dolce vita era stata trasformata in un bivacco. Un
tappeto di bottiglie, vetrine distrutte, scritte sui muri. L’Excelsior,
il Grand Hotel, il Baglioni e gli altri lussuosi alberghi a cinque
stelle avevano subito un vero e proprio saccheggio. Dalle facciate
annerite e ancora fumanti non si sentiva provenire alcun suono,
alcun lamento.
Finalmente, giunse all’ingresso del bunker del formicaio.
Fuori, però, c’era uno sbarramento di mezzi e uomini armati. Il
braccio destro gli faceva ancora male, ma avanzò con le mani
alzate, sperando che nessuno avesse i nervi così tesi da sparare a
prima vista.
Si levò una voce. «Chi va là?»
«Ispettore Vitali» rispose.
«Si qualifichi meglio» disse l’altro di rimando.
«Ho un distintivo qui con me, ma devo avvicinarmi di più
perché possiate vederlo.» Si riferiva a quello rinvenuto nella
borsa della Vega.
«Resti dov’è e si qualifichi, ho detto.»
Vitali sospirò, non c’era verso di far ragionare un ottuso in
divisa. «Sono a capo dell’ufficio statistiche su crimine e
criminalità» e gli venne quasi da ridere mentre ripeteva quella
solfa. Dall’altra parte seguì un silenzio. A quanto pareva,
qualcuno stava verificando.
«Va bene, può passare» disse la voce. «Ma continui a tenere
le braccia sollevate.»
Lo visitò il medico del formicaio. Gli furono riscontrate
diverse piccole ferite e contusioni varie, nonché la frattura di uno
zigomo. Per precauzione, il dottore gli fasciò la spalla e gli diede
una scatola di Toradol in pillole.
Vitali fece una doccia nel bagno dell’ambulatorio, poi gli
diedero anche degli abiti puliti – dei jeans, una polo e un paio di
Adidas che sembravano uscite da un negozio vintage. Riuscì
perfino a farsi portare una bibita fredda e la gustò ripensando alle
lattine chiuse nella cassaforte del distributore spento della metro.
Mandò giù le prime due pasticche di antidolorifico, ma avrebbe
dato qualsiasi cosa pur di poter fare una sola, magnifica tirata di
cocaina.
Quando ebbe finito di rifocillarsi, decise di rimettersi al
lavoro. Forse Sandra Vega e il suo strano amico silenzioso erano
crepati nelle gallerie, ma poteva esserci ancora una pista aperta
che li riguardava.
Mancavano alcune ore all’alba e Vitali aveva solo
quell’occasione per fermare il morbo prima che dilagasse oltre i
confini del centro città. Il maltempo e il blackout erano stati la
causa del contagio, ma in fondo avevano anche svolto un’opera di
contenimento, simile a una forzata quarantena.
Per capire quanto la Vega fosse coinvolta, o quanto realmente
sapesse di quella storia, frugò nella sua borsa. S’imbatté di nuovo
nel foglio di carta che aveva riconosciuto al tatto nel tunnel della
metropolitana. Lo aprì. Era un elenco.
Metodo di uccisione: antiche pratiche di tortura.
Scarpe di tela bianche (Marcus e vescovo Gorda).
Ostia nera (drogato).
Tatuaggio del cerchio azzurro: Chiesa dell’eclissi.
Sacrifici di vittime innocenti.
Blackout – Leone X.
Taccuino misterioso.
Tobia Frai.
La lista si concludeva con un’aggiunta in calce.
Elemento accidentale: amnesia transitoria Marcus.
«Marcus» si disse Vitali ripetendo il nome sottovoce. Ricordò
che l’uomo con l’epistassi, in effetti, calzava scarpe bianche di
tela. Almeno adesso sapeva come si chiamava e che aveva sofferto
di una momentanea perdita di memoria. Doveva solo scoprire chi fosse.
Dall’elenco si evinceva anche un altro dato. I due avevano
trovato il Vescovo. Vitali era rimasto sorpreso leggendo il nome
di Arturo Gorda. Si era domandato chi potesse essere il
misterioso personaggio della setta, ma non avrebbe mai
immaginato che potesse trattarsi di un vero religioso.
Chissà se avevano scovato anche il Giocattolaio. Ma
all’ispettore interessava soprattutto l’Alchimista. Non era
menzionato sul foglio, però si faceva riferimento a un misterioso
taccuino. Se avesse potuto metterci le mani sopra, forse adesso
avrebbe avuto davvero la soluzione dell’enigma. O forse no.
Mentre ragionava su tutto ciò, un agente venne a chiamarlo.
«Il capo vuole vederla nel suo ufficio.»
Il prefetto De Giorgi lo attendeva insieme al questore Alberti.
Erano entrambi scuri in volto. «Si sieda, ispettore» lo invitò il
capo della polizia.
Vitali prese posto di fronte alla scrivania su cui era aperta una
piantina di Roma.
«Abbiamo notizie buone e altre cattive» annunciò il questore.
«Prima le buone, per favore» chiese Vitali, che non ne poteva
più di disgrazie.
«Siamo riusciti a circoscrivere la rivolta.»
Forse era il caso di non chiamarla più «rivolta», si disse
l’ispettore, ma evitò di farlo presente.
Alberti indicò una zona sulla piantina. «Abbiamo calcolato
che i ribelli sono all’incirca un migliaio. In piazza del Popolo ci hanno
colto di sorpresa perché non ci aspettavamo un’aggressione così violenta.
Ma poi non si sono spinti al di là delle mura aureliane e gianicolensi.»
«Il Tevere in questo ci ha dato una mano» intervenne il capo
della polizia. «Ha impedito che andassero oltre il centro storico della città.»
«Stiamo parlando di un’area di quindici chilometri quadrati,
con una popolazione di ottantacinquemila abitanti.»
Vitali osservò la piantina. «D’accordo… Ora le brutte notizie.»
«Si muovono nel sottosuolo e sbucano all’improvviso
tendendo imboscate ai nostri uomini: parecchi agenti sono feriti,
e c’è anche qualche morto.»
Lo so, avrebbe voluto dire loro l’ispettore. Aveva avuto un
tête-à-tête molto movimentato con tre di loro nelle fogne.
«Continuo a ripetermi che avremmo potuto evitare ciò che sta
accadendo stanotte» disse il capo, esasperato. «Lei ci aveva
avvertiti, ma non le abbiamo dato retta» ammise.
Vitali fece spallucce, come se la cosa ormai non lo
riguardasse più. «La Chiesa dell’eclissi attendeva solo
l’occasione per dare il via alla devastazione. Siccome la prossima
eclissi lunare di Roma è prevista fra sei anni, hanno colto
l’opportunità offerta dal blackout.»
«D’accordo, ha le nostre scuse» lo interruppe il questore.
«Ora, però, deve dirci anche come fermare tutto questo.»
L’ispettore ci pensò su un momento. «Ho sentito dire che in
città sta arrivando l’esercito. Be’, dite a quei soldati che ogni
volta che incontreranno qualcuno che ha lo sguardo spento
devono sparare ad altezza d’uomo.»
«Lei è pazzo» lo apostrofò il capo.
«Voi non riuscite a capire, vero?» Vitali scosse la testa,
divertito. «Vi siete chiusi in questo bel bunker, io invece sono
stato là fuori. E ho visto. E ho sentito. E ho toccato con mano la
distruzione. Voi sostenete che questa roba è circoscritta, io invece
dico che ormai abbiamo perso il controllo: il contagio è inarrestabile.»
Il capo della polizia sbatté il pugno sul tavolo. «Ma ci sarà un modo!»
«Ne ho ammazzati quattro oggi» confessò Vitali, senza timore
delle conseguenze. Il primo era quello che voleva rapinarlo del
portafoglio. «Vi assicuro che non c’è altro modo.» Poi aggiunse:
«L’Alchimista è stato bravo, ci ha battuti sul tempo».
«E non esiste una specie di antidoto?» domandò il capo, spazientito.
«Anche se riuscissimo ad approntarlo, chi ha assunto l’ostia
nera dovrebbe essere sufficientemente in sé per recarsi in
ospedale e farselo somministrare.»
«Allora cosa suggerisce?» chiese il questore.
«Nella migliore delle ipotesi, di affidarci al tempo. In passato
gli effetti del morbo si sono attenuati col passare delle ore.»
«E nella peggiore?»
«Di cominciare a pregare seriamente.» Poi aggiunse:
«Stavolta è diverso dalle altre. Ho avuto l’impressione che la
peste nera si sia evoluta: c’è qualcosa che scatena la violenza di
quei bastardi – anche se non saprei dire cosa». Ripensò ai tre
della galleria, al modo in cui erano scattati contro Sandra e quel
Marcus quando si era spenta la luce della torcia. «Bisognerebbe
catturarne uno per esaminarlo e capire se mi sto sbagliando.»
I due superiori tacquero e si fissarono. «C’è anche un altro
problema» annunciò il capo della polizia.
Vitali ormai aveva perso il conto dei loro guai. «Sarebbe?»
«Il proclama.»
Prima che l’ispettore potesse chiedere spiegazioni, il questore
prese la parola: «Senza cellulari, radio digitali e tv, i cittadini
hanno riscoperto certi agi del passato. Per esempio, si sono
affidati agli apparecchi a transistor per cercare di reperire notizie
su quanto sta accadendo». Poi prese dalla tasca della giacca un
piccolo registratore digitale e lo appoggiò sul tavolo. «Ne siamo
venuti a conoscenza perché il segnale AM ha interferito con i
canali per le comunicazioni di emergenza.»
«Di che state parlando?» domandò l’ispettore.
«Di una trasmissione radio che sta seminando il panico anche
fra i nostri uomini.»
Il questore azionò il registratore. In mezzo a una coltre
d’interferenze, una voce maschile pronunciò con tono mellifluo:
«Attenzione. Questo è il primo comunicato del nuovo ordine
costituito. Abbiamo preso Roma, Roma è nostra. I tutori della
legge e le forze dell’ordine sono già schierati dalla nostra parte.
Ai soldati che dovessero accingersi a entrare nella Capitale
diciamo: state lontani da qui, questa città ci appartiene. Se
varcherete i sacri confini, non tornerete mai più dalle vostre
famiglie, non rivedrete più i vostri figli, mogli, mariti o
fidanzati, e i vostri genitori vi piangeranno… Attenzione, popolo
di Roma: il papa è fuggito e i cattolici sono senza una guida. Le
mura del Vaticano sono cadute e anche la Cappella Sistina è
stata conquistata. Convertitevi al Signore delle ombre, scendete
per le strade e uccidete gli infedeli che oseranno opporsi a voi.
Chi non si adeguerà sarà considerato un nemico della Chiesa dell’eclissi».
Il questore interruppe la registrazione.
Vitali guardò in faccia i due superiori. «Mi state prendendo
per il culo, vero?»
«Magari» rispose il capo della polizia.
«C’è davvero qualcuno che crede a questa roba?»
«Nel 2006, a Mumbai, in India, si diffuse la voce che l’acqua
di mare era diventata improvvisamente dolce. In migliaia
accorsero sulla riva e cominciarono a bere, convinti che si
trattasse di un miracolo.»
«E invece cos’era?» chiese l’ispettore che non capiva cosa
c’entrasse quella storia.
«Una psicosi collettiva» spiegò subito il capo. «L’acqua di
mare non aveva affatto cambiato sapore, ma quella gente era
sicura del contrario.»
«Un’allucinazione?»
«La chiami come le pare. Fatto sta che le deliranti parole che
ha ascoltato rischiano di produrre un effetto analogo, perché
giungono dopo una serie di prove difficili per la popolazione. Si
vuole alimentare ulteriormente il panico e, di conseguenza, il caos.»
Vitali era scioccato. «I soldati non verranno?»
«Certo che sì, fra poco le truppe faranno il loro ingresso in
città» affermò il questore. «Ma i generali del COMLOG vogliono
prima capire cosa devono aspettarsi. In fondo, si tratterebbe pur
sempre della più grossa operazione militare sul suolo italiano dal
dopoguerra.»
«E noi che facciamo nel frattempo?»
«Ci resta solo lei, ispettore.» Il capo della polizia gli
appoggiò una mano sulla spalla ancora sana. «Deve tornare là
fuori, individuare il luogo da cui parte la trasmissione e farla cessare.»
«E credete davvero che basterà?»
«Dobbiamo far capire a questi pazzi e a tutti gli altri che
siamo ancora in grado di reagire, altrimenti quando finalmente
verranno ad aiutarci troveranno solo corpi e macerie.»
L’ispettore rifletté in silenzio. «Va bene.»
«Le forniremo una squadra di sei uomini per muoversi in
sicurezza» gli assicurò il capo della polizia. «Avrete a
disposizione armi e mezzi per trovare quel cazzo di trasmettitore.»
«No, grazie» rispose Vitali. «Ci andrò da solo.»

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