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Donato Carrisi
Il maestro delle ombre
L’ALBA
5

I computer emettevano un basso ronzio, simile a quello di
uno sciame d’api.
Nella penombra, i telefoni squillavano. Le diverse postazioni,
ciascuna illuminata da una lampada regolabile a led, sembravano
piccole oasi di luce. Un vago odore di ammoniaca filtrava
dall’impianto di aria condizionata e, in un angolo, il distributore
dell’acqua continuava a mantenere il liquido a una temperatura
costante – mai troppo fredda.
Vitali trovava rassicurante fare un novero di quelle piccole
sensazioni. Non si fa mai troppo caso ai dettagli, pensò. Tranne
quando vengono a mancare. Quando, per sortilegio, svaniscono
dal quadro d’insieme, lasciandoci un senso di caducità e
incertezza. E in quelle ore, là fuori, la gente stava perdendo i
propri piccoli punti di riferimento. E aveva un assaggio della fine
del mondo.
Cosa sarebbe accaduto l’indomani, quando Roma si sarebbe
risvegliata dall’incubo del breve olocausto tecnologico? Nessuno
poteva dirlo. E per Vitali ciò era abbastanza divertente.
La sala operativa dell’unità di crisi della polizia era situata in
un bunker a pochi passi dal ministero degli Interni, in pieno
centro. Potenti generatori le garantivano una piena autonomia. In
omaggio a Maigret, le avevano dato come nome in codice «il
formicaio».
A Vitali piaceva, era calzante. In quel momento era al lavoro
un’ottantina di persone. Nonostante il continuo viavai, non c’era
alcuna frenesia. Tutto si svolgeva con calma. Il tono di voce era
impostato su un livello moderato e ognuno dava l’impressione di
sapere esattamente cosa fare.
Vitali, completo grigio chiaro, mocassini marroni e camicia
azzurra, con una mano si accarezzò tre volte il nodo della cravatta
blu per controllare che fosse a posto. Poi diede un altro bel sorso
al suo bicchiere d’acqua fresca, osservando la grande parete di
monitor che aveva di fronte a sé.
Più di un centinaio di schermi su cui si alternavano le
immagini di oltre tremila telecamere piazzate in città.
Davanti alla distesa di monitor, un nutrito gruppo di agenti
muniti di cartellina e auricolare prendeva nota di tutto ciò che
appariva sospetto, con l’intento di registrare o prevenire il
crimine. Era un lavoro minuzioso, che richiedeva grande
pazienza, ma date le circostanze era più che necessario. Finora si
erano presentati pochi casi in cui fare intervenire le pattuglie, e di
gravità modesta. Una rissa fra i clienti di un supermercato che
cercavano di accaparrarsi generi alimentari prima della chiusura
forzata, qualche tossicodipendente che non aveva saputo resistere
alla tentazione di scassinare una farmacia in pieno giorno.
La vera orda, però, sarebbe calata per le strade con il buio.
Vitali lo sapeva: a dispetto delle assicurazioni delle autorità,
quella notte sarebbe stato il caos. Con la garanzia
dell’invisibilità, gli sciacalli erano pronti ad assaltare negozi e
uffici rimasti incustoditi. Lo stesso discorso valeva per i vandali
che, indisturbati, avrebbero potuto fare scempio delle proprietà
altrui. Per non farsi mancare nulla, in giro si respirava anche un
clima da resa dei conti. Le bande di strada si preparavano alla
guerra con i gruppi rivali e la criminalità organizzata ne avrebbe
approfittato per ridiscutere rapporti e alleanze, nonché per fare un
po’ di pulizia fra le proprie fila. Fin dall’alba, Vitali aveva
raccolto i segnali di ciò che stava per accadere a Roma, complice
l’oscurità.
Ma c’era anche tutta una serie di crimini imprevedibili.
L’anarchia avrebbe fatto impazzire tanta gente. Molti
insospettabili avrebbero deciso di dare sfogo al rancore o alla
rabbia che avevano accumulato negli anni. Vicini di casa che non
si erano mai sopportati. Mariti che liquidavano le mogli. Mogli
che facevano fuori i mariti. Impiegati che andavano a far visita a
casa del capufficio.
La storia delle lenzuola appese alle finestre per chiedere aiuto
era una balla colossale. Nessuno sarebbe stato al sicuro. Ogni
psicopatico della città si stava già armando per consumare la
propria vendetta o, semplicemente, per dare sfogo a un istinto
sopito per anni.
Nessuno voleva ammetterlo, ma era impossibile presidiare in
maniera efficace una metropoli grande quanto Roma.
Sebbene fossero stati fatti confluire in città reparti
provenienti da altre regioni del Paese, gli uomini a disposizione
della polizia per pattugliare le strade erano sempre troppo pochi
rispetto alla mole di malintenzionati, e non tutti avevano
l’equipaggiamento necessario a contrastare assalti organizzati o
rivolte, e nemmeno crimini violenti. E i carabinieri non se la
passavano certo meglio. Il piano di sicurezza era stato apprestato
con un preavviso di poche ore. La maggior parte degli agenti non
era stata destinata a proteggere la popolazione, bensì ministeri,
palazzi del potere e ambasciate, tutti possibili obiettivi per
terroristi dell’ultima ora. Politici e alte cariche dello Stato erano
stati evacuati in gran segreto con le famiglie durante la notte per
mezzo di convogli speciali, alla faccia dei comuni cittadini che
non potevano lasciare la città.
Ciò che nessuno aveva detto alla popolazione, rifletté Vitali,
era che la merda che stava capitando, in realtà, era molto più
grossa e puzzolente di come volevano far credere. Ma se ne
sarebbero accorti presto. Vitali continuava a ripeterselo pensando
anche a quanti non avrebbero rivisto l’alba il giorno dopo.
Nonostante il ministero avesse predisposto da tempo un
piano dettagliato per affrontare quel tipo di emergenza, la
tecnologia che avrebbe dovuto supportarlo non era mai stata
testata sul campo. Il sistema presentava grosse falle e il
combinato «evento meteorologico più blackout» le stava
mettendo drammaticamente in evidenza. Per esempio, nessuno era
in grado di stabilire la durata delle potenti batterie che
alimentavano la rete di telecamere di sicurezza inaugurata da
appena qualche mese e costata diverse decine di milioni di tasse
della collettività. Era il solito discorso. Quando la merda doveva
affiorare, arrivava sempre tutta insieme.
Per questo, in quel preciso frangente, Vitali era grato.
Grato per l’ordine che vigeva in quella sala. Grato per le
formichine operose che svolgevano diligentemente il proprio
compito. Grato per la pistola che portava sotto la giacca perché,
in quanto tutore della legge, era autorizzato a servirsene per far
rispettare le regole. Grato per l’acqua fresca nel suo bicchiere,
simbolo spesso trascurato di purezza e pulizia. Due valori a cui
lui, invece, si era sempre ispirato.
Come molti altri colleghi, Vitali era stato chiamato in
«servizio continuativo», un modo gentile per dire che anche lui
era stato precettato. Ma, tanto, non aveva di meglio da fare. Aveva
da poco iniziato una relazione e certo non gli sarebbe dispiaciuto
chiudersi in casa con la sua nuova conquista e qualche grammo di
coca e farsele entrambe a ripetizione. Quella vigliacca però
doveva stare coi figli e il marito. Il brutto dell’Apocalisse era che,
nel caso, lui avrebbe dovuto affrontarla da solo.
Perciò, l’ispettore Vitali dell’ufficio statistiche su crimine e
criminalità era pienamente arruolabile.
Era sorprendente la rapidità con cui mutavano le sue
qualifiche. Lo cambiavano di posto mediamente ogni sei mesi. Si
era occupato di decoro pubblico, del parco automezzi, era stato
nella redazione della rivista interna al corpo di polizia. Per un
periodo – Dio santo! – l’avevano addirittura spedito in giro per le
scuole per parlare agli studenti degli effetti devastanti della
dipendenza dalle droghe. Tutte mansioni che qualsiasi agente
avrebbe voluto scansare, di solito riservate ai piantagrane, a chi
s’era beccato un provvedimento disciplinare oppure a chi aveva
perso la testa in servizio, magari tirando fuori la pistola davanti a
un paio di ragazzini intenti a imbrattare un muro. Ma a Vitali
andava bene così. Che lo credessero pure un inetto o un poco di
buono. Anzi, lo scopo era esattamente quello. E, fino a quel
momento, la copertura aveva perfettamente funzionato.
Nessuno doveva sapere di cosa si occupava realmente
l’ispettore Vitali.
Vide una piccola delegazione che attraversava il formicaio.
C’erano il commissario Crespi della omicidi, il questore Alberti e
il gran capo in persona, il prefetto De Giorgi. Vitali intercettò il
suo sguardo e l’altro gli fece un cenno d’intesa. Prima di seguirli,
bevve l’ultimo sorso d’acqua rimasto, poi gettò il bicchiere di
carta nell’apposito scomparto per il riciclaggio dei rifiuti perché
il caos, almeno nel formicaio, non prendesse ancora il
sopravvento. Intravide la donna che era insieme ai suoi superiori.
Anche se non l’aveva mai vista di persona, la riconobbe
ugualmente.
Sandra Vega camminava qualche passo più indietro rispetto
agli altri. Un po’ per soggezione verso le autorità che la
precedevano, e poi perché si domandava cosa ci facesse lei al
formicaio. All’alba, una pattuglia si era presentata a casa sua, a
Trastevere. Due giovani colleghi, che non rammentava di
conoscere, le avevano detto che erano lì per scortarla.
Sandra aveva appena finito di fare colazione e stava
indossando la divisa perché, di lì a poco, avrebbe dovuto
prendere servizio. Quella scena le era sembrata uscire da un
passato che aveva cercato faticosamente di rimuovere. Dopo anni
trascorsi nella squadra fotorilevatori della polizia scientifica, era
riuscita a farsi trasferire all’ufficio passaporti. Si era trattato di
una scelta precisa. Non ne poteva più della vita precedente.
Essere sempre la prima ospite di una scena del crimine e
analizzare luoghi, indizi, prove e corpi inanimati con la macchina
fotografica, alla lunga si era rivelato usurante.
Dopo il caso del mostro di Roma aveva deciso di averne
abbastanza.
I passaporti erano un ottimo rifugio. Gente che partiva –
uomini d’affari, sposini che si apprestavano al viaggio di nozze,
vacanzieri. Gente che arrivava – stranieri che, dopo anni trascorsi
in Italia, finalmente avevano ottenuto la cittadinanza per sé e i
propri figli. Le vite di quegli individui le scorrevano davanti,
innocue. Non avevano il potere di farle del male, come le
immagini dei corpi mutilati. Arrivavano da lei con le fototessere,
in cui per legge dovevano posare con espressione seria. Ma poi,
quando avevano terminato la procedura burocratica, li vedeva
andar via sorridenti perché pensavano a ciò che li attendeva. Il
futuro. Anche se era una cosa cretina da dire, Sandra lo sapeva
bene: i morti non avevano futuro. E quella semplice, banale
constatazione era il motivo per cui trovava la forza di alzarsi ogni
giorno. Perfino quella mattina.
Anche se a causa del blackout era stata esonerata dalle
mansioni abituali e, come molti colleghi che lavoravano in
ufficio, riassegnata temporaneamente al servizio attivo, Sandra
non immaginava certo di meritare una scorta per andare al lavoro.
Quando le avevano nominato il formicaio avrebbe dovuto
insospettirsi. Cosa sarebbe andata a fare lei nella sala operativa?
Il presentimento che ci fosse un motivo serio era diventato una
certezza quando aveva trovato ad accoglierla il commissario Crespi.
Il suo vecchio superiore era agitato. «Il capo vuole vederti.»
Sandra adesso seguì docilmente la delegazione attraverso la
sala operativa fino all’ingresso di un ufficio.
Il capo della polizia De Giorgi si fermò sulla soglia e attese
che tutti entrassero, poi richiuse la porta. «Bene» disse. «Mi
sembra che possiamo cominciare.»
Sandra conosceva tutti, tranne l’elegantone allampanato con
dei mocassini orrendi, che continuava a toccarsi ossessivamente il
nodo della cravatta per verificare che fosse in ordine.
I presenti presero posto sulle sedie d’acciaio che costituivano
parte dello spartano arredamento della stanza. De Giorgi andò a
sedersi dietro una piccola scrivania. Le pareti erano spoglie e sul
tavolo c’erano soltanto due apparecchi telefonici collegati a una
complessa pulsantiera. Il capo appoggiò le braccia sul ripiano,
salvo poi sollevarle nuovamente, inorridito, e soffiare sulla
polvere che ricopriva la superficie. «Sono stato costretto a
lasciare il mio ufficio per venire in questo buco, ma
evidentemente qualcuno si è dimenticato di ripulirlo.»
Sandra si accomodò sulla sedia più distante, accostata al
muro, chiedendosi ancora cosa ci facesse lì, in mezzo a una
riunione di pezzi grossi. L’elegantone era la presenza più
inquietante. Se ne stava seduto con le gambe accavallate. Il volto
perfettamente rasato intorno a un naso aquilino. L’abito grigio
chiaro reduce da una precisa stiratura. Il fermacravatte d’oro
come il vistoso anello con rubino che portava al medio della
mano sinistra. Chi diavolo era?
«Il ministro mi prega di porgervi i suoi saluti» esordì il capo
della polizia. Tutti annuirono per ringraziare, come se il ministro
fosse lì. «Seguirà l’evolversi della situazione dalla sua villa in
Toscana.» Erano così abituati a essere ossequiosi, notò Sandra,
che dimenticavano quanto in realtà fossero ridicoli.
«Ho informato personalmente il ministro poco fa» ci tenne a
intervenire il questore Alberti. «La situazione è, tutto sommato,
sotto controllo. Gli uomini sono addestrati, stanno contenendo il
panico e affrontano brillantemente gli sporadici tentativi di
approfittare del blackout per delinquere.»
«Bene, molto bene» si congratulò il capo della polizia.
«Finora abbiamo svolto un ottimo lavoro. Bisogna continuare così.»
Ma guarda tu queste due grandissime teste di cazzo, pensò
Vitali. Si complimentavano a vicenda mentre là fuori tutto
precipitava rapidamente. Spostò lo sguardo verso la poliziotta e,
dall’espressione, comprese che provava lo stesso suo disgusto.
Vitali aveva chiesto che fosse presente un’altra donna alla
riunione, per non farla sentire in minoranza, ma il capo della
polizia se n’era infischiato delle cautele.
Intanto, il commissario Crespi si sporse verso Sandra. «Come
stai?» le chiese a bassa voce. Il superiore aveva appoggiato la sua
decisione di mollare tutto, era sempre stato gentile e lei lo stimava.
«Meglio» lo rassicurò. Dirgli semplicemente che andava bene
sarebbe stata solo una frase di circostanza. E Crespi non si
sarebbe accontentato. Tanto valeva usare una via di mezzo e dirgli
una parte della verità. Cioè che non era ancora a posto, ma ci
stava lavorando.
A Vitali non sfuggì il breve scambio. Aveva raccolto
informazioni su Sandra Vega. Un tempo era considerata un’ottima
fotorilevatrice. Ma due lutti avevano segnato, forse
irrimediabilmente, la sua ancora giovane esistenza. Il marito
fotoreporter era deceduto in circostanze misteriose anni prima. La
Vega si era trasferita da Milano a Roma per indagare sulla sua
morte. Alla fine era rimasta, aveva provato a rifarsi una vita con
un altro e le era andata male, perché il compagno era stato ucciso
in modo brutale. Roba da psicanalisi perenne, e forse anche da
psicofarmaci.
«Il motivo che mi ha spinto a convocarvi qui lo conoscete
già» disse il capo interrompendo i preamboli. «Ma è necessario
ripeterlo a favore dell’agente Vega.» Indicò Vitali. «Forse lei non
conosce ancora l’ispettore Vitali. È a capo dell’ufficio statistiche
su crimine e criminalità.»
«Non sapevo neanche che esistesse un’unità preposta,
signore» ammise Sandra.
In effetti aveva ragione, pensò Vitali, sorridendo fra sé. Era
stata creata appositamente un’ora prima, e subito dopo gli era
stato assegnato l’incarico di dirigerla.
«Gli uomini dell’ispettore Vitali si occupano della
prevenzione dei reati.»
«Dovrebbe venire a uno dei nostri seminari, agente Vega»
affermò l’ispettore. «Lo troverebbe molto istruttivo.» Vitali
godeva come un matto ogni volta che, in circostanze simili, il
capo della polizia cercava di giustificare un suo incarico di
copertura.
«Ispettore, vuole per piacere esporre i fatti a beneficio
dell’agente Vega?»
Vitali si alzò dal proprio posto e si diresse verso la poliziotta,
piazzandosi di fronte a lei. «Ieri sera, più o meno alle ventidue e
trenta, un tassista ripuliva la propria auto dopo aver terminato il
turno pomeriggio-sera. In seguito, ci ha raccontato che lo fa
sempre perché, cito testualmente, ’non si sa mai cosa combinano
i clienti là dietro mentre non posso vederli’.» Sorrise, ma poi il
ghigno scomparve dalla sua faccia.
Sandra cercava di capire lo scopo del racconto, ma per il
momento si limitò ad ascoltare.
«Ebbene» proseguì Vitali. «Ieri sera, per l’appunto, quando
ha scoperto un telefono cellulare incastrato fra i sedili, ha
pensato subito che un passeggero l’avesse smarrito. Così, per
prima cosa, lo ha acceso per verificare se poteva risalire al
proprietario attraverso le ultime chiamate.» Vitali infilò una mano
all’interno della giacca e ne estrasse un vecchio Nokia, un
modello certamente superato rispetto ai moderni smartphone. Era
custodito in una busta trasparente per reperti. Lo appoggiò sul
tavolo del capo della polizia e con la mano fece cenno a Sandra
di avvicinarsi con la sedia in modo che potesse vederlo bene.
«L’apparecchio non contiene nessuna sim-card. In memoria non
c’è alcun numero di telefono. Non risultano chiamate in entrata
né in uscita.»
«E allora?» domandò la poliziotta, impaziente.
Vitali, invece, si prese tutto il tempo. «È uno dei primi
esemplari con videocamera. Infatti, aprendo la cartella delle
immagini, il tassista si è imbattuto in un filmato… di inaudita
crudeltà.»
La breve pausa prima di concludere la frase gettò Sandra
nell’angoscia. Tentò lo stesso di reprimere qualsiasi reazione.
Voleva mostrarsi forte, perché detestava rivelare quanto invece
fosse diventata debole negli ultimi tempi. «Cosa volete che
faccia?» domandò con voce ferma, mentre già si mordeva un labbro.
Il commissario Crespi si sporse nuovamente verso di lei e le
mise una mano sulla spalla. «Quando stamattina il prefetto De
Giorgi mi ha chiesto chi fosse il miglior agente che abbiamo mai
avuto nella squadra fotorilevatori, ho pensato subito a te.»
Non era andata esattamente così, si disse Vitali. Ma gli stava
bene che l’anziano commissario la incensasse un po’ se questo
significava raggiungere lo scopo.
Loro volevano espressamente Sandra Vega.
«Io non faccio più parte dell’unità» gli rammentò lei, come a
voler ribadire che quella parte della sua vita era un capitolo
chiuso ormai. E Crespi, meglio di chiunque altro, avrebbe dovuto
saperlo. «Qualcuno è morto, vero?» aggiunse gettando
un’occhiata guardinga al cellulare sul tavolo, come se
quell’aggeggio di plastica nera, apparentemente inanimato,
potesse aggredirla. «Per questo anche lei è qui. Altrimenti che
motivo avrebbero per coinvolgere la omicidi…»
Crespi annuì in silenzio.
«Per anni, lei ha fatto parte della squadra dei fotorilevatori
della scientifica» la incalzò Vitali. «Con la sua Reflex è andata a
caccia di dettagli sulle scene del crimine. È in grado di leggere e
interpretare meglio di noi l’opera di un mostro. Un individuo che
prova piacere a immortalare le proprie gesta e la sofferenza delle
vittime in un video.»
Aveva proprio detto «opera»? Sandra provò un brivido. No,
non voleva proprio averci a che fare.
«Ascolti, agente Vega» intervenne il questore Alberti.
«Sappiamo quanto potrebbe essere doloroso per lei tornare a
occuparsi di simili faccende, e che ciò potrebbe riaprire vecchie
ferite. Ma le chiediamo uno sforzo per il bene della collettività.
Stiamo correndo un grave pericolo e non possiamo sottovalutare la cosa.»
Non potevano ordinarglielo, ma la richiamavano lo stesso ai
suoi doveri. A Sandra, però, non importava. Pensassero pure che
si era imboscata all’ufficio passaporti con il solo intento di
conservare uno stipendio e il diritto alla pensione. Per come la
vedeva lei, non si trattava di meri privilegi. Alcuni colleghi
terminavano la carriera senza subire alcuno scotto. Lei invece
aveva pagato un prezzo elevatissimo per la divisa che indossava.
«Mi dispiace» disse alzandosi. «Non potete chiedermelo. Non
posso.» Si diresse verso la porta con l’intenzione di lasciarsi
quella storia alle spalle.
Vitali la richiamò indietro. «Agente Vega, rispetto la sua
decisione ma mi permetta di dirle un’ultima cosa.» Era molto
serio. «Quel telefono non è stato ’dimenticato’ su quel taxi.
Qualcuno ce l’ha lasciato apposta. Sapeva che sarebbe stato
ritrovato e che sarebbe finito qui, in questa sala. Perché ciò che
contiene, che ci piaccia o meno, è un messaggio. Ed è un
messaggio semplice… C’è un essere umano là fuori capace di
fare cose indicibili ai propri simili. Vuole farci sapere che è forte,
e potente. E che non si fermerà davanti a nulla… Non commetta
l’errore di pensare che si tratti solo di un avvertimento o di una
minaccia. È una dichiarazione d’intenti. Vuole dirci: questo è solo l’inizio.»
Sandra si voltò a guardarlo. «L’inizio di cosa?» Era spaventata.
«Non lo sappiamo. Ma, francamente, non mi aspetto niente di
buono nelle prossime ore.»
«Avete tutta la tecnologia, le risorse e le competenze per catturarlo.»
«È vero, ma ci manca una cosa… Il tempo.» Vitali pensò
all’emergenza meteorologica, al blackout e a tutti i mostri della
città che attendevano solo l’arrivo della notte per scatenarsi.
Doveva convincerla a tutti i costi. «Con tutto ciò che sta
accadendo non abbiamo tempo per dargli la caccia come si deve.
E lui lo sa.»
Sandra tentennò.
Vitali capì di aver scosso un poco l’antico senso del dovere.
«Le chiedo solo di dare un’occhiata al filmato. Poi, se non se la
sentirà di fornirci un’analisi, la capiremo e potrà dimenticare tutto.»
Dimenticare? Il figlio di puttana non sapeva che quelle
immagini sarebbero riaffiorate nei suoi peggiori incubi notturni?
Certo che lo sapeva, ma non gliene fregava niente. Come a
nessuno dei presenti, d’altronde. Volevano solo servirsi di lei,
usarla. Sandra passò in rassegna i loro sguardi muti e capì di
avere ragione, e li disprezzò. Ora aveva un motivo in più per
andarsene da lì finché era ancora in tempo.
«Quel cellulare purtroppo non basta a ricondurci all’uomo
che cerchiamo» continuò Vitali, mentre Sandra era sul punto di
avviarsi nuovamente verso l’uscita. «Sopra c’erano soltanto le
impronte del tassista e una minuscola macchia di sangue. Non
abbiamo trovato alcun riscontro nel database del DNA. Perciò
non si tratta di un delinquente abituale. Abbiamo a che fare con
una figura criminale totalmente nuova, diversa da quelle che
conosciamo. Molto più perversa e pericolosa. L’unica cosa che
sappiamo di lui è che soffre di un disturbo comune a migliaia di
persone, perché secondo la scientifica quello sul telefono è
sangue da epistassi.»
Sandra si bloccò. Le gambe le tremarono, e pregò che
nessuno nella stanza se ne accorgesse. Era soltanto un pensiero
irrazionale. Quante possibilità c’erano che Vitali parlasse della
stessa persona? Eppure qualcosa le diceva che non le era più
concesso di lasciar perdere.
Marcus – il suo Marcus.
Vitali si accorse di un impercettibile mutamento
nell’espressione di Sandra e, ancor prima che lei parlasse, seppe
con certezza che aveva cambiato idea.
«Va bene» disse la poliziotta cercando di mostrarsi calma.
«Mi occuperò di questa cosa, ma solo di questa.» Tutti
sembrarono soddisfatti. Non immaginavano che nutrisse un
improvviso interesse personale. «Ho bisogno di visionare
adeguatamente il materiale.»
«Le metteremo a disposizione le risorse necessarie» le
assicurò il capo della polizia.
Mentre il superiore parlava, Sandra osservava il cellulare sul
tavolo. Ormai la vista dell’oggetto, che finora aveva cercato di
sfuggire, non le faceva più paura. Lei doveva sapere.
Vitali era soddisfatto: aveva raggiunto lo scopo. Io non sono
realmente chi dico di essere, pensò. Ma anche tu, agente Vega,
hai un segreto da nascondere. E lo scoprirò.

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