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Il maestro delle ombre
| Donato Carrisi Il maestro delle ombre |
| L’ALBA |
| 10 2 ore e 35 minuti al tramonto Da quando la sera prima era stata diffusa la notizia del blackout, per Rufo lo Scarafaggio era iniziata una febbrile attesa, un misto di euforia e impazienza. Chiuso nel garage dove viveva, si era preparato per tutta la notte all’evento, pensando a come avrebbe potuto far fruttare quell’occasione irripetibile: ventiquattro ore di assoluta Babilonia. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa e rimanere impunito. Certo, doveva stare attento, ma l’idea di mettersi al lavoro era troppo ghiotta. Come tutti, Rufo lo Scarafaggio aspettava di varcare il confine del tramonto. Il buio sarebbe stato connivente. Ma, per prima cosa, doveva scegliere una vittima. Aveva iniziato a fantasticare molto presto sulla fortunata che avrebbe meritato l’onore di essere stuprata. Di solito, cercava prede facili. Scartava le tossiche e le barbone perché aveva paura di beccarsi una malattia. Perciò non rimanevano che le turiste straniere ubriache, le autostoppiste, le ragazze scappate di casa. Andavano bene anche le grassottelle che si mettevano in mostra su Internet – quei cessi in rete riuscivano ad accalappiare uomini che mai e poi mai nella vita reale le avrebbero anche solo guardate. Da non crederci. Però rientravano nel target di Rufo perché, come le altre, di rado in seguito sporgevano denuncia. Un po’ per vergogna, un po’ perché in fondo sapevano di essersela cercata. Il blackout, tuttavia, cambiava le regole del gioco. Perché allora accontentarsi? Per tutta la notte, Rufo lo Scarafaggio aveva immaginato la bruna che incontrava spesso al supermercato. Borsone da palestra, vago sentore di sudore, grandi tette e un culo deciso. Oppure c’era la biondina che lavorava al negozio di telefonia – uh! Era uno schianto! Come gli altri commessi, indossava una divisa orrenda, ma dai pantaloni a vita bassa le spuntava sempre un tanga colorato. Si piegava apposta per provocare, la puttana. E poi c’era la proprietaria del bar in cui andava a prendere il caffè ogni mattina. Era separata e aveva un figlio. Il marito doveva averla lasciata perché alla signora piaceva troppo scopare in giro – sì, era proprio così. La donna scherzava pesantemente coi clienti, le piaceva che le facessero tutti la corte. Anche se la troia non aveva mai degnato Rufo di uno sguardo. Per lei e per le altre, lui non esisteva neanche. Era solo il ragazzo gracilino, timido e introverso, che camminava rasentando i muri e si infilava negli angoli. Uno scarafaggio, appunto. Ma uno di quelli che non vale nemmeno la pena di schiacciare. Se solo avessero saputo ciò che sapeva fare con un vibratore e un coltello… Rufo si era sempre limitato a guardarle a distanza. Troppo belle e irraggiungibili per uno sfigato come lui. Se per farsele avesse dovuto usare il «solito metodo», sarebbe finito in galera di sicuro. Adesso, invece, no. Poteva essere ambizioso. Gli sembrava di essere uno scarafaggio dentro una dispensa di dolciumi. Tutto quello zucchero delizioso! Dopo una lunga riflessione, aveva escluso la bruna del supermercato, perché non aveva tempo per reperire informazioni sul suo conto, e la proprietaria del bar, per via del figlio che poteva essere con lei. Non rimaneva che la biondina del negozio di telefonia. Non ci aveva messo tanto a scoprire dove abitasse. L’idea era di entrarle in casa e farle una sorpresa. Ma, prima di mettersi in azione, aveva bisogno che calasse il sole. Si era masturbato almeno quattro volte da quando era sveglio. Adesso doveva darsi una calmata, altrimenti non ne avrebbe avuto abbastanza per la notte. Per distrarsi, si mise a sistemare l’attrezzatura e ricapitolò anche il piano che aveva escogitato. C’era il coprifuoco e doveva essere prudente. Se gli sbirri l’avessero beccato con quella roba nello zainetto, l’avrebbero picchiato a sangue. Bastardi. Era sicuro che quei sadici con la divisa non vedessero l’ora di mettere le mani su qualche poveraccio per fracassargli il cranio a manganellate. Quella notte ci sarebbe stata la terza guerra mondiale a Roma. Ma si sa, gli scarafaggi se ne fregano delle bombe. In fondo, erano le sole creature del pianeta a essere sopravvissute per milioni di anni a ogni genere di estinzione. Nel chiuso del garage, ripeté a mente il percorso che aveva deciso di fare per eludere la ronda delle guardie. Poi controllò ancora una volta la piccola videocamera GoPro che si sarebbe piazzato sulla fronte durante l’agguato. Doveva funzionare a dovere. In verità, l’unico problema erano le batterie. Non potendo ricaricarle con la corrente elettrica, sperava di farcela con quelle che aveva. Sarebbe stata una beffa se l’avessero piantato proprio sul più bello. Aveva speso un bel po’ di soldi per quel gioiellino, ma la resa finale era notevole. Le immagini erano stabilizzate, la luminosità autocorretta. Certo, spesso interveniva in postproduzione per migliorare i video. Molti avrebbero potuto commettere l’errore di scambiare Rufo lo Scarafaggio per un semplice maniaco stupratore. Lui invece era anche un piccolo tycoon di successo. La sua giovane startup macinava profitti in rete. L’ultima frontiera del porno su Internet era lo stupro. Rufo, in fondo, non si sentiva un comune film-maker ma una specie di artista. La sua opera era già leggenda fra i cultori del genere. Ultimamente, lo Scarafaggio si stava anche attrezzando per lo streaming in diretta. Aveva un mucchio di idee. Chissà quanto avrebbe fruttato in termini economici la violenza sessuale sulla biondina del blackout. Una fortuna, ne era convinto. Rufo aveva intenzione di filmare tutto, anche l’ingresso nell’appartamento. Mentre ci pensava, un’ondata di calore gli risalì dall’inguine. Sentì che il pene gli diventava ancora duro. Senza resistere all’impulso, s’infilò una mano nei pantaloni e lo strinse – ’fanculo, per farsi a ripetizione la biondina avrebbe preso un Cialis. Col capo gettato all’indietro e gli occhi chiusi, attendeva solo l’orgasmo. Invece arrivò un improvviso dolore lancinante al basso ventre. «Come stai, Rufo?» chiese Marcus mentre stringeva forte fra le dita i suoi testicoli. «A cosa ti stai preparando?» Lo sollevò di qualche centimetro da terra. Rufo non riusciva a parlare. L’aria gli era fuoriuscita in un istante dai polmoni e non aveva più la forza di inspirare. L’uomo gli era arrivato alle spalle – come aveva fatto a entrare nel garage? Però l’aveva riconosciuto dalla voce. Il tizio con la cicatrice sulla tempia sinistra a cui sanguinava sempre il naso e che lui aveva ribattezzato «il Guastafeste». L’unica volta che si erano incrociati, aveva posto fine a una delle sue migliori performance con una ragazza asiatica, a cui lo Scarafaggio aveva dedicato un lungo corteggiamento di coltello. Di quell’incontro aveva ancora un chiaro ricordo, perché poi aveva trascorso quasi due mesi in ospedale con una vertebra incrinata e un trauma pelvico da schiacciamento. «Rufo lo Scarafaggio» disse Marcus. «Sembra il protagonista schifoso di una brutta favola.» Mollò un poco la presa per farlo respirare. Si guardò in giro. «Hai messo su una nuova tana, vedo. I pionieri del web cominciano sempre da un garage, bravo.» Rufo blaterò qualcosa. Ma nemmeno lui era sicuro che fossero parole. «Non capisco… Che stai cercando di dirmi?» Il penitenziere si avvicinò con la bocca all’orecchio dello stupratore seriale. «Risparmia il fiato e rispondi rapidamente: la ’gogna del piacere’, un aggeggino bondage davvero carino. Quello che ho trovato, però, ha qualche optional in più: visore per la realtà aumentata, sensori che percepiscono l’eccitazione e dosano lo strozzamento, connessione a Internet per i contenuti pornografici. Il tutto rinchiuso in un’elegante scatola foderata di velluto nero.» «… ricco…» Marcus capì solo quella parola. Allora decise di dare a Rufo un po’ di tregua. Lasciò la presa sui testicoli e vide lo Scarafaggio crollare sul pavimento e poi contorcersi con le mani strette al basso ventre, il viso paonazzo. «Potresti ripetere ciò che hai detto, per favore?» Dopo un po’, Rufo riuscì a emettere un filo di voce. «Che solo un ricco può permettersi certa roba…» «Il dettaglio non mi era sfuggito. Dimmi qualcosa che non so, oppure ricomincio la disinfestazione… Decidi tu.» Rufo lo Scarafaggio si voltò sulla schiena e rimase a guardare il soffitto per un lungo istante, cercando di reprimere il dolore. «Intendevo dire che sarà costato un sacco di soldi perché probabilmente è un pezzo unico, fatto su misura.» «Chi fabbrica questa roba?» «Finiture in cuoio ed elettronica, giusto?» Marcus capì di aver scelto la persona giusta a cui domandare. «Esatto.» «Allora a Roma c’è solo uno che lavora così. Un vero artigiano. I suoi clienti sono gente di classe e, soprattutto, danarosa. Non badano a spese per ottenere un servizio di qualità.» «Come si chiama?» «Non ha un nome. Lo chiamano il ’Giocattolaio’.» La definizione era appropriata per la merce che vendeva. Sofisticati giochi per adulti, piccole perversioni meccaniche. «Dove lo trovo?» «Certo non nell’elenco telefonico.» Rufo si mise a ridere, ma smise subito perché una fitta gli rammentò che per il momento era meglio restare immobili. «Ti ho appena detto che non ha un nome, perciò è logico che nessuno sappia dove abita, non ti pare?» «Allora come faccio a trovarlo?» Rufo pensò che aveva l’occasione per salvare la pelle. «Se ti ci porto, prometti che dopo non mi uccidi?» Marcus confidava in quel genere di proposta. «Non lo so.» Rufo camminava davanti e cercava di ripararsi dalla pioggia mantenendosi sotto i balconi. Marcus procedeva qualche passo dietro di lui, senza mai perderlo d’occhio e incurante di bagnarsi. In giro c’era meno gente rispetto al mattino, e quelli che incrociavano affrettavano il passo per tornare a casa prima dell’inizio del coprifuoco. La luce oltre le pesanti nuvole scure era cambiata. Marcus sapeva che dovevano fare in fretta. Il tramonto era vicino. Il quartiere Parioli era uno dei più eleganti della città, la zona ben presidiata dalle forze dell’ordine. Forse per via della nota agiatezza degli abitanti, pensò il penitenziere. Il coprifuoco non sarebbe bastato a tenere lontani i ladri. Presto sarebbero arrivati in massa, famelici e spietati. Il Giocattolaio non avrebbe avuto problemi, perché da molto tempo aveva preso opportune precauzioni. Abitava in una bella villetta con giardino, risalente agli anni Cinquanta, circondata da un alto muro di mattoni con filo spinato alla sommità. C’erano telecamere ovunque. Dal loro occhietto rosso, Marcus capì che il padrone di casa era munito di un generatore. Il penitenziere contò almeno tre diversi sistemi d’allarme esterni. Chissà quanti ne celava l’interno. C’era una sola possibilità di entrare. Così, appena arrivarono di fronte al cancello, Marcus spinse Rufo verso il citofono. «Si incazzerà di brutto quando vedrà che ti ho portato qui» disse lo Scarafaggio. «Sempre che decida di aprirci.» «Spero per te che sarai convincente» lo minacciò Marcus. Rufo allungò un braccio verso la pulsantiera, ma si arrestò subito. «Cosa cazzo…» Lo Scarafaggio prima osservò il cancello, poi vi appoggiò una mano. Spinse, e il cancello si aprì. Interrogò Marcus con lo sguardo, perché non sapeva cosa fare. Il penitenziere gli diede una seconda spinta e lo costrinse a entrare. «Ehi, ti ho portato qui, adesso puoi proseguire da solo» protestò l’altro. Marcus non lo ascoltò nemmeno. Lo afferrò per un braccio e si diresse verso la casa. Giunti sotto al portico, si accorse che dall’interno non proveniva alcun suono. E, a dispetto del generatore, non c’erano nemmeno luci accese. Anche la porta d’ingresso era semplicemente accostata. «Descrivimi il Giocattolaio, cosa sai di lui?» «Che è grasso, pelato e s’incazza facilmente» rispose Rufo. «Quanti anni ha?» «Che ne so, credo una cinquantina.» «Ha armi?» Dall’espressione dello Scarafaggio comprese che non si era mai posto il problema. «Senti, me la sto facendo sotto. Perché non mi lasci andare?» Marcus lo ignorò di nuovo e lo scagliò verso la porta che si aprì facendolo capitombolare all’interno. «Figlio di puttana» imprecò Rufo. Il penitenziere entrò e, dopo averlo scavalcato, si guardò intorno. Era una strana casa. Le pareti erano dipinte di rosso scuro e contenevano delle teche. Si avvicinò a una di esse. C’era una giostrina di latta magnificamente decorata, i cavallini erano smaltati e lucenti. In un’altra vetrina c’era un circo in miniatura automatizzato. In una terza, un pupazzo a molla. Al Giocattolaio piacevano i balocchi del passato. «Che collezione, eh?» disse Rufo. «La prima volta che sono stato qui sono rimasto…» «Silenzio» lo interruppe Marcus. In mezzo al rumore della pioggia, aveva percepito un suono che proveniva da qualche parte della casa. «Lo senti anche tu?» «Dovrei sentire cosa, esattamente?» Andava e veniva, era come un lamento. Ma il penitenziere non era sicuro che fosse reale. Forse era un residuo della sua recente amnesia, forse un acufene presente soltanto nella sua testa. Raccolse Rufo dal pavimento e lo trascinò con sé verso il corridoio. Arrivarono in una sala circolare. Le finestre davano sul giardino interno. I pini, spogliati dai recenti temporali, erano grotteschi e macabri come scheletri danzanti. «Questo è il laboratorio» annunciò lo Scarafaggio. La grande stanza era divisa a metà. Da una parte c’erano una postazione di computer e un tavolo d’acciaio su cui erano sparsi dei componenti di robotica. Dall’altra, un bancone da lavoro. Sopra, arnesi da artigiano. Ma anche cuoio, velluto, seta. C’era anche una specie di stoffa chiara che sembrava morbida e invitante al tatto. «È la famosa pelle del Giocattolaio» disse Rufo. «Che cosa ci fa con questa?» L’altro scoppiò a ridere. «Come cosa ci fa? Tu che ci faresti? Non ti viene voglia di palparla?» Marcus capì che lo stava solo prendendo in giro. Si disinteressò della stoffa e si avvicinò ai computer. «Cosa sai della ’gogna del piacere’?» «Il Giocattolaio una volta mi ha detto che l’aveva perfezionata a puntino. Quella che mi hai descritto è la versione ’lusso’. È collegata a un database dove ci sono immagini che di solito non trovi nell’Internet ufficiale, ma solo nella rete sommersa – il cosiddetto Deep Web. Roba estrema o roba snuff. Si può essere condannati solo per il fatto di possederla.» Il penitenziere non riusciva a togliersi dalla testa le due immagini di Arturo Gorda. Quella che dava di sé alla maggioranza della gente – per loro era già santo. E quella che aveva offerto a pochi occhi quella mattina – nudo e immondo. «Visto che i contenuti pornografici provengono direttamente da Internet, forse allora la gogna è dotata di un qualche controllo remoto.» «Può essere» ammise Rufo. «Io non me ne intendo molto.» Ma Marcus ormai parlava ad alta voce solo per sé, per essere sicuro che la teoria avesse un senso. «Se il congegno è controllabile a distanza, qualcuno può introdursi indisturbato nel software e manometterne il funzionamento.» «Un virus informatico. Sì, certamente» convenne lo Scarafaggio. Allora Gorda è stato certamente assassinato, pensò Marcus. E il suo assassino poteva aver agito proprio da lì. Mentre nella sua testa l’ipotesi prendeva forma di certezza, fu nuovamente distratto dal suono lamentoso che aveva udito entrando nella casa. Stavolta, però, lo sentì anche Rufo. «Che cazzo è? Sembra il pianto di un…» «… bambino.» Marcus adesso ne era sicuro. Si voltarono nella stessa direzione. Il lamento proveniva da dietro una porta chiusa. Marcus si avviò. «Ehi, aspetta» provò a fermarlo Rufo. Ma l’altro non aveva voglia di ascoltare. «Cazzo» imprecò lo Scarafaggio, e lo seguì. Marcus aprì la porta e varcò la soglia. Dovette attendere che le pupille si abituassero alla penombra. Poi lo vide. Non si era sbagliato. C’era un bambino in piedi in mezzo alla stanza. «Mamma! Mamma! Vieni a prendermi, mamma!» supplicò terrorizzato. «Non mi lasciare qui! Non mi lasciare solo!» Il penitenziere fece un passo verso di lui. Riconobbe il cappellino con lo scudetto della Roma. «Mamma! Mamma! Vieni a prendermi, mamma! Non mi lasciare qui! Non mi lasciare solo!» L’anomalia gli saltò subito agli occhi: in nove anni, Tobia Frai non era mai cresciuto. «Porca puttana!» esclamò Rufo alle sue spalle. «Fa venire i brividi.» Il bambino era rinchiuso in una delle teche del Giocattolaio. Piccole lacrime gli rigavano il volto. Quando parlava, la bocca si muoveva appena. Ma, soprattutto, il volto era inespressivo. «Mamma! Mamma! Vieni a prendermi, mamma! Non mi lasciare qui! Non mi lasciare solo!» ripeté per la terza volta. «Cristo, sembra vero.» Rufo era serio. La famosa pelle del Giocattolaio, pensò Marcus. La stessa che aveva visto nel laboratorio. Serviva per fabbricare perfetti simulacri di carne a grandezza naturale. «Quest’uomo è un dio.» Lo Scarafaggio era ammirato. «Ti piace seviziare le donne? Lui te ne costruisce una che chiede pietà. Sei un pedofilo ma hai paura di finire in galera? Lui ti permette di soddisfare le tue fantasie senza rischiare d’infrangere la legge.» Appagava i vizi più sordidi delle persone. Permetteva loro di soddisfare ogni voglia perversa rimanendo puri come angeli. «Aspetta un momento.» Rufo si avvicinò alla teca. «Io so chi è! Avevo dieci anni e mia madre rompeva le palle perché non voleva che andassi in giro da solo. Era una fissa. Diceva: ’Per strada c’è un sacco di gente che ruba i bambini, potresti finire come Tobia’… Questo piccolo bastardo ha rovinato la mia infanzia» rise. «Non si è mai saputo che fine ha fatto, ma spero proprio che sia crepato.» Marcus non aveva voglia di replicare alle nefandezze che uscivano dalla bocca dello Scarafaggio. Il fatto che in quel momento avesse scoperto grazie a Rufo che Tobia Frai non era mai stato ritrovato lo disturbava. Si chinò perché accanto alla teca con la bambola c’era un telefono cordless. Era ancora acceso ma, ovviamente, non c’era la linea. Qualcuno ha telefonato da qui recentemente, si disse il penitenziere. «Ehi, ti sanguina il naso.» Marcus si portò una mano al viso. Rufo aveva ragione. «Come l’altra volta» commentò lo Scarafaggio. «Sono io che ti faccio questo effetto?» E rise di nuovo. Mentre il penitenziere si osservava le dita bagnate di rosso, qualcosa attraversò rapidamente il suo campo visivo e andò a posarsi proprio sul sangue. Una piccola mosca dalla livrea di un blu metallico, molto elegante. «Voglio che tu te ne vada» disse. «E non rimetterai mai più piede in questo posto.» Rufo era incredulo. Davvero non intendeva ucciderlo? Davvero poteva tornarsene al garage e riprendere i propri piani per la notte? Il tizio che durante il loro primo incontro gli aveva spappolato i testicoli sembrava serio. «Sì, d’accordo» disse, cercando di nascondere l’eccitazione. Poi, prima che il bastardo guastafeste cambiasse idea, girò i tacchi e si avviò verso l’uscita. La biondina del negozio di telefonia lo stava aspettando, anche se lei non lo sapeva ancora. Rimasto solo, Marcus si chinò sulla mosca blu. «Avanti, piccola» la esortò. «Portami da lui.» |
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