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Donato Carrisi
Il maestro delle ombre
IL TRAMONTO
8

Erriaga aveva impiegato più di due ore per giungere a piedi al
palazzo della Cancelleria. In un giorno normale, da casa sua il
percorso richiedeva al massimo venti minuti di cammino.
Ma non era un giorno come gli altri.
Con la sola protezione di un cappotto e un cappello nero,
aveva attraversato la zona limitrofa a quella dov’erano scoppiati i
primi tumulti. Ogni volta che aveva scorto qualcuno per strada, si
era nascosto in un anfratto con la speranza di non essere notato.
Aveva visto gli incendi che la pioggia non riusciva a spegnere,
sentito il boato del Tevere quando aveva scavalcato l’argine. Ma a
colpirlo era stato soprattutto lo sguardo di alcune persone che si
aggiravano per le vie assetate di violenza – vacuo, quasi immobile.
La profezia di Leone X. I segni.
Prima c’era stato il buio, con il blackout. Poi l’acqua, con i
temporali e il fiume rabbioso. Quindi il fuoco degli incendi. E,
infine, il morbo.
La peste che aveva colto quelle anime non era casuale, faceva
parte di un disegno. Quelli che una volta erano uomini, erano
stati trasformati in qualcosa di nuovo. Di malvagio.
Erano i nuovi padroni di Roma. La polizia faticava a domarli.
Erriaga arrivò sano e salvo nei pressi del palazzo che da
secoli ospitava il Tribunale delle Anime. Per prima cosa si fece il
segno della croce, poi bussò all’enorme portone e attese.
Venne ad aprirgli uno dei cancellieri che sovrintendevano al
funzionamento della santa corte. «Buonasera, eminenza» lo
salutò il giovane prete. Quindi gli fece strada con un candelabro.
Salirono insieme il grande scalone di marmo levigato da
secoli di passi. «Cos’è accaduto?» chiese l’Avvocato del Diavolo.
«Come mai questa urgenza?» Aveva continuato a pensare
incessantemente al vessillo nero esposto sul tetto per convocare
la seduta straordinaria.
«Un caso che non poteva essere rimandato.»
«Il penitente sta per morire, vero?»
«Sì, eminenza.»
Il Tribunale delle Anime rappresentava il giudizio di ultima
istanza per i cattolici che si fossero macchiati di culpa gravis.
Non tutti potevano comprendere, ma per la Chiesa era essenziale
che un’anima si liberasse di un peso così gravoso. Soprattutto
nell’imminenza della morte del penitente.
Erriaga, che in seno al processo rappresentava la pubblica
accusa, non sapeva ancora di quale peccato mortale si sarebbe
occupato quella notte.
«Nel pomeriggio è venuto da noi un sacerdote, il parroco di
Santa Maria del Riposo» lo informò il cancelliere. «È stato lui a
portarci la confessione del moribondo.»
«Dov’è questo parroco? Voglio incontrarlo prima di cominciare.»
Entrarono nella sala delle pergamene che introduceva agli
uffici della corte. Erriaga si sfilò il cappotto e lo consegnò al
cancelliere insieme al cappello nero. Quindi, seguendo un
percorso di lumi accesi, si recò nella propria stanza. Lì, si lasciò
cadere su una poltrona di velluto rosso e incrociò le mani sotto il
mento. Nutriva il timore che anche quella situazione non fosse
frutto del caso. Un altro segno? Quale insidia poteva celarsi nel
pur grave peccato di un uomo ai confini estremi della propria vita?
La porta si aprì e il cancelliere introdusse un sacerdote che
dimostrava più di ottant’anni. La tonaca era logora e vecchia
almeno quanto lui. Pochi capelli bianchi, spettinati, la barba
incolta. Teneva fra le mani il cappello e avanzò con le spalle
ricurve, in soggezione perché si trovava al cospetto di un così alto
porporato.
In un altro momento, Erriaga non lo avrebbe compatito per
l’aspetto trasandato. Anzi, gli avrebbe riservato un trattamento
schivo, facendolo sentire una nullità. In quell’occasione, invece,
avrebbe voluto essere lui il povero parroco di un’insignificante
diocesi, alle prese con minuscole incombenze quotidiane. Le
responsabilità del cardinale, invece, erano enormi. E quella notte,
per la prima volta nella sua vita, ne avvertì il gravame.
«Raccontami» disse all’uomo con insolita gentilezza.
Il parroco mosse un paio di passi verso di lui, svelando dei
profondi occhi azzurri, puri come acqua di montagna. «Eminenza,
mi perdoni, ma non ho molto da dire. Poche ore fa, mentre ero
intento a chiudere la chiesa per l’inizio del coprifuoco, ho notato
che qualcuno aveva lasciato un oggetto sull’inginocchiatoio di
uno dei confessionali.»
«Di che si tratta?» domandò Erriaga.
«Di un taccuino» rispose il sacerdote. Quindi si cacciò una
mano nella tasca della tonaca, prese un libriccino nero e andò a
riporlo nelle mani del prelato.
Erriaga dapprima lo soppesò, come se con quel gesto potesse
valutarne il contenuto. Ma esitava a leggerlo. «Come fai a sapere
che appartiene a un moribondo? Non hai visto il penitente, non
sai in che condizioni fosse.»
«È vero» ammise il sacerdote. «Ma l’uomo che ha scritto
quelle pagine sapeva di dover morire. Anzi, indica anche come
avverrà e perfino il luogo in cui trovare il suo cadavere.»
Erriaga sospirò e finalmente si decise ad aprire il taccuino. Lo
sfogliò e la prima cosa che notò fu che alcune pagine erano state
strappate. Poi, alla luce delle fiammelle che lo circondavano,
iniziò a leggere.
Sentì che il proprio viso impallidiva. Le mani iniziarono a
tremargli impercettibilmente. Gli occhi scorrevano veloci sulle
righe e si ritrovò a voltare le pagine senza nemmeno tenerne il
conto. Quando terminò, richiuse il taccuino e se lo posò in grembo.
Il parroco e il cancelliere, che avevano atteso che finisse la
lettura, adesso lo guardavano aspettandosi che dicesse o facesse
qualcosa. Erriaga era consapevole dei loro sguardi, ma non
trovava la forza di muoversi.
Nel Tribunale delle Anime, l’identità del penitente era sempre
protetta dall’anonimato. Il peccato era il solo oggetto del
giudizio, mai il peccatore. Ciononostante, per anni l’Avvocato del
Diavolo era stato abile nel risalire ai colpevoli. E si era servito
dei loro vizi segreti per ricattarli e accrescere, così, il proprio potere.
Stavolta, però, non avrebbe avuto bisogno di indagini o
sotterfugi per conoscere il nome dell’uomo che sarebbe dovuto
morire. E sapeva anche che, alla fine, era sopravvissuto.
«Marcus» disse il cardinale senza accorgersene.

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