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Donato Carrisi
Il maestro delle ombre
IL TRAMONTO
9

8 ore e 43 minuti all’alba
Avevano trovato rifugio in una tavola calda.
Era stata saccheggiata e poi devastata dalle ombre furenti.
Saracinesche divelte, mobili distrutti, scritte sui muri. Un’auto in
fiamme dall’altro lato della strada proiettava all’interno un
debole bagliore. Marcus se ne servì per cercare dell’acqua per
Sandra. Dai rubinetti usciva solo un liquido marroncino,
melmoso. Effetto della piena, pensò il penitenziere. Il fiume
doveva aver trovato il modo per infiltrarsi nelle tubature. In fondo
a un frigo spento trovò un paio di lattine di Coca-Cola
sopravvissute alla razzia.
La poliziotta era seduta per terra, in un angolo dietro un
séparé. Era ancora scossa. Capelli e vestiti erano bagnati, tremava
dal freddo e tossiva. Marcus si sedette accanto a lei e le passò
una delle bibite. Sandra scosse il capo. «Devi bere» le disse.
Lei obbedì, ma non riusciva a mandar giù nulla, come se la
gola si fosse chiusa.
«Ci vorrà un po’, è normale» la tranquillizzò il penitenziere.
Sandra era ipnotizzata dalla macchina che bruciava. Era
andata a schiantarsi contro un’autopattuglia che si trovava a poca
distanza, ribaltata. I poliziotti forse se l’erano cavata o,
perlomeno, erano riusciti ad allontanarsi. La persona alla guida
dell’altra vettura, invece, adesso era uno scheletro di carbone.
Che razza di follia era quella? «Hai visto anche tu quegli occhi…»
Marcus capì che Sandra si riferiva allo sguardo dei tre da cui
erano stati aggrediti nel sottosuolo. Sì, li aveva visti. «Non
sforzarti di parlare» disse per non agitarla.
Lei non ascoltò. «Non credo volessero ucciderci.» Poi si
voltò verso di lui. «L’avrebbero fatto… ma soltanto alla fine.»
Immaginava una lunga serie di sevizie. «Tortura» era la parola
esatta.
Nella galleria avevano perso tutto. Le sue scarpe, infatti era
scalza. Ma anche la borsa col distintivo, la lista degli elementi
dell’indagine, i documenti personali, tutto quanto. La torcia
elettrica. Soprattutto, l’acqua si era portata via la pistola. Senza,
Sandra si sentiva indifesa. Invidiava Marcus, che non aveva mai
armi con sé. Ma era anche contenta di averlo accanto. Sapeva che
l’avrebbe protetta a ogni costo, e ciò la faceva sentire meno sola.
Su quante persone poteva contare nella vita? Quante sarebbero
accorse da lei in caso di fine del mondo? Adesso era costretta a
fare un bilancio degli affetti, nonché la somma di chi le voleva
veramente bene. Per questo, un pensiero la tormentava. Le parole
dell’ormai defunto ispettore Vitali.
«Pensaci, Vega, quante persone nel corpo di polizia hanno
veramente accesso ai file di quarto livello?»
Sandra non riusciva a farsene una ragione. «È stato Crespi a
parlarmi della storia della Chiesa dell’eclissi… Mi ha raccontato
tutto lui.»
«Cosa?» Marcus non capiva da dove venisse quella considerazione.
«Non sono impazzita» lo rassicurò Sandra. «Stavo solo
pensando ad alta voce.»
«A ciò che ha detto Vitali?»
La domanda del penitenziere confermava i suoi dubbi. «Era
un viscido manipolatore, ma su questo poteva avere ragione.
Vitali era a capo di un’unità segreta del corpo, la sezione crimini
esoterici. Tanto riservata da annoverare fra le sue fila un unico
poliziotto, per il quale venivano addirittura creati apposta degli
incarichi di copertura.»
«Crespi, hai detto… Un commissario della omicidi che non
solo è al corrente dell’indagine, ma ne parla tranquillamente a
una sottoposta che potrebbe essere coinvolta pesantemente»
proseguì per lei il penitenziere. «Non si limita a informarti, ti
fornisce anche parecchi dettagli, col rischio di essere accusato di
favoreggiamento.»
Marcus aveva tradotto in parole il sospetto che la angustiava.
Anche se le costava ammetterlo, non era più convinta
dell’assoluta buona fede di Crespi. «Devo parlargli, capire.»
Dalle vetrine del locale, videro alcuni uomini armati di
bastoni correre per strada. Marcus scattò, all’erta. Passarono e
non si accorsero di loro.
«Dobbiamo muoverci» disse il penitenziere. «Qui non è più sicuro.»
Sandra lo guardò, spaventata. «Non voglio tornare là sotto.»
Non avrebbero potuto comunque, ormai le gallerie erano
impraticabili. Ma lei voleva essere rassicurata. «Cammineremo
per strada, ma dovremo stare attenti.»
«Dove andremo?»
Marcus osservò l’incidente fuori dalla tavola calda. In
particolare, la sua attenzione fu attratta dall’autopattuglia
cappottata. «A trovare un tuo vecchio amico.»

Da ore il formicaio era nel caos. L’energia dei generatori e la
tecnologia perfettamente funzionante all’interno del bunker non
erano sufficienti a controllare ciò che avveniva fuori.
Il capo della polizia si era chiuso nel proprio ufficio ed era in
contatto costante con le massime autorità dello Stato, nel
disperato tentativo di riportare l’ordine in città.
Ormai avevano compreso che ciò che aveva avuto origine
nell’area di piazza del Popolo non era un’aggressione
sistematica, non c’era alcuna strategia dietro l’assalto.
L’imprevedibilità del nemico era il vero elemento destabilizzante.
Il problema era sorto quando alcuni erano riusciti a svaligiare
un deposito di armi e munizioni. De Giorgi aveva richiesto
ufficialmente al ministro l’intervento dell’esercito.
Il COMLOG, il comando logistico, avrebbe mobilitato mille
uomini del Reggimento di Supporto Cecchignola. Truppe e mezzi
leggeri erano pronti a entrare da Roma sud e a muovere verso il
centro della Capitale. Entro poche ore, dalla Toscana sarebbe
giunta anche un’unità di paracadutisti della Brigata Folgore, un
corpo di élite addestrato per missioni ad alto rischio. L’unità
speciale avrebbe avuto il compito specifico di andare a caccia dei
capi della rivolta.
Crespi pensava che non fosse la definizione appropriata, visto
che i cosiddetti «rivoltosi» non avevano un preciso obiettivo e
nemmeno un’organizzazione. Tuttavia ci si riferiva a loro in quel
modo dopo che erano riusciti a soverchiare le forze dell’ordine.
In fondo, faceva comodo anche ai pezzi grossi definirli così.
Anche per questioni d’immagine, era meglio essere stati
sopraffatti da una compagine di ribelli piuttosto che da un’orda
di sbandati dedita allo sciacallaggio e al vandalismo. Inoltre,
dovevano essere giustificate le vite perse fino a quel momento.
Come tutti i presenti nella sala operativa, il commissario era
in pena per la sua famiglia. Aveva una moglie, figli, nipoti. E non
sapeva se fossero al sicuro. Per fortuna abitavano al Nuovo
Salario, lontano dalle aree interessate dai tumulti. Ma non si
poteva mai dire.
Le notizie che arrivavano al formicaio erano confuse e spesso
discordanti. L’unica certezza era che il Tevere era esondato in tre
punti. Uno, all’altezza di Ponte Milvio, dov’era penetrato
violentemente nel quartiere dei locali e dei ristoranti in cui ogni
sera si riunivano migliaia di romani. L’altro, di fronte a Castel
Sant’Angelo. La piena aveva trascinato con sé i barconi e le
chiatte che di solito stazionavano sul fiume. Insieme ai detriti, le
imbarcazioni avevano formato un tappo sotto il famoso Ponte
degli Angeli, e l’ingrossamento della piena l’aveva prima
incrinato e poi abbattuto. Da lì il Tevere era dilagato, spingendosi
fino a piazza Navona. L’antica fontana costruita dal Bernini su
progetto del Borromini – detta appunto «Dei quattro fiumi» –
non esisteva più. Non c’era più neanche l’isola Tiberina, travolta
dalla furia delle acque. L’ospedale che vi dimorava per fortuna era
stato evacuato. Il fiume aveva invaso anche Trastevere, e lì
certamente avrebbero contato i morti. Il fango era arrivato fino al
primo piano dei palazzi. Chissà quanti erano annegati all’interno
delle proprie abitazioni. Si erano barricati per timore degli
intrusi, ma a ucciderli era stata la pioggia.
Tanto, il giorno dopo, tutti avrebbero dato la colpa al
coprifuoco, il commissario ne era convinto. La domanda sarebbe
stata: E se non ci fosse stata alcuna limitazione alla libertà dei
cittadini, quanti si sarebbero potuti salvare? Molte teste
sarebbero cadute nella ricerca dei capri espiatori. Crespi, però,
pensava soprattutto a quanti là fuori non avevano avuto la fortuna
di morire affogati e adesso giacevano feriti in attesa di un aiuto
che non sarebbe potuto arrivare. Infatti, le squadre di soccorso
inviate da tutta Italia e gli operatori del genio militare
stazionavano in periferia e attendevano che la città venisse messa
«in sicurezza» prima d’intervenire.
Gli uomini e la natura avevano distrutto in poche ore ciò che
era stato edificato in centinaia di anni. Una bellezza
ineguagliabile. Il tutto con un enorme sacrificio di vite umane.
All’alba, il mondo si sarebbe accorto che Roma era cambiata per
sempre. Naturalmente, a patto che la città riuscisse a sopravvivere
fino al giorno dopo.
Mentre faceva queste considerazioni, Crespi fu interrotto da
una poliziotta. «Signore, c’è una chiamata per lei dalla radio di
un’autopattuglia. L’agente si è qualificata come Sandra Vega.»
«Me la passi» disse concitato il commissario. Quando afferrò
il ricevitore fu il primo a parlare. «Vega, sei davvero tu?»
«Sì, Crespi. Sono proprio io.»
La trasmissione era disturbata, ma era felice di sentirla.
«Dimmi che non sei a Trastevere, che sei uscita di casa prima che
arrivasse la piena.»
«Tranquillo, commissario, sto bene.»
«Grazie a Dio.» Era sollevato, ma non durò molto.
«So che sei uno di loro.»
L’ambiguità con cui era stata formulata la frase lo inchiodò,
costringendolo a tentennare. «Cosa dici? Non capisco…»
«Hai capito, invece. Lo so» ribadì la poliziotta.
L’altro coprì subito con una mano il ricevitore, perché
nessuno lo sentisse. «Senti, Vega, io ho provato a dirtelo
stamattina – lo giuro. Altrimenti perché ti avrei rivelato tutte
quelle cose?»
«Allora è vero: non è stato Vitali a dirtele, le sapevi già.»
«Lascia perdere Vitali adesso, c’è qualcosa di più
importante…» Nonostante l’aria condizionata, il commissario
stava sudando. «Voglio uscirne… Ma non so come fare.»
Dall’altra parte seguì un silenzio. «Vega, ci sei?»
«Sono ancora qui. Penso che non sia il caso di parlarne per
radio, non ti pare?»
Aveva ragione, qualcuno avrebbe potuto ascoltare. «Cosa suggerisci?»
«Vediamoci fra un’ora al Caffè Greco.»

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