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Donato Carrisi
Il maestro delle ombre
IL TRAMONTO
6

Quando andarono a bussare alla sua porta, al rione Esquilino,
non immaginavano che Matilde Frai avrebbe aperto a due
estranei. Invece lo fece.
«Siamo della polizia» disse Sandra, sperando che fosse
sufficiente mostrare solo il proprio tesserino. Allungò il braccio
perché la luce della candela impugnata dalla donna lo
illuminasse.
Marcus si teneva un passo indietro, nascosto in parte nel buio
del pianerottolo.
«Che volete?» chiese Matilde. Ma non c’era diffidenza nel
tono di voce e nemmeno sospetto. La rudezza rientrava nel suo
modo di fare con la gente.
«Vorremmo parlare di Tobia.»
La frase di Sandra avrebbe dovuto scuoterla, ma fu come se
Matilde se lo aspettasse. «Prego» disse lasciandoli entrare.
Fece strada con la candela lungo uno stretto corridoio. La
casa era fredda a causa della mancanza di riscaldamento. Era
piccola e ordinata, ma l’odore di nicotina era pregnante. Matilde
li guidò fino in cucina. Marcus si accorse che la donna non aveva
preso particolari precauzioni per affrontare i rischi del blackout.
Non si era barricata, non aveva con sé un’arma o qualcosa per
minacciare un eventuale intruso. Non possedeva una torcia e
aveva fatto strada con una candela che aveva appena acceso.
Prima del loro arrivo, era rimasta al buio – ne era sicuro. C’era
una sedia distanziata dal tavolo e, sul ripiano, due pacchetti di
Camel, un posacenere e un accendino. Matilde non si era mai
allontanata da lì. Aveva trascorso la giornata a fumare.
«Vi preparerei un caffè, ma non vanno i fornelli.»
Avevano interrotto l’erogazione del gas domestico, pensò
Sandra. Probabilmente, per evitare incendi che nessuno avrebbe
potuto sedare. «Stiamo bene così, non si preoccupi.»
Matilde Frai si sedette al solito posto e, senza domandare se
gli desse fastidio, si accese l’ennesima sigaretta.
«Non la disturberemo a lungo» disse Sandra. «Qualche
domanda e ce ne andiamo.» Marcus continuava a tacere, avevano
concordato che fosse soprattutto lei a parlare.
«Non so neanch’io perché mi sono fidata a farvi entrare»
disse la donna, e rise nervosamente. «Nessuno in una notte come
questa dovrebbe stare solo, non credete?»
Il penitenziere si accorse che, pur se ostentava tranquillità, in
realtà la donna cercava di mascherare l’ansia. Forse voleva
conoscere il vero motivo che li aveva spinti fin lì, ma non aveva il
coraggio di chiederlo.
«So che è molto doloroso» disse Sandra. «Ma vorremmo che
ricostruisse per noi quel pomeriggio di maggio di nove anni fa.»
Matilde aspirò una profonda boccata, poi espulse il fumo
lentamente. «E se mi rifiutassi?»
Mentiva, Marcus ne era sicuro. Altrimenti perché non li aveva
mandati via subito? Quella donna aveva soltanto voglia di essere
pregata, ma solo perché quella storia tragica era l’unica cosa di
valore che possedesse. Lo aveva capito entrando in casa e
guardandosi intorno: Matilde Frai non aveva più nulla da
scambiare con il mondo esterno. «Per favore» disse allora il
penitenziere.
La donna tossì. «Mi ha chiesto Tobia di andare al Colosseo.
Gli piacciono i figuranti vestiti da gladiatori.» Parlava del figlio
al presente. «Non abbiamo molti soldi. La mia laurea in lettere
antiche e filologia mi consente di dare lezioni di latino ogni
tanto, ma vado avanti facendo le pulizie. Così, quando Tobia mi
domanda qualcosa che non costa molto, lo accontento. Un
viaggetto in metro, un gelato – sono desideri semplici da
esaudire, no? Pochi giorni prima, gli ho comprato un cappellino
con lo scudetto della Roma. L’ho preso su una bancarella –
cinque euro. Ricordo ancora la sua faccia quando gliel’ho dato.
Non riusciva a crederci. Infatti non se lo toglie mai.» Sorrise, ma
era triste. «Quel pomeriggio stavamo passeggiando e lui mi
indicava le cose chiedendomi il perché. ’Mamma, perché c’è
quell’arco? Mamma, perché i gladiatori hanno una spazzola
sull’elmo?’ Conoscete quella fase che attraversano i bambini
verso i tre anni, no?» Diede un altro tiro alla sigaretta. «Era una
bella giornata, c’era il sole. Non ricordo esattamente come è
andata. So soltanto che gli ho lasciato la mano per un momento,
poi mi sono voltata e lui non c’era.»
Sandra percepì la fatica nell’andare avanti a quel punto del racconto.
«Ho iniziato a cercarlo, pensando che si fosse solo
allontanato. Ma non volevo muovermi troppo, perché altrimenti
sarebbe stato lui a perdere di vista me. Ho cominciato a fermare la
gente e a chiedere se avessero notato un bambino col cappellino
della Roma. Scuotevano il capo e proseguivano, come se non
volessero essere coinvolti nel mio incubo. Solo quando mi sono
messa a urlare il nome di Tobia qualcuno si è interessato
veramente a me. C’era una pattuglia di passaggio, li ho fermati e
ho chiesto aiuto. Dopo, qualcuno ha detto che ci ho messo troppo
ad avvertire la polizia. Forse è vero, perché in realtà non so
quanto tempo è passato, sapevo solo che mio figlio non c’era
più.» Diede l’ultima boccata e spense il mozzicone
schiacciandolo col pollice nel posacenere. «Ecco, è tutto.» Fece
una pausa. «La gente immagina che certi drammi avvengano
sempre in modo plateale. Invece è così che capitano le cose più
brutte, in modo semplice.» La donna fissò un punto imprecisato
davanti a sé.
Marcus si accorse che guardava verso la porta. Notò i segni
sulla parete, all’incirca una ventina. Procedevano dal basso verso
l’alto. Per ognuno un colore diverso, e una data differente.
L’ultimo in cima era verde, e accanto c’era scritto: 103 cm – 22
maggio. Dopo nove anni, quelle tacche erano fra le poche prove
rimaste dell’esistenza al mondo di Tobia. Un bambino che non
poteva più crescere, che avrebbe dovuto avere dodici anni e
invece ne aveva per sempre tre. Rammentò la bambola a
grandezza naturale che aveva visto a casa del Giocattolaio e provò
un brivido.
«Poi cos’è successo?» Sandra incalzava la donna.
«I giornali e le tv hanno iniziato a occuparsi della vicenda. In
principio erano tutti solidali con me. Ma dopo la faccenda delle
foto e dei filmati, le cose sono cambiate. Il fatto che nelle
immagini si vedesse mio figlio sempre e solo in mia compagnia
fece sorgere dei sospetti. Prima fu la gente – va sempre così. Non
mi perdonavano di essere una madre sola, di non avere un marito,
un compagno, un uomo con cui crescere Tobia. Nelle loro teste,
la diffidenza era la punizione che meritavo. Ma in fondo li
capisco… È difficile immedesimarsi con qualcosa di così lontano
da te come l’idea di ’smarrire’ qualcuno che ami. Giudichi perché
sei convinto che a te non capiterà mai.» Matilde scosse il capo. «I
giornalisti erano dello stesso avviso. Non avevano nemmeno
bisogno di scriverlo nei loro articoli, si accontentavano di
insinuarlo. Nessuno era più disposto a credermi. I poliziotti non
lo dicevano apertamente, però sentivo che il loro atteggiamento
nei miei confronti era mutato. Dubitavano di me, del mio
racconto. Credevano che potessi aver fatto qualcosa al mio
bambino – qualcosa di brutto. Ancora non avevano riscontri, ma
nel mio cuore sapevo che avevano smesso di cercare un rapitore
per trovare le prove che mi incastrassero. Era solo questione di
tempo, un giorno avrebbero suonato il campanello e mi avrebbero
portato via in manette… E volete sapere una cosa? Non mi
importava.» Si accese un’altra sigaretta. «A quel punto non mi
interessava se mi arrestavano e mi condannavano. Se dovevo
trascorrere il resto della vita senza Tobia, non contava dove fossi.
Il carcere o questa casa, non faceva differenza. La pena era la
stessa. Perché su una cosa avevano tutti ragione: in quel
pomeriggio di maggio l’unica persona che poteva evitare che
Tobia sparisse ero io.»
Sandra guardò Marcus. Entrambi si sentivano in colpa per
aver risvegliato i tormenti della donna. Stavolta fu il penitenziere
a prendere la parola. «Signora Frai…»
«Matilde, la prego.»
«Va bene, Matilde… Si starà chiedendo perché siamo venuti
qui proprio stanotte. È stata disponibile a riceverci perché forse
immagina che abbiamo qualche novità da comunicarle.»
«Non sono sorpresa» disse subito la donna. «Anzi, vi stavo
aspettando. Non voi, naturalmente, ma speravo che venisse
qualcuno ad aiutarmi.»
Ancora una volta, Marcus e Sandra si scambiarono
un’occhiata. Nessuno dei due capiva. «Aiutarla?» domandò la
poliziotta.
Matilde provò a cercare le parole per non passare per pazza.
Alla fine, decise di raccontare semplicemente l’accaduto. «Alle
sette e quaranta, quando mancava un minuto all’inizio del
blackout programmato, è squillato il telefono. Ho risposto ma
non si sentiva bene, la comunicazione era disturbata. Poi
dall’altra parte è apparsa la voce di Tobia.»
La rivelazione scosse i due ospiti. Ma non dissero nulla
perché volevano ascoltare il resto.
Matilde sondò rapidamente la loro reazione, per capire se era
giusto proseguire. Lo fece. «È durato pochi secondi, perché con il
distacco della corrente la linea è caduta.»
«Cosa ha sentito, esattamente?» chiese Marcus.
«’Mamma, mamma. Vieni a prendermi, mamma’» disse con
tono inespressivo. «La cosa strana – ma ci ho riflettuto soltanto
dopo – era che non sembrava la voce di un bambino di dodici
anni, bensì di tre. Allora ho capito che non era possibile e che
forse è stato come un sogno a occhi aperti, un’allucinazione.»
Marcus aveva sentito quella voce sintetica e le stesse parole
provenire dalla bambola umana del Giocattolaio, e rammentava il
telefono cordless ancora acceso che aveva visto sul pavimento. La
donna non se l’era inventato e non l’aveva neanche solo
immaginato. Era tutto vero. La chiamata doveva essere partita
dalla casa dei Parioli. Ma a che scopo tormentare la povera donna?
In una notte di buio e di tempesta, alla luce di un’unica
candela, in quell’umile cucina stavano evocando lo spirito di un
innocente. Nessuno sapeva cosa sarebbe potuto accadere.
«Io le credo» disse il penitenziere spiazzando Sandra.
Matilde sembrò sorpresa. Forse non si aspettava tanta
comprensione. «Lei pensa che fosse davvero il mio bambino?» Lo
domandò con le lacrime agli occhi.
«No, perché sarebbe impossibile che avesse ancora la voce di
quando è scomparso» ammise lui. «Ma se siamo qui stanotte è
perché stiamo cercando delle risposte. Temiamo che Tobia sia
stato rapito da qualcuno, ma ci aiuterebbe capire se è stato scelto
a caso oppure no.»
Matilde sembrò scossa dalla rivelazione. «Ho sempre pregato
che fosse stata una donna che non poteva avere figli a portarlo
via. È meglio di un maniaco o di un pedofilo, no?… Chi altri
poteva essere interessato al figlio di una povera ragazza madre?»
«Non lo sappiamo» mentì Sandra che, d’accordo con Marcus,
non avrebbe nominato la Chiesa dell’eclissi. «Ma potrebbe
esserci d’aiuto conoscere l’identità del padre.»
Matilde tacque. Si alzò portandosi appresso il posacenere e,
anche se conteneva appena due mozziconi, andò a svuotarlo nel
bidone della spazzatura. «Se vi dicessi che non lo so, mi
credereste?» Non attese la risposta. «Ricordo che ero a una festa,
e che non ero in me. Ho scoperto di essere incinta un mese dopo.
Riuscite a immaginare lo shock? Avevo appena ventidue anni,
non sapevo nulla della vita né di come si crescesse un bambino.
Fino ad allora avevo vissuto fuori dal mondo.»
Sandra si domandò cosa intendesse con quell’espressione, ma
decise di non approfondire subito per non interromperla.
«All’inizio pensavo di sbarazzarmene, mi vergognavo. La mia
famiglia non avrebbe capito una cosa del genere. Gli avevo già
dato un dolore enorme, non se ne meritavano un secondo…»
«Un momento» la bloccò a quel punto la poliziotta. «Di che
dolore sta parlando? Cosa è successo con i suoi prima che
rimanesse incinta?»
«Come, non c’è scritto nei vostri rapporti? Credevo che voi
poliziotti sapeste tutto di me.» La donna li fissava. «Compiuti
ventidue anni ho abbandonato i voti… Prima di mettere al mondo
Tobia ero una suora.»

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