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Donato Carrisi
Il maestro delle ombre
L’ALBA
6

In Vaticano, il Palazzo apostolico era stato evacuato.
Il cardinale Erriaga aveva dato disposizioni precise in tal
senso. Nessuno avrebbe dovuto accedervi per alcun motivo fino a
nuovo ordine. Il tutto era facilitato dal fatto che, per ragioni di
sicurezza legate al maltempo e al blackout, il pontefice era stato
portato via da Roma la sera prima e adesso si trovava nella
residenza di Castel Gandolfo.
Marcus aveva un’ora per completare la missione. Stavolta
nessuna indagine, Erriaga era stato chiaro.
«Cosa vuole che faccia?»
«Le pulizie.»
Dopo l’impalpabile passaggio del penitenziere, la
gendarmeria avrebbe ripreso possesso dei luoghi e soltanto allora
sarebbero state avviate le indagini ufficiali sul decesso del
vescovo Arturo Gorda, che si sarebbero concluse con una
constatazione di morte per cause naturali. Per fortuna di Erriaga,
la tragica fine dell’uomo era avvenuta all’interno delle mura del
piccolo Stato sovrano. Se fosse successo in territorio italiano, il
cardinale non avrebbe potuto impedire lo scandalo.
Nel comunicato ufficiale del Vaticano, che al termine del
blackout avrebbe annunciato al mondo la scomparsa dell’alto
prelato, sarebbe stata fornita una verità edulcorata. Avrebbero
fatto riferimento a un generico «evento cardiaco».
Una bugia buona, pensò Marcus mentre attraversava il cortile
di San Damaso sotto la pioggia battente. Salì lo scalone di
marmo fino al secondo piano. I passi solitari risuonarono nella
Loggia di Raffaello, un tripudio di stucchi e fregi colorati
armonicamente distribuiti in una leggera architettura di finestre e
pilastri. Mentre la percorreva, il penitenziere sollevò il capo per
godere dello spettacolo delle tredici volte affrescate. Riconobbe
le Storie della Genesi, con la creazione della luce e la
separazione della terra dalle acque. La creazione di Eva, la
cacciata dal paradiso terrestre. Le Storie di Isacco e di Giacobbe,
Mosè, Salomone, per terminare con le Storie di Cristo. Pensò ai
privilegiati che, nei secoli, erano stati ammessi a quello stupore
compiendo lo stesso cammino. Pochi, si disse. Uomini potenti
che avevano lasciato un segno indelebile nella storia. Alcuni fra
loro erano abietti, indegni. Altri, veri santi.
E adesso lui. L’uomo delle «pulizie».
Giunse di fronte alla porta dell’appartamento riservato al
vescovo Gorda. Era stata chiusa subito dopo il rinvenimento del
cadavere. Erriaga aveva affidato a Marcus l’unica chiave per
accedervi. Il penitenziere la usò per aprire l’uscio ed entrò
richiudendoselo subito alle spalle.
La prima stanza era un disimpegno. Trasse dalla tasca un paio
di guanti di lattice, li indossò per non lasciare impronte. Per lo
stesso motivo, si sfilò le scarpe di tela bianche sporche di fango.
Poi s’incamminò per perlustrare gli altri ambienti.
L’alto prelato viveva in maniera semplice. L’arredamento era
sobrio ed essenziale. Nessuno sfarzo, nessuna concessione alla
mondanità. Unica eccezione, forse, i libri. C’erano ripiani colmi
di tomi, altri erano accatastati negli angoli. Probabilmente
costituivano il principale passatempo di Gorda che, per via
dell’agorafobia, non usciva più da molti anni.
I volumi formavano una specie di percorso obbligato. Marcus
lo seguì e si trovò in una camera con un letto singolo, sormontato
da un crocifisso di legno. Una porticina nascosta nel muro
introduceva a un bagno cieco. Accanto, c’era lo studio del vescovo.
Varcò la soglia e si trovò davanti la tragedia di quel corpo
anziano esanime, rannicchiato sul pavimento, come fosse collassato.
Ciò che non si evinceva dalle Polaroid che gli aveva mostrato
Erriaga era che il cadavere si trovava proprio di fronte a un
piccolo altare a muro su cui, come era obbligatorio per ogni
prete, Gorda celebrava la sua solitaria messa quotidiana.
La postura e la nudità rivelavano, perciò, qualcosa di
blasfemo. Ma l’affronto a Dio gli era costato caro.
Il visore, come una maschera grottesca, gli copriva gli occhi e
gli avvolgeva il cranio, fino alla nuca. L’elemento tecnologico
strideva con l’ambiente. Non c’erano computer o televisori nella
clausura di Gorda. Il vescovo aveva fatto un’eccezione per
assecondare la propria perversione segreta.
Immagini pornografiche, ripensò Marcus.
Da sotto quella specie di casco argentato spuntavano ciuffi di
capelli bianchi. Il congegno era collegato con un cavetto nero al
collare di cuoio. Il penitenziere si avvicinò e vide che sulla gola, a
contatto con le finiture, la pelle sottile del vecchio era graffiata.
Ha provato a liberarsi con le mani dalla stretta, si disse. I residui
di sangue sotto le unghie lo confermavano.
Strozzamento meccanico, fu la sua conclusione.
Per un momento a Marcus mancò l’aria. Erano gli echi del
panico da soffocamento provato nel Tullianum. Gorda aveva
sperimentato la stessa cosa, ma per scelta. «Pare sia una pratica di
autoerotismo bondage» aveva detto Erriaga. «Sembra che alcuni
individui provino piacere a farsi strangolare.» Marcus si chiese
quando per Arturo Gorda il piacere si fosse trasformato in
sofferenza e poi nella consapevolezza di stare per morire. Il
vescovo aveva avuto il tempo per recitare almeno una preghiera?
Oppure, come aveva sostenuto il cardinale, era morto davvero
«come un cane», prigioniero di quella trappola?
La gogna del piacere.
Gorda era stato rinvenuto in quello stato dalla suora che
aveva il compito di portargli una tazza di caffè d’orzo verso le
otto. La religiosa era fuggita via in preda al terrore e aveva
avvertito subito i gendarmi. Per ciò che aveva visto, la poverina
avrebbe ricevuto in premio un trasferimento in un convento
sperduto dell’Africa, dove avrebbe trascorso il resto dei propri
giorni. I gendarmi sarebbero stati adeguatamente ricompensati – e
minacciati – perché tenessero la bocca chiusa. Marcus conosceva
bene i metodi di Erriaga per prevenire le emorragie di notizie.
Intorno e sul cadavere non c’erano segni dell’intervento di
terze persone. L’evidenza avvalorava la tesi della morte
accidentale. Tanto più che, a poca distanza dal corpo, c’era una
scatola nera foderata di velluto in cui il vescovo riponeva il
dispositivo che l’aveva ucciso.
Era un oggetto elegante e costoso, considerò Marcus. Il
paladino dei poveri sapeva come viziarsi.
Ma lui non si trovava lì per giudicare. Il suo dovere era far
sparire le tracce di una fine indecorosa, che avrebbe potuto creare
imbarazzi al Vaticano. Per quanto non gli piacesse affatto ciò che
stava per fare, era convinto che fosse la cosa migliore. La Chiesa
era forte, ma gli uomini che la servivano spesso erano deboli. E
lui stesso non faceva eccezione.
Rimosse quei pensieri. Era il momento di mettersi al lavoro.
Prima finiva e prima poteva tornare all’indagine che aveva
lasciato in sospeso. Scoprire cosa gli era accaduto quella notte.
Perché si era ritrovato nudo e ammanettato in fondo al Tullianum.
E, soprattutto, chi lo odiava a tal punto da aver deciso di
ucciderlo in modo tanto crudele, attraverso la tortura dell’affamamento.
Trova Tobia Frai.
Cominciò slacciando il collare. Il cuoio era rivestito
internamente di alcantara, per non lasciare lividi o segni. Il
meccanismo per indossare la gogna era molto semplice, ma Gorda
non era riuscito comunque a liberarsi. O non ne aveva avuto il
tempo. Magari il soffocamento gli aveva provocato un infarto
divenuto fatale in pochi secondi. Marcus lo sapeva, non esisteva
mai una ragione univoca dietro la morte, spesso era un insieme di
concause. L’unica cosa certa era che qualcosa era andato storto.
Escluse un malfunzionamento della macchina – certi aggeggi
avevano sempre un dispositivo di sicurezza. Molto più
banalmente, il vescovo aveva corso un rischio troppo grosso per
la sua età.
Marcus sistemò il corpo sul pavimento, facendogli assumere
una posizione supina. Osservò ancora una volta la nudità del
cadavere e si accorse che, all’interno della coscia destra, il
prelato aveva impresso un tatuaggio.
Un piccolo cerchio azzurro.
Il colore era quasi del tutto svanito, lasciando solo un alone,
segno che risaliva a molti anni prima. Forse un piccolo gesto di
ribellione durante la gioventù, pensò il penitenziere. Chissà se
Gorda se ne era pentito. Forse Marcus era l’unico estraneo a
conoscere il dettaglio, magari il vescovo se ne vergognava. La
morte era sempre poco rispettosa dei pudori umani. Nel caso di
Gorda, poi, ne aveva fatto scempio.
Marcus doveva ancora togliergli il visore. L’aveva
volutamente lasciato per ultimo, perché nutriva l’irrazionale
timore di incrociare lo sguardo spaventato del vescovo sotto la
maschera. Per prima cosa, aprì le chiusure automatiche, una per
volta. Quindi sfilò lentamente il copricapo. Le orbite avevano
quasi espulso i bulbi oculari, com’era tipico nei casi di
strozzamento. Marcus si fece forza e, con due dita, li spinse
indietro finché non tornarono nella posizione originaria. Poi gli
abbassò le palpebre. Stava per iniziare a recitare una preghiera
per l’anima di quel peccatore, quando la sua attenzione fu attratta
nuovamente dal visore che giaceva per terra.
Anche a distanza, poté scorgere che lo schermo era ancora
acceso.
Allora lo prese e se lo avvicinò alla faccia. Non c’era nulla di
pornografico nell’immagine proiettata. Era una semplice scritta.
«Assenza di segnale.»
Il visore era collegato a Internet. Il vescovo lo stava usando
prima del blackout, perciò era naturale che adesso non ci fosse
connessione. Forse era meglio così. Non avrebbe voluto
conoscere altri dettagli torbidi dell’esistenza di Gorda. Meglio
che muoiano insieme a lui, pensò.
Si concentrò su ciò che restava da fare. Ricollocò il congegno
nella scatola nera foderata di velluto. L’avrebbe portato con sé
andando via e l’oggetto sarebbe sparito per sempre.
Poi si mise a frugare l’appartamento in cerca di qualcos’altro
di compromettente. Guardò nei cassetti e svuotò gli armadietti del
bagno. Sfogliò perfino alcuni libri. Non c’era tempo per una
perquisizione accurata, Erriaga avrebbe dovuto accontentarsi.
Rimaneva soltanto un dettaglio per completare la messinscena:
rivestire il cadavere.
Si diresse verso l’armadio del vescovo in cerca di un abito
appropriato. Lo aprì e, rovistando tra gli indumenti, si accorse
che Gorda conservava un vecchio giornale ingiallito. Marcus lo prese.
Era una copia del Messaggero, la data di pubblicazione
risaliva al 23 maggio di nove anni prima.
Forse era necessario far sparire anche quello. Per
sincerarsene, cominciò a sfogliarlo. Nulla, però, attirò la sua
attenzione. Niente di sospetto o di compromettente. Fino a che
non giunse alla sezione della cronaca di Roma. Fu il titolo a
catturargli lo sguardo. Recitava: Scomparso a Roma il piccolo
Tobia Frai.
Fu come un lampo nella testa. Il penitenziere rivide
l’immagine dall’appunto che si era ritrovato in tasca al
Tullianum: «Trova Tobia Frai».
Non poteva essere solo una coincidenza.
Sul giornale spiccava la foto in bianco e nero di un bambino
di tre anni. Occhi grandi e limpidi, il volto sorridente pieno di
lentiggini. Indossava una T-shirt chiara e portava un cappellino
con lo scudetto della Roma.
Marcus iniziò a leggere.
«Tobia Frai è scomparso ieri verso le diciotto in pieno centro,
a pochi passi dal Colosseo. Il piccolo era a passeggio con la
madre che sostiene di averlo perso di vista per pochi secondi. La
donna, infatti, ha denunciato prontamente l’accaduto a una
pattuglia che transitava di lì. La polizia, che in un primo
momento aveva ipotizzato che il bambino si fosse allontanato da
solo smarrendo la strada, adesso non esclude altre ipotesi
investigative. Saranno visionati i filmati delle telecamere di
sicurezza che sorvegliano la zona. Contemporaneamente, per
cercare di fare luce sul destino del piccolo Tobia, le autorità
chiedono aiuto ai turisti e ai cittadini che si trovavano in zona nel
momento della scomparsa. Chiunque stesse fotografando o
filmando il Colosseo è pregato di inviare il materiale all’indirizzo
mail della questura di Roma.»
Marcus, incredulo, continuava a tenere il giornale davanti alla
faccia. Quando lo riabbassò, si accorse che c’era qualcos’altro in
fondo al mobile. Un allarme scattò nella sua testa. Anomalia, si
disse.
Un paio di scarpe di tela bianche. Identiche alle sue.

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