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index_italian_m Il maestro delle ombre


Donato Carrisi
Il maestro delle ombre
IL TRAMONTO
10

Crespi uscì dal formicaio senza che nessuno lo notasse.
Portava con sé un borsone scuro da palestra.
Il posto dell’appuntamento era in via Condotti, la prestigiosa
strada che conduceva a uno degli indirizzi più ambiti della terra:
piazza di Spagna.
La via era celeberrima anche perché ospitava le boutique delle
principali griffe italiane e internazionali, nonché diversi negozi di lusso.
L’Antico Caffè Greco era l’unica eccezione. Fondato nel
1760 da un caffettiere di origini levantine, era diventato col
tempo un cenacolo culturale, ritrovo di intellettuali e artisti di
ogni genere. Oltre che per l’ottimo espresso, il locale era
rinomato per gli arredi – le pareti in rosso pompeiano, i tavoli di
marmo grigio, le sedie di velluto, le lampade liberty e déco, le
specchiere e i dipinti con le cornici dorate.
Crespi aveva esattamente questa immagine nella testa mentre
raggiungeva la destinazione. Aveva con sé una torcia, ma non
l’aveva ancora accesa per paura di essere localizzato da qualche
gruppo di facinorosi. Lo fece solo quando arrivò sul posto.
Stentò a riconoscere l’antro nero che si ritrovò davanti. Ogni cosa
era stata sfregiata dall’ignoranza e dalla bestialità degli sciacalli.
Lo stesso destino era toccato agli altri esercizi commerciali della
via. Svaligiate le gioiellerie di Bulgari e Cartier, depredati Gucci,
Prada, Dior e Vuitton. Ma la vista peggiore si palesò quando fece
scorrere il raggio di luce su piazza di Spagna. Era
irrimediabilmente mutilata. La monumentale scalinata barocca era
un parcheggio di rottami: si erano divertiti a scendere i
centotrentacinque gradini bianchi con le auto. La famosa fontana
conosciuta come «la Barcaccia» era stata in parte rasa al suolo da
una Mercedes.
Crespi si addentrò nell’antro che una volta era il caffè più
bello di Roma. Nulla era stato risparmiato. Appoggiò per terra il
borsone da palestra e si piegò a raccogliere un frammento delle
gloriose tazzine di porcellana con il logotipo del locale. Chissà
quanti avevano posato le labbra su quel bordo liscio e spesso,
alla ricerca di un nobile piacere. Scosse il capo, avvilito.
«Da questa parte» si sentì chiamare.
Camminando su una distesa di cocci di vetro e pezzi di legno
e marmo, giunse nella sala Omnibus, dove alle pareti erano
raccolte le placchette in gesso che testimoniavano il passaggio di
ospiti illustri – da Apollinaire a Bizet, Canova, Goethe, Joyce,
Keats, Leopardi, Melville, Nietzsche, Mark Twain e Orson
Welles, se avesse dovuto citarne alcuni. Ormai erano polvere
bianca sospesa in aria sopra le macerie.
Sandra era in piedi in mezzo alla stanza. Le puntò contro la
torcia. Era scalza, aveva un abito da sera nero strappato in più
punti e le mani infilate nelle tasche di una felpa col cappuccio. I
capelli e il viso erano sporchi di fango. Il suo aspetto si intonava
con la distruzione che avevano intorno. Erano soli.
«Ho portato ciò che mi hai chiesto» disse mostrandole il borsone.
«Bene, appoggialo sul pavimento.»
Crespi obbedì.
«Sono qui per aiutarti, commissario. Ma prima devo capire
quanto sei coinvolto…»
Il poliziotto tacque, poi si slacciò la cintura e si abbassò i
pantaloni all’altezza del fianco sinistro.
Sandra vide il tatuaggio del cerchio azzurro. «Non posso
scordare ciò che hai fatto per me in questi anni, perciò ho deciso
che sono ancora tua amica.»
«Vorrei poterti credere, Vega» disse l’altro mentre si
risistemava i pantaloni.
«Per radio hai detto che ne vuoi uscire, no?»
Crespi tirò fuori la pistola. «Chi mi assicura che non sei dei
loro? C’era la tua foto sul telefonino del taxi.»
«Se la pensi come Vitali, allora perché sei venuto?»
«Perché devi dirgli di lasciarmi in pace.» Crespi si sentì
piagnucolare, si detestò per questo, ma non poteva farci niente:
non aveva mai avuto così tanta paura in vita sua. Era confuso,
stanco, ma colse lo stesso il movimento degli occhi di Sandra. Si
erano spostati verso il buio alla sua destra. Perché?
Il commissario non fece in tempo a voltarsi che l’ombra gli
era già addosso. Gli bloccò il braccio e si impadronì della pistola,
quindi gli cinse la gola in una morsa.
Sandra avanzò di un passo. «Non serve» disse recuperando la
torcia che era caduta al poliziotto. E Marcus lo lasciò andare.
Crespi cadde in ginocchio e cominciò a tossire. Sollevò lo
sguardo sull’uomo che l’aveva disarmato. Ci mise un po’ a
riconoscerlo. Si erano incontrati anni prima, al tempo del caso
del mostro di Roma. Non sapeva chi fosse, ma quella volta
l’aveva aiutato. Che ci faceva insieme a Sandra Vega?
«Sto aspettando una spiegazione» disse la poliziotta.
Il commissario si massaggiava la gola. «Non so chi crediate
che io sia, ma la verità è che non conto nulla per loro.»
«Perché hai paura?» chiese Sandra puntandogli addosso la torcia.
«Ieri sera, subito dopo che la tv ha annunciato il blackout di
oggi, sono stato convocato al formicaio. Sono uscito di casa per
prendere la macchina e mi sono accorto che l’avevano forzata.
Ladri, ho pensato subito. Quando ho controllato, però, avevano
lasciato tutto ciò che poteva avere un minimo valore e, invece,
avevano portato via un mazzo di chiavi e un taccuino che tenevo
nel cruscotto per annotarmi le cose.»
Sandra e il penitenziere si guardarono. Ecco dove Marcus
aveva trovato il libriccino e, soprattutto, le chiavi dell’archivio
dei casi irrisolti in cui avevano rinvenuto le foto del rapitore di
Tobia Frai.
Marcus avrebbe voluto ricordarsi del momento in cui, nel
corso della sua indagine dimenticata, aveva scassinato l’auto del
commissario. Ma sapere che era accaduto non bastava a far
riaffiorare i ricordi: la sua breve amnesia sembrava irreversibile.
«Perché un piccolo furto ti ha spaventato tanto?» Sandra non capiva.
«Tu non li conosci» disse Crespi, sussurrando come se
potessero sentirlo. «Loro non minacciano mai platealmente. Si
limitano a mandarti un piccolo segnale… Quando nel video del
telefonino ho visto come hanno ammazzato il drogato con il mio
stesso tatuaggio, ho capito che era la fine. Per questo ho deciso
di metterti sulla pista giusta.»
«Chi sono gli altri membri della Chiesa dell’eclissi?» chiese Marcus.
«Non lo so» rispose Crespi, come se fosse ovvio. «Riceviamo
gli incarichi durante incontri periodici in cui tutti indossano una
tunica nera ma anche una maschera. Così viene preservata la
segretezza.»
«Chi attribuisce questi incarichi?»
«Li chiamiamo il Vescovo, il Giocattolaio e l’Alchimista.»
Marcus aveva già scoperto l’identità dei primi due, ma il terzo
gli mancava. «Sono loro che comandano?» lo incalzò.
«No.» Crespi si guardò intorno, come se dal buio potessero
spuntare all’improvviso delle gigantesche fauci pronte a
sbranarlo. «Sopra ognuno di noi c’è il Maestro delle ombre.»
Sandra non riusciva a credere che l’uomo che aveva tanto
stimato nascondesse un così turpe segreto. A lei toccò la
domanda più dolorosa. «Che fine ha fatto Tobia Frai?»
«Io non so niente del bambino. Mi hanno solo incaricato di
conservare una cosa, e io l’ho fatto.»
«Che cosa?» chiese Marcus.
«Una valigia. Ma non so che cosa c’è dentro, lo giuro.»
«E dov’è adesso?»
«La tenevo in cantina, ma stanotte l’ho spostata.» Il
commissario temporeggiava.
«Ti ho chiesto: dove si trova?»
Sotto pressione, Crespi abbassò lo sguardo. E solo in quel
momento notò i piedi del penitenziere. Il terrore proruppe sul suo
volto. «Dove hai preso quelle?»
Marcus non capiva.
Crespi indietreggiò. «Chi ti ha dato quelle?» Indicò col
braccio le scarpe di tela bianche. Perché lo intimorivano tanto?
«Non me lo ricordo» disse Marcus.
L’anziano poliziotto si voltò verso Sandra. «Mi hai tradito» la accusò.
Lei si chinò accanto a lui, gli mise una mano sulla spalla.
«Nessuno ti ha tradito. L’unica cosa di cui sono certa è che lui
non è un nemico. Vuoi che si spogli per dimostrarti che non ha
alcun tatuaggio?»
Crespi ci pensò un momento. «No» disse. «Tanto, fidarmi di
voi è l’unica possibilità che mi resta…»
«Allora, dove hai messo la valigia?»
«Proteggetemi e ve lo dico.»
«Devi raccontarci anche il resto.»
«A tempo debito e alle mie condizioni» affermò il
commissario. «Ogni volta che vorrete qualcosa, io vi chiederò
qualcosa in cambio.» Crespi sapeva che la sua anima era
spacciata, ma poteva ancora salvarsi la vita.
«E sia» disse Marcus, e afferrò i manici del borsone da
palestra che il commissario aveva con sé. «Ti porteremo in un
posto sicuro.»
Con la torcia di Crespi, tornarono alla casa «staffetta» di via
del Governo Vecchio.
La meta era ubicata fra Castel Sant’Angelo e piazza Navona,
nei luoghi più colpiti dall’inondazione. Marcus non era così
certo che l’avrebbero raggiunta. Ma arrivati nei pressi di piazza
Sant’Eustachio, avevano visto che da lì in poi le acque si erano
ritirate rapidamente, lasciando dietro di sé rifiuti di ogni genere e
macerie. Per terra giaceva uno sterminato tappeto di oggetti
quotidiani – Sandra notò una pantofola, un mestolo, una
bambola. Il tutto impastato con il fango.
Sandra, Marcus e Crespi affondavano nella melma che a volte
arrivava fino alle ginocchia. Impiegarono più di un’ora a giungere
a destinazione. La zona era devastata, per questo era sicura.
Nessun vandalo né balordo con lo sguardo vuoto avrebbe avuto
interesse ad andare lì.
Sandra fece strada a Crespi nell’angusto appartamento.
Davanti al camino c’erano ancora i resti del piccolo picnic che
aveva imbastito per sé e Marcus. «Di là troverai qualche
scatoletta di tonno e dei cracker» lo informò, rammentando ciò
che avevano mangiato. «Ci sono anche delle bottigliette d’acqua.»
«Voglio solo fumare» rispose Crespi. Estrasse un pacchetto di
sigarette dalla giacca. A quanto pareva, il commissario aveva
proprio deciso di riprendere sul serio il vizio.
Marcus aveva aperto il borsone con la roba che Sandra aveva
richiesto a Crespi. All’interno, torce elettriche e batterie di
ricambio, una tuta e delle scarpe da ginnastica per lei, due pistole
– un revolver e un’automatica – e, infine, una coppia di telefoni
satellitari. Erano un modello superato. «Ti avevamo chiesto due
radiotelefoni, che ce ne facciamo di questi?»
«Andranno bene» lo rassicurò l’anziano poliziotto. «E poi
non c’era di meglio.»
«Adesso sei al sicuro. La valigia.» Sandra gli rammentò l’accordo.
«L’ho lasciata in un albergo, alla stazione Termini. Hotel
Europa, stanza centodiciassette.» Crespi si frugò in tasca,
recuperò la chiave e gliela consegnò.
Sandra sospirò, era delusa. «Perché?»
Il commissario abbassò gli occhi. «Avanti, crocifiggimi…»
«Pensavo che credessi in Dio, che fossi un buon cristiano…»
L’uomo si sedette e aspirò la sigaretta. «L’ostia nera…» disse,
poi sollevò nuovamente lo sguardo su di loro. «Dio ha
abbandonato l’uomo su un piccolo pianeta nell’immenso
universo. L’ha circondato di una natura bellissima ma ostile. Poi
si è nascosto e se n’è rimasto in silenzio a guardare… Ci ha
lasciati qui, soli e impauriti, a domandarci: ’Perché siamo in
questo luogo?’, oppure: ’Da dove veniamo? Dove andremo?’
Quale padre farebbe una cosa del genere a un figlio?» Cercò nei
loro volti un po’ di comprensione, non ne trovò. «Il Signore delle
ombre, invece, ci ha restituito la conoscenza… Chi assaggia la
sua comunione, riceve in cambio il dono del sapere.»
Sandra ricordò le frasi in aramaico pronunciate dal drogato.
«Quale conoscenza?»
«Per ognuno una cosa diversa» puntualizzò Crespi. «Ci sono
uomini che chiedono di sapere cose lontane da loro, altri
vogliono semplicemente guardare in se stessi e scoprire chi sono
veramente. Io, per esempio, ho chiesto all’ostia nera di svelarmi il
significato della mia vita.»
«Hai ottenuto la risposta che cercavi?» domandò Marcus con disprezzo.
«Sì» affermò l’altro con orgogliosa sicurezza.
«Puttanate» disse Sandra. Era sicura che ci fosse dell’altro.
Conosceva troppo bene il commissario per sapere che non era
facile corromperlo.
Crespi si mise a ridere. «Va bene, tanto ormai…» Sapeva che
non l’avrebbe ingannata. «Molti anni fa ho ammazzato una donna.»
Sandra rimase spiazzata dalla rivelazione.
«Non l’ho fatto apposta, è stato un incidente. L’ho investita
con la macchina ma poi sono scappato via.» Fece una pausa e li
guardò. «Era incinta, sapete? Una bambina.»
«Non capisco il nesso» disse la poliziotta, sprezzante.
«Io l’ho capito col tempo… Dio ha fatto fare a me una cosa
tremenda, al posto suo. Forse perché non gli andava, non lo so
perché abbia scelto proprio me.» Tirò fuori un fazzoletto dalla
tasca e lo usò per soffiarsi il naso. «Avrebbe potuto prendersi
quella donna e sua figlia in tanti modi. Una malattia, per
esempio, o una complicazione della gravidanza. Invece ha voluto
che fosse qualcun altro a fare il lavoro sporco. Un figlio devoto di
cui non gli fregava nulla.»
Sandra era scandalizzata dal pressappochismo di quell’uomo.
«E tutto ciò vale il sacrificio di vittime innocenti? Valeva
l’uccisione di Tobia Frai? Perché l’avete ucciso, non è vero?»
Crespi scosse il capo rabbiosamente. «Voi non avete provato
che significa, perciò non potete comprendere fino in fondo.
Quanto è forte il tuo desiderio di verità? Fino a che punto
sapresti spingerti per squarciare il velo ingannevole dell’oblio?»
Gli occhi del poliziotto sembravano quelli di un invasato. «Con
quale presunzione ti definisci un uomo probo, un buon cristiano,
se non hai mai sperimentato il male e l’iniquità?»
Marcus ripensò al vescovo Gorda. Aveva voluto mettersi alla
prova. C’era una parte malvagia in lui, il vecchio prelato lo
sapeva, e forse c’era un modo per farla emergere. Allora perché
non tentare?
«Come puoi avere il coraggio di guardare negli occhi i tuoi
figli o la donna che ami se non sei sicuro di te stesso? Se non sai
nemmeno chi sei? Io dovevo sapere se era davvero colpa mia o se
Dio aveva agito attraverso me perché nessuno potesse poi
attribuirgli la responsabilità della morte di una donna incinta. E,
alla fine, l’ostia nera mi ha svelato la verità.» Crespi assomigliava
a un predicatore in cerca di proseliti. «Il Signore delle ombre ha
parlato per mezzo del Maestro… Il Vescovo, il Giocattolaio e
l’Alchimista sono al servizio del Maestro delle ombre.» Il fervore
si placò. «Il resto dopo. Questi erano i patti.»
Marcus scosse Sandra per una manica. «Cambiati e andiamo» disse.
Lei allungò una mano verso Crespi. «Il distintivo.» L’anziano
commissario glielo consegnò senza fiatare. Prima di allontanarsi,
Sandra lo guardò ancora una volta. «Il tuo dio nero ti ha già
dimenticato, miserabile uomo.»
Attese in silenzio che fossero usciti. Rimasto solo in casa,
Crespi poteva solo fare i conti con la propria coscienza. Forse
avrebbe dovuto dirgli subito del morbo. Ma ormai era andata
così. Si mise a fumare accanto al camino spento. Terminò il
pacchetto in meno di mezz’ora. Poi si guardò intorno. Cos’era
quel posto? C’erano un vecchio pc e un telefono collegato a una
linea domestica. Era l’abitazione dell’uomo che stava insieme a
Vega? Non sembrava che ci vivesse davvero qualcuno. Decise che
forse era meglio dare un’occhiata in giro.
Con una candela si mise a perlustrare l’appartamento. La
cucina, il bagno, la camera da letto. Sembrava più una tana che
una casa. Ma poi si imbatté in una porta chiusa. Provò ad aprirla,
ma niente. Desistette e tornò in cucina, alla ricerca delle
scatolette di tonno e dei cracker di cui aveva parlato Sandra.
Stava rovistando nella credenza, ma si fermò. Si era reso conto
che non riusciva a sopportare quel dubbio, gli eventi delle ultime
ore l’avevano reso paranoico. Perciò andò di nuovo verso la porta
e stavolta provò a forzarla. Sembrava chiusa dall’interno.
Trascorse i successivi minuti seduto in soggiorno. Attraverso
la luce della fiammella, fissava intensamente la stanza proibita.
Proprio non riusciva a ignorarla.
Alla fine si alzò di scatto dal proprio posto, afferrò un
attizzatoio dal camino e si diresse deciso verso la porta. Usò lo
strumento come leva sullo stipite e scassinò la serratura. Avvertì
come un alito di aria gelida liberarsi dall’antro scuro. Con la
candela esaminò l’interno. Non c’era nulla d’interessante, solo
una stanza vuota con un grande armadio di legno.
Ma era sigillato col nastro isolante.
Crespi si addentrò nell’ambiente e si avvicinò al mobile,
domandandosi cosa potesse contenere. Non riuscendo a farsi una
ragione del nuovo mistero, decise di controllare di persona.
Strappò il nastro e spalancò le ante. Da un ripiano cadde un
enorme sacco nero che gli rovesciò addosso una cascata di
polvere scura. La candela si spense, e la porta alle sue spalle si
richiuse con un colpo secco.
«Ma che cazzo…» protestò. Poi tornò indietro e cercò di
aprire, inutilmente. C’era una seconda serratura e adesso era
bloccata. Si frugò in tasca in cerca dell’accendino, lo trovò e
riaccese la candela.
La nuvola grigia si era in parte depositata sul pavimento e le
pareti tutt’intorno. Ma era così leggera che, ogni volta che lui
faceva anche un piccolo movimento, tornava a sollevarsi. Che
roba era? Si piegò per verificarla al tatto. Cenere, si disse.
E, senza accorgersene, cominciò a inalarla.

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