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Il maestro delle ombre
| Donato Carrisi Il maestro delle ombre |
| L’ALBA |
| 7 5 ore e 38 minuti al tramonto Il video rinvenuto nel telefonino smarrito sul taxi durava duecentosei secondi. «Ma per uno dei due protagonisti saranno durati come un’eternità» disse Vitali mentre abbassava le luci nella sala tecnica del formicaio. Crespi si era seduto in disparte: a quanto pareva, il commissario aveva delegato al collega ogni spiegazione. La stranezza non sfuggì a Sandra. In fondo, l’ispettore Vitali era solo un burocrate, un passacarte. Ufficio statistiche su crimine e criminalità, ancora non se ne faceva una ragione. Perché la omicidi gli lasciava un simile margine di libertà? Ma ormai non poteva tirarsi indietro. Era già piazzata alla postazione davanti al grande schermo al plasma. Era spento ma dalla superficie nera, simile all’ardesia, proveniva lo stesso uno scuro bagliore. «È un sistema Pro Tools di ultima generazione» spiegò Vitali. «È in dotazione ai fotorilevatori da appena qualche mese. È molto semplice: le basterà toccare lo schermo per fermare, mandare avanti o indietro le immagini, o per ingrandire o ridurre un fotogramma.» Sarà come essere lì, pensò Sandra. Di solito lei arrivava dopo, quando il male si era già consumato. E poteva sempre rifugiarsi dietro la Reflex, e lasciare che il freddo meccanismo della macchina sbrigasse il lavoro sporco. Stavolta, invece, avrebbe partecipato, anche se indirettamente, a ciò che era accaduto. «È pronta?» chiese l’ispettore, temendo un ripensamento. Sandra si prese ancora qualche secondo e si voltò verso Crespi, che rimase impassibile. «Sì.» Vitali si armò di un telecomando e fece partire la registrazione. Dapprima, le immagini furono instabili e fuori fuoco. Dopo aver spaziato per alcuni secondi su un pavimento lurido, l’obiettivo della videocamera del cellulare si sollevò di scatto, fissandosi su quello che sembrava un vecchio letto d’ospedale. Tutt’intorno, mattonelle sbeccate e umidità. Disteso sul lercio materasso c’era un uomo. Sandra provò un senso di liberazione quando scoprì che non si trattava di Marcus. Ma il sollievo durò poco. Lo sconosciuto piangeva e si dimenava in una posa innaturale. Una corda lo avvolgeva in spire che salivano dalle caviglie sino ai fianchi. Le braccia erano spalancate e si tendevano verso la spalliera a cui, con dei legacci, erano assicurati i polsi. Fino alla vita era ancora vestito, ma offriva il torace nudo. Come la vittima di un sacrificio. «Ti prego… no…» supplicava. Capelli corvini, tagliati molto corti. Magro al punto che, sotto la pelle glabra, si intravedevano le ossa del costato. Il volto era scavato e l’espressione congestionata per lo sforzo di sollevare il collo sottile e le spalle, nel tentativo di liberarsi. Era solo disperazione, pensò Sandra. Non ci sarebbe riuscito. Anche lui lo sapeva. Eppure un estremo istinto di sopravvivenza lo spingeva a provarci lo stesso, a ribellarsi con tutte le energie che aveva in corpo. «Ti prego, lasciami andare…» Le vene all’altezza delle tempie pulsavano così forte da far immaginare che presto sarebbero scoppiate, inondandogli la faccia di rosso. Una striscia di muco giallastro gli scivolava dal naso lungo il labbro, fino a impastarsi con le lacrime e la saliva della bocca. «Cosa vede, Vega?» domandò Vitali. «Ha l’incarnato giallastro, la pelle screpolata. Si vedono i lividi della necrosi delle vene. Gli mancano alcuni denti e gli altri sono anneriti, perciò gli si potrebbero dare approssimativamente cinquant’anni. Ma, in realtà, non è così anziano.» Invecchiamento da abuso di sostanze stupefacenti, così lo chiamavano. Una vita difficile lasciava sempre segni inequivocabili. «Esperienze di droga. Una collezione di piccoli precedenti. Dentro e fuori dal carcere.» In tanti l’avrebbero definito un rifiuto della società. Quanti ne aveva fotografati di tipi così quando era alla scientifica? Di solito venivano trovati cadaveri in un fosso accanto a una strada, in mezzo alla spazzatura, senza denaro o documenti che consentissero l’identificazione. L’obitorio era pieno di corpi senza un nome. «A volte a farli fuori è il loro spacciatore, capita quando diventano troppo molesti. Ma più spesso ad ammazzarli è un disperato come loro, col solo intento di mettere le mani su una dose e pochi spiccioli.» Vitali non confermò né smentì, non disse nulla. Perché poi nel video accadde qualcosa. L’operatore, che era rimasto immobile fino ad allora, allungò un braccio. Nell’inquadratura apparve una mano con un guanto di lattice. L’uomo teneva qualcosa fra le dita. Un’ostia nera. Si avvicinò al prigioniero, gliela cacciò fra le labbra e gli tappò la bocca con il palmo per costringerlo a mangiare. Poco dopo, Sandra vide che lo sguardo della vittima mutò. Gli occhi, che fino a poco prima cercavano disperati la pietà del carceriere, adesso si immobilizzarono fissando il vuoto. L’espressione del viso si rilassò. L’aguzzino gli tolse la mano dalla bocca e si allontanò nuovamente, restando a guardare. Il prigioniero mosse le labbra. Dapprima lentamente, quindi sempre più veloce. Emetteva solo una specie di sussurro. Un frenetico susseguirsi di sillabe che emergevano e svanivano. Blaterava. Poi il volume della voce aumentò, ma le parole rimasero incomprensibili. «Che lingua sta parlando? Non capisco» chiese Sandra. «Sembra ebraico» ma non ne era sicura. «È aramaico maccabaico» puntualizzò, serio, Vitali. «Era usato in Palestina ai tempi di Cristo.» L’affermazione dell’ispettore spiazzò Sandra. Come faceva un tossicodipendente a conoscere una lingua parlata duemila anni prima? «Sta dicendo: ’Il Signore delle ombre cammina con me. Lui è il maestro della verità. Lui è la nuova vita’» tradusse Vitali. Sandra lo fissò, era serio. Intanto, il prigioniero continuava a ripetere le frasi, come in una litania. Che razza di storia era quella? Vitali sapeva cosa stesse passando nella mente di Sandra Vega. La poliziotta si stava domandando perché l’ispettore a capo dell’ufficio statistiche su crimine e criminalità fosse interessato a quel filmato e come facesse a sapere con esattezza cosa stava dicendo il prigioniero. Ma a Vitali non interessava. Era venuto il momento di sparigliare un po’ le carte. Perciò gli stava bene che Sandra Vega iniziasse a nutrire dei dubbi su di lui e sulla sua funzione. Intanto, nello schermo, l’operatore appoggiò il telefono con la videocamera sulla spalliera del letto. La ripresa ora era sbilenca, ma si poteva scorgere abbastanza bene l’ombra che si chinava sul prigioniero e gli afferrava la mandibola con una mano, per tenerlo fermo. Poi, a completamento della blasfema eucarestia, cominciava a versare il contenuto di una coppa d’oro nella bocca spalancata. Pane e vino – corpo e sangue. L’altro non si opponeva, beveva come in trance. Si sentiva il suono del liquido che scendeva gorgogliando nella gola, come acqua sporca nello scarico di un lavandino. Una volta terminata l’operazione, l’ombra tornò indietro senza voltarsi e mostrarsi in volto, e riprese il telefono per continuare a filmare. L’uomo disteso adesso non parlava più. Aveva semplicemente gli occhi sgranati e lo sguardo sempre assente. Sandra si domandò cosa stesse per succedere. Cosa gli aveva fatto bere? Non era vino. Improvvisamente il corpo della vittima fu scosso da una potente convulsione. Sembrava che la corda e i lacci con cui era legato non potessero reggere quella forza sovrumana. Dalla pelle del torace dell’uomo cominciò ad affiorare qualcosa. La poliziotta d’istinto si avvicinò allo schermo per vedere meglio. Era vapore. Nell’organismo stava avvenendo una reazione caustica. L’effetto era il miasma che scaturiva dai pori della pelle. La carne iniziò ad assumere un colore brunito, come se stesse bruciando dall’interno. L’espressione della vittima, pur travolta da potenti spasmi muscolari, continuava a essere indifferente. Ma lo spettacolo non era ancora finito. La pelle iniziò a piagarsi, a incistarsi di bolle purulente. Si scorgevano l’esofago e la trachea. Poi toccò ai polmoni. I bronchi emersero come due lembi carbonizzati. Le piaghe divennero presto ulcere, collassarono una alla volta aprendo tanti piccoli buchi nella polpa viva. Dalle ferite, però, non sgorgava sangue, bensì ancora fumo, simile a zolfo. Sandra si immedesimò col tassista di Roma che aveva rinvenuto il telefono con quel filmato nella memoria. Pensò alla reazione del poveretto quando, nel tentativo di risalire al legittimo proprietario attraverso il contenuto del cellulare, si era trovato davanti un simile orrore. Ne sarebbe rimasto segnato per il resto dell’esistenza. La convulsione del prigioniero cessò improvvisamente. L’obiettivo indugiò ancora un poco sul cadavere devastato. Nel silenzio che seguì, rimase solo un leggero e tremendo sfrigolio. Poi la ripresa si arrestò. Quella non era l’opera di uno strafatto di coca e acidi, pensò subito Sandra. C’era del metodo. «Allora, che può dirmi?» chiese Vitali. La poliziotta si voltò a fissarlo. Il suo sguardo rivelava ostilità. «Cosa vuole sapere?» «A parte l’assassino, ci sono un mucchio di interrogativi irrisolti, agente Vega. Si va dall’identità della vittima al luogo dove è avvenuta l’uccisione. Non sappiamo nulla di tutto ciò.» Omicidio rituale, avrebbe voluto sentenziare Sandra. Invece disse: «Minuto uno e ventisette secondi». Poi, senza aggiungere altro, con un gesto della mano fece scorrere all’indietro le immagini sullo schermo. Rallentò i fotogrammi, avanzò lentamente fino a trovare il punto esatto. «Guardi qua…» Vitali si sporse. Vide il braccio sinistro della vittima che, nel tentativo di liberarsi dal legaccio teso sulla spalliera del letto, si divincolava in maniera innaturale. Sandra appoggiò le dita unite sul fotogramma, le spalancò e lo ingrandì. Sulla pelle dell’avambraccio c’era un piccolo tatuaggio. «Un cerchio azzurro» disse Vitali per confermare che adesso lo vedeva anche lui. «Può far analizzare la ripresa quante volte vuole, ispettore. Non troverà altro di rilevante.» Sandra pronunciò la frase con estrema sicurezza e riservando uno sguardo anche a Crespi che non aveva aperto bocca e adesso la osservava in evidente imbarazzo. Vitali percepì la tensione fra i due. Era esattamente ciò che voleva. «Va bene, può prendersi la giornata libera, agente Vega.» Sandra lo fissò, incredula. «E il blackout?» «Sapremo fare a meno di lei» sorrise l’altro, beffardo. «Come crede, ispettore» fu la risposta secca della poliziotta. L’ostia nera, l’aramaico maccabaico, il «Signore delle ombre», quella specie di sacrificio umano: aveva visto e sentito fin troppo. Recuperò la giacca della divisa che aveva appoggiato sulla spalliera della sedia, passò davanti a Crespi e lasciò la sala senza salutare. Poco dopo, anche l’anziano commissario si alzò dal proprio posto. Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e si apprestò a uscire. Prima, però, si voltò ancora verso il collega. «È proprio sicuro di ciò che stiamo facendo?» «Non devo darle spiegazioni.» Se fosse stato solo un semplice ispettore, Vitali non avrebbe mai potuto rivolgersi con quel tono a un superiore. Ma lui non era semplicemente un ispettore. Per questo Crespi, dopo la risposta, girò i tacchi e se ne andò come un cane bastonato. Vitali, però, era soddisfatto. Il cerchio azzurro, ripeté fra sé. Era contento che Sandra se ne fosse accorta. Era come dicevano tutti: in gamba. Forse la poliziotta immaginava ancora di trovarsi lì per via del proprio talento di fotorilevatrice. Sandra Vega non sapeva che la vera ragione della sua presenza quella mattina era un’altra. Ma, dopo aver visionato il video, certamente avrebbe nutrito dei sospetti. Bene, molto bene. Vitali le sarebbe stato addosso finché non avesse capito quanto realmente c’entrasse lei in quella storia. Perché ciò che Sandra non sapeva, e che Vitali si era guardato bene dal rivelarle, era che nel telefonino rinvenuto dal tassista, oltre al terribile filmato, c’era qualcos’altro. |
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