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Il maestro delle ombre
| Donato Carrisi Il maestro delle ombre |
| IL TRAMONTO |
| 9 8 ore e 43 minuti all’alba Avevano trovato rifugio in una tavola calda. Era stata saccheggiata e poi devastata dalle ombre furenti. Saracinesche divelte, mobili distrutti, scritte sui muri. Un’auto in fiamme dall’altro lato della strada proiettava all’interno un debole bagliore. Marcus se ne servì per cercare dell’acqua per Sandra. Dai rubinetti usciva solo un liquido marroncino, melmoso. Effetto della piena, pensò il penitenziere. Il fiume doveva aver trovato il modo per infiltrarsi nelle tubature. In fondo a un frigo spento trovò un paio di lattine di Coca-Cola sopravvissute alla razzia. La poliziotta era seduta per terra, in un angolo dietro un séparé. Era ancora scossa. Capelli e vestiti erano bagnati, tremava dal freddo e tossiva. Marcus si sedette accanto a lei e le passò una delle bibite. Sandra scosse il capo. «Devi bere» le disse. Lei obbedì, ma non riusciva a mandar giù nulla, come se la gola si fosse chiusa. «Ci vorrà un po’, è normale» la tranquillizzò il penitenziere. Sandra era ipnotizzata dalla macchina che bruciava. Era andata a schiantarsi contro un’autopattuglia che si trovava a poca distanza, ribaltata. I poliziotti forse se l’erano cavata o, perlomeno, erano riusciti ad allontanarsi. La persona alla guida dell’altra vettura, invece, adesso era uno scheletro di carbone. Che razza di follia era quella? «Hai visto anche tu quegli occhi…» Marcus capì che Sandra si riferiva allo sguardo dei tre da cui erano stati aggrediti nel sottosuolo. Sì, li aveva visti. «Non sforzarti di parlare» disse per non agitarla. Lei non ascoltò. «Non credo volessero ucciderci.» Poi si voltò verso di lui. «L’avrebbero fatto… ma soltanto alla fine.» Immaginava una lunga serie di sevizie. «Tortura» era la parola esatta. Nella galleria avevano perso tutto. Le sue scarpe, infatti era scalza. Ma anche la borsa col distintivo, la lista degli elementi dell’indagine, i documenti personali, tutto quanto. La torcia elettrica. Soprattutto, l’acqua si era portata via la pistola. Senza, Sandra si sentiva indifesa. Invidiava Marcus, che non aveva mai armi con sé. Ma era anche contenta di averlo accanto. Sapeva che l’avrebbe protetta a ogni costo, e ciò la faceva sentire meno sola. Su quante persone poteva contare nella vita? Quante sarebbero accorse da lei in caso di fine del mondo? Adesso era costretta a fare un bilancio degli affetti, nonché la somma di chi le voleva veramente bene. Per questo, un pensiero la tormentava. Le parole dell’ormai defunto ispettore Vitali. «Pensaci, Vega, quante persone nel corpo di polizia hanno veramente accesso ai file di quarto livello?» Sandra non riusciva a farsene una ragione. «È stato Crespi a parlarmi della storia della Chiesa dell’eclissi… Mi ha raccontato tutto lui.» «Cosa?» Marcus non capiva da dove venisse quella considerazione. «Non sono impazzita» lo rassicurò Sandra. «Stavo solo pensando ad alta voce.» «A ciò che ha detto Vitali?» La domanda del penitenziere confermava i suoi dubbi. «Era un viscido manipolatore, ma su questo poteva avere ragione. Vitali era a capo di un’unità segreta del corpo, la sezione crimini esoterici. Tanto riservata da annoverare fra le sue fila un unico poliziotto, per il quale venivano addirittura creati apposta degli incarichi di copertura.» «Crespi, hai detto… Un commissario della omicidi che non solo è al corrente dell’indagine, ma ne parla tranquillamente a una sottoposta che potrebbe essere coinvolta pesantemente» proseguì per lei il penitenziere. «Non si limita a informarti, ti fornisce anche parecchi dettagli, col rischio di essere accusato di favoreggiamento.» Marcus aveva tradotto in parole il sospetto che la angustiava. Anche se le costava ammetterlo, non era più convinta dell’assoluta buona fede di Crespi. «Devo parlargli, capire.» Dalle vetrine del locale, videro alcuni uomini armati di bastoni correre per strada. Marcus scattò, all’erta. Passarono e non si accorsero di loro. «Dobbiamo muoverci» disse il penitenziere. «Qui non è più sicuro.» Sandra lo guardò, spaventata. «Non voglio tornare là sotto.» Non avrebbero potuto comunque, ormai le gallerie erano impraticabili. Ma lei voleva essere rassicurata. «Cammineremo per strada, ma dovremo stare attenti.» «Dove andremo?» Marcus osservò l’incidente fuori dalla tavola calda. In particolare, la sua attenzione fu attratta dall’autopattuglia cappottata. «A trovare un tuo vecchio amico.» Da ore il formicaio era nel caos. L’energia dei generatori e la tecnologia perfettamente funzionante all’interno del bunker non erano sufficienti a controllare ciò che avveniva fuori. Il capo della polizia si era chiuso nel proprio ufficio ed era in contatto costante con le massime autorità dello Stato, nel disperato tentativo di riportare l’ordine in città. Ormai avevano compreso che ciò che aveva avuto origine nell’area di piazza del Popolo non era un’aggressione sistematica, non c’era alcuna strategia dietro l’assalto. L’imprevedibilità del nemico era il vero elemento destabilizzante. Il problema era sorto quando alcuni erano riusciti a svaligiare un deposito di armi e munizioni. De Giorgi aveva richiesto ufficialmente al ministro l’intervento dell’esercito. Il COMLOG, il comando logistico, avrebbe mobilitato mille uomini del Reggimento di Supporto Cecchignola. Truppe e mezzi leggeri erano pronti a entrare da Roma sud e a muovere verso il centro della Capitale. Entro poche ore, dalla Toscana sarebbe giunta anche un’unità di paracadutisti della Brigata Folgore, un corpo di élite addestrato per missioni ad alto rischio. L’unità speciale avrebbe avuto il compito specifico di andare a caccia dei capi della rivolta. Crespi pensava che non fosse la definizione appropriata, visto che i cosiddetti «rivoltosi» non avevano un preciso obiettivo e nemmeno un’organizzazione. Tuttavia ci si riferiva a loro in quel modo dopo che erano riusciti a soverchiare le forze dell’ordine. In fondo, faceva comodo anche ai pezzi grossi definirli così. Anche per questioni d’immagine, era meglio essere stati sopraffatti da una compagine di ribelli piuttosto che da un’orda di sbandati dedita allo sciacallaggio e al vandalismo. Inoltre, dovevano essere giustificate le vite perse fino a quel momento. Come tutti i presenti nella sala operativa, il commissario era in pena per la sua famiglia. Aveva una moglie, figli, nipoti. E non sapeva se fossero al sicuro. Per fortuna abitavano al Nuovo Salario, lontano dalle aree interessate dai tumulti. Ma non si poteva mai dire. Le notizie che arrivavano al formicaio erano confuse e spesso discordanti. L’unica certezza era che il Tevere era esondato in tre punti. Uno, all’altezza di Ponte Milvio, dov’era penetrato violentemente nel quartiere dei locali e dei ristoranti in cui ogni sera si riunivano migliaia di romani. L’altro, di fronte a Castel Sant’Angelo. La piena aveva trascinato con sé i barconi e le chiatte che di solito stazionavano sul fiume. Insieme ai detriti, le imbarcazioni avevano formato un tappo sotto il famoso Ponte degli Angeli, e l’ingrossamento della piena l’aveva prima incrinato e poi abbattuto. Da lì il Tevere era dilagato, spingendosi fino a piazza Navona. L’antica fontana costruita dal Bernini su progetto del Borromini – detta appunto «Dei quattro fiumi» – non esisteva più. Non c’era più neanche l’isola Tiberina, travolta dalla furia delle acque. L’ospedale che vi dimorava per fortuna era stato evacuato. Il fiume aveva invaso anche Trastevere, e lì certamente avrebbero contato i morti. Il fango era arrivato fino al primo piano dei palazzi. Chissà quanti erano annegati all’interno delle proprie abitazioni. Si erano barricati per timore degli intrusi, ma a ucciderli era stata la pioggia. Tanto, il giorno dopo, tutti avrebbero dato la colpa al coprifuoco, il commissario ne era convinto. La domanda sarebbe stata: E se non ci fosse stata alcuna limitazione alla libertà dei cittadini, quanti si sarebbero potuti salvare? Molte teste sarebbero cadute nella ricerca dei capri espiatori. Crespi, però, pensava soprattutto a quanti là fuori non avevano avuto la fortuna di morire affogati e adesso giacevano feriti in attesa di un aiuto che non sarebbe potuto arrivare. Infatti, le squadre di soccorso inviate da tutta Italia e gli operatori del genio militare stazionavano in periferia e attendevano che la città venisse messa «in sicurezza» prima d’intervenire. Gli uomini e la natura avevano distrutto in poche ore ciò che era stato edificato in centinaia di anni. Una bellezza ineguagliabile. Il tutto con un enorme sacrificio di vite umane. All’alba, il mondo si sarebbe accorto che Roma era cambiata per sempre. Naturalmente, a patto che la città riuscisse a sopravvivere fino al giorno dopo. Mentre faceva queste considerazioni, Crespi fu interrotto da una poliziotta. «Signore, c’è una chiamata per lei dalla radio di un’autopattuglia. L’agente si è qualificata come Sandra Vega.» «Me la passi» disse concitato il commissario. Quando afferrò il ricevitore fu il primo a parlare. «Vega, sei davvero tu?» «Sì, Crespi. Sono proprio io.» La trasmissione era disturbata, ma era felice di sentirla. «Dimmi che non sei a Trastevere, che sei uscita di casa prima che arrivasse la piena.» «Tranquillo, commissario, sto bene.» «Grazie a Dio.» Era sollevato, ma non durò molto. «So che sei uno di loro.» L’ambiguità con cui era stata formulata la frase lo inchiodò, costringendolo a tentennare. «Cosa dici? Non capisco…» «Hai capito, invece. Lo so» ribadì la poliziotta. L’altro coprì subito con una mano il ricevitore, perché nessuno lo sentisse. «Senti, Vega, io ho provato a dirtelo stamattina – lo giuro. Altrimenti perché ti avrei rivelato tutte quelle cose?» «Allora è vero: non è stato Vitali a dirtele, le sapevi già.» «Lascia perdere Vitali adesso, c’è qualcosa di più importante…» Nonostante l’aria condizionata, il commissario stava sudando. «Voglio uscirne… Ma non so come fare.» Dall’altra parte seguì un silenzio. «Vega, ci sei?» «Sono ancora qui. Penso che non sia il caso di parlarne per radio, non ti pare?» Aveva ragione, qualcuno avrebbe potuto ascoltare. «Cosa suggerisci?» «Vediamoci fra un’ora al Caffè Greco.» |
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