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Donato Carrisi
Il maestro delle ombre
IL TRAMONTO
4

Sandra Vega odiava i topi.
Erano il suo incubo da quando era bambina. Una volta, a
Milano, la città in cui era nata, ne aveva visto uno gigantesco che,
in pieno giorno, aveva aggredito un povero piccione e poi si era
messo a divorarlo. Ricordava con ribrezzo la scena. Perciò,
mentre con Marcus camminava nelle fogne di Roma per
raggiungere la meta, stava costantemente all’erta temendo di
vederne spuntare a frotte da un momento all’altro.
Il sottosuolo della città era un dedalo in cui si mescolavano
tubature di vario genere, canali di scolo e preziosi residui del
passato – catacombe, resti di antiche vestigia e perfino cimiteri.
L’idea di Sandra era che Roma avrebbe dovuto essere un grande
museo, preservato con rigore e incontaminato da qualsiasi
ingerenza moderna. Il fatto che invece in quel museo ci vivessero
milioni di persone le sembrava semplicemente assurdo.
Il penitenziere si muoveva con disinvoltura fra le gallerie.
Molte volte se n’era servito per spostarsi indisturbato da un
punto all’altro. Avrebbe addirittura potuto spegnere la torcia e
proseguire al buio. Lungo il tragitto, sbucarono in un’ampia sala.
Marcus sollevò il fascio di luce e mostrò a Sandra la
magnificenza di una volta affrescata.
«Che posto è questo?» chiese lei, affascinata dalle scene
conviviali e di libagioni.
«Una villa patrizia.» Poi le indicò un punto preciso. «Vedi
quell’uomo e la donna? Erano i padroni della casa.»
Due giovani sposi, ritratti mentre raccoglievano i doni di un
frutteto per offrirli ai propri ospiti.
«Nessuno conosce il loro nome» precisò Marcus. «Ma, anche
dopo migliaia di anni, continuano a sorriderci e a mostrarci
quanto fossero felici.»
C’era qualcosa di miracoloso nella spiegazione del
penitenziere. Sandra non poté fare a meno di paragonarli a loro
due. Non erano mai stati felici insieme. Forse non era nemmeno
il loro destino. Le poche volte che si erano incontrati, era stato a
causa di qualcosa di malvagio.
«Dobbiamo andare» la esortò Marcus. Poi distolse la luce
dagli affreschi e i volti tornarono a spegnersi nell’oscurità dei
secoli.
Proseguirono finché la galleria terminò davanti a un muro.
«E adesso?» chiese Sandra.
«Adesso dobbiamo risalire.»
Si inerpicarono su una scaletta di metallo e sbucarono in via
San Vitale, a qualche decina di metri dal palazzo della questura.
Dai garage era un continuo andirivieni di pattuglie a sirene
spiegate. Sandra trascinò Marcus per la giacca e si nascosero
dietro un angolo. Appena la via fu libera, la poliziotta si tirò su il
cappuccio della felpa e, seguita dal penitenziere, attraversò la
carreggiata diretta al palazzo di fronte, la sede degli archivi della
scientifica. Nonostante avesse chiesto di essere trasferita
dall’unità fotorilevatori, Sandra aveva conservato le chiavi per
accedere. Pregò soltanto che, nel frattempo, non avessero
cambiato la serratura. Quando la chiave girò nella toppa, tirò un
sospiro di sollievo.
Lo stabile era vuoto, anche perché in mezzo al caos di quella
notte nessuno poteva sprecare tempo mettendosi a scartabellare
fascicoli.
«Ciò che ci interessa si trova di sotto» annunciò Sandra.
Era il luogo in cui si conservavano i casi irrisolti.
Un sotterraneo ammuffito che ospitava un labirinto di alti
scaffali. Secondo la macabra leggenda che circolava fra i
poliziotti, lì si potevano sentire i morti senza giustizia urlare
nella quiete il nome dei carnefici.
Sandra non provò nemmeno a verificare se i generatori della
questura fornissero corrente elettrica al palazzo. Anche se erano
sottoterra, non sarebbe stato prudente accendere la luce. «Tobia
Frai non è mai stato ritrovato, l’incartamento del suo caso
dev’essere per forza qui» disse mettendosi alla ricerca.
Mentre lei passava in rassegna gli scaffali con la torcia,
Marcus se ne stava in disparte e la osservava.
«Eccolo» annunciò la poliziotta. I faldoni con il nome di
Tobia erano addirittura otto. Sandra sfilò dal ripiano uno dei
grossi raccoglitori impolverati e lo portò al tavolo di
consultazione. Sulla copertina era riportato il sommario del
contenuto. Rapporti, rilevazioni, centinaia di file conservati in
vetusti dvd. «Il modo più sicuro per bloccare un’indagine è farla
soffocare sotto una montagna di cartaccia» affermò sconsolata.
E c’erano fotografie. Migliaia di immagini scattate da turisti e
passanti.
Sotto gli occhi di Marcus, la poliziotta aprì il faldone e trovò
subito un documento che sintetizzava l’indagine. «Qui dice solo
che Tobia Frai è svanito nel nulla e non è mai più riapparso…
Bla, bla, bla… Non una traccia, non un indizio: nove lunghi anni
di assoluto silenzio.» Sembrava impossibile. Anche perché la
sparizione era avvenuta in un luogo molto frequentato.
«Sicuramente nella zona intorno al Colosseo c’erano centinaia di
persone, specie in un pomeriggio di fine maggio. Come è
possibile che nessuno si sia accorto di nulla?» Erano state
impiegate decine di agenti per visionare foto e video inviati
spontaneamente alla questura, ma non ne era stato ricavato nulla.
In quei fotogrammi, Tobia appariva sempre in compagnia
della madre, una ragazza di ventisei anni di nome Matilde.
Marcus taceva, perplesso. Sandra, invece, non riusciva a
trattenere la frustrazione. «Anche se qui dentro c’è qualcosa, non
ce la faremo mai a trovarlo. Ci vorrebbero mesi, forse anni.»
Voltò pagina e lo spostamento d’aria fece scivolare un pezzo di
carta sul pavimento. Sandra si piegò per raccoglierlo.
Era una nota con dei numeri. 2844. 3910. 4455. Il foglietto
era stato strappato da un taccuino.
Per la terza volta in poche ore, Marcus riconobbe la propria
grafia. Alzò gli occhi e si guardò intorno. «Sono stato qui» si
disse. Ma non lo ricordava.
«Come è possibile?» Sandra non riusciva a crederci. «Come
hai fatto a entrare?»
«Non lo so» dovette ammettere lui, ancora sconcertato. «Ho
scritto io questi numeri, è certo.»
«Allora cosa pensi che siano?»
L’incubo dell’amnesia tornò a tormentarlo, ma non poteva
distrarsi – non ora. «D’accordo, proviamo a ragionare.»
Anomalie, rifletté. «Ho lasciato l’appunto per mandare un
messaggio, quindi se l’intento era comunicare la soluzione non
dev’essere difficile.»
«Le foto» disse subito Sandra. «L’unica risposta che mi viene
in mente è che l’elenco ha una corrispondenza nella numerazione
delle immagini contenute nei fascicoli.»
Presero tutti gli otto faldoni dallo scaffale e iniziarono a
scartabellarli. Dietro ogni foto c’era un numero progressivo.
Finalmente, trovarono le tre indicate nel foglietto.
Le misero una accanto all’altra. Nella prima c’era una signora
di mezz’età con degli shorts fucsia, una canotta e un cappellino
giallo con la visiera trasparente. Sorrideva all’indirizzo
dell’obiettivo, posando accanto a una comparsa vestita da
centurione romano. Sullo sfondo, l’Arco di Costantino e una
piccola folla di visitatori. Proprio fra quelli, si misero a cercare il
bambino col cappellino della Roma. Ma Tobia non c’era.
L’anomalia stavolta apparve a Sandra. Un uomo che si
aggirava solitario fra i turisti. «Io l’ho già visto» disse a Marcus,
indicandoglielo.
«Lo conosci?»
Non di persona, avrebbe voluto dire. «È il drogato che ho
visto uccidere nel video del telefono.» Giustiziare, sarebbe stato
il termine esatto.
«Sono passati molti anni da questa foto, sei sicura che sia
proprio lui?»
L’ostia nera. Le frasi in aramaico. Il Signore delle ombre.
L’uomo era più giovane, naturalmente, e non ancora del tutto
sfigurato dalla propria dipendenza, ma Sandra non aveva dubbi.
«Sì» confermò.
La seconda era un’immagine di gruppo. Pellegrini in gita
insieme al parroco, sicuramente contenti di aver inserito nel
programma di visita ai luoghi sacri anche la tappa al Colosseo.
L’uomo di prima si scorgeva di spalle, accanto a un chiosco di
souvenir.
Fu la terza foto, però, a lasciarli sgomenti. Una panoramica
del noto monumento che comprendeva la fermata della
metropolitana e, soprattutto, i bagni pubblici. L’uomo era
esattamente lì davanti.
E teneva in braccio una bambina.
«Che…» Sandra non capiva.
Marcus sì, ma non era contento di esserci arrivato. «Subito
dopo averlo rapito, l’ha portato in bagno e gli ha cambiato i
vestiti.» Accarezzò con il dito l’abitino bianco.
Il gesto di tenerezza non sfuggì a Sandra, sottolineava quanto
era stato semplice far sparire nel nulla Tobia. Per tanto tempo
avevano cercato un maschietto in quelle foto. Si sbagliavano.
Pochi riuscivano a distinguere con chiarezza il sesso di un
bambino di tre anni. I poliziotti, ma anche i presenti alla scena in
quel pomeriggio di primavera, erano stati ingannati
dall’abitudine. L’esperienza gli aveva insegnato che un bambino
vestito da femmina è una femmina.
«La Chiesa dell’eclissi rapisce Tobia… Ma a che scopo?» si
chiese Sandra.
Entrambi temevano la risposta.
«Forse dovremmo domandarci perché proprio Tobia?» disse
Marcus.
«Cosa intendi dire?»
«Quanti minori c’erano al Colosseo quel giorno? Il rapitore
sceglie a caso?»
«Ha preso la preda incustodita, approfittando di un attimo di
distrazione della madre.»
«Chi ci dà la certezza che sia andata proprio così?»
«Se ci pensi, il luogo si prestava bene a un rapimento: quale
posto migliore della folla per far sparire un minore?»
Marcus non ne era persuaso. «Ma, per lo stesso motivo, era
maggiore anche il rischio di fallire. Perché non prendere un
bambino in una zona meno sorvegliata?»
«Vuoi dire che ti sembra scelto troppo a caso?»
«Non lo so, ma è plausibile anche credere che avessero uno
scopo. Che Tobia Frai non fosse un bambino come gli altri. Che
fosse importante per loro.»
«Qual è il prossimo passo, allora?»
«Scoprire perché.»

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