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Il maestro delle ombre
| Donato Carrisi Il maestro delle ombre |
| L’ALBA |
| 3 7 ore e 24 minuti al tramonto Locali pubblici, negozi, uffici e scuole sarebbero rimasti chiusi a tempo indeterminato. L’illuminazione stradale era spenta, così come i semafori che sovrintendevano agli incroci. A parte le ambulanze e i mezzi delle forze dell’ordine e dei vigili del fuoco, nessun altro veicolo era autorizzato a circolare. Anche la metropolitana era ferma. Ci si poteva spostare soltanto a piedi. La città avrebbe dovuto essere deserta. Ma, a dispetto dell’emergenza, alcuni affrontavano diversamente la situazione. Incuranti degli allarmi e delle raccomandazioni, in parecchi si erano riversati nelle vie per sperimentare di persona quella singolare condizione di una Roma svuotata dal caos quotidiano di auto e turisti. Una strana euforia, simile a una follia collettiva, si era impossessata di loro, spingendoli a gesti quasi inconsulti, come riunirsi sui ponti e nelle piazze, sfidando le intemperie, per festeggiare la fine imminente e beffarda della città che si credeva «Eterna». Marcus camminava in mezzo a loro, invisibile come sempre. Teneva le mani infilate nelle tasche della giacca, il bavero alzato per nascondere il viso, la schiena ricurva, e si muoveva rasente ai muri dei palazzi per ripararsi dalla pioggia. Era un alieno in mezzo a quell’improvvisato carnevale. Ma nessuno se ne sarebbe accorto. Erano tutti troppo impegnati a esorcizzare un timore di cui nessuno aveva voglia di parlare, che era anche la vera ragione che li aveva spinti fuori di casa. Finché era giorno, finché la debole luce del sole avesse garantito di scorgersi in volto l’un l’altro, ogni cosa sarebbe apparsa ai loro occhi solo come un’insperata e gioiosa novità. In realtà, Marcus conosceva bene quella paura inconfessata. Nessuno sapeva cosa sarebbe accaduto al calare del buio. Nonostante le misure adottate per prevenire l’anarchia e le rassicurazioni delle autorità, il tramonto rappresentava uno spartiacque inconscio. Da quel momento la città sarebbe diventata territorio delle ombre. Ancora se ne stavano acquattate ai confini della luce, ma avrebbero approfittato delle tenebre per uscire dai propri nascondigli e sfogare le pulsioni più pericolose. Per questo Marcus accelerava il passo: aveva un brutto presentimento. Altrimenti non si spiegavano le istruzioni contenute nel foglietto che aveva rinvenuto nella propria tasca. Trovare Tobia Frai. In un frangente diverso, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata entrare in un Internet Café e cercare dei riscontri in rete. Ma il blackout cambiava tutto. Ciò che prima era semplice, adesso era praticamente impossibile. Perciò la prima tappa del penitenziere fu casa propria, in via dei Serpenti. L’idea era di indossare abiti asciutti. Avrebbe fatto in fretta, anche perché temeva che qualcuno potesse tenere d’occhio il palazzo per essere sicuro che non fosse sopravvissuto alla tortura del Tullianum. Non ricordando nulla del proprio nemico e non essendo nemmeno in grado di ricostruire i motivi che avevano messo a rischio la sua vita, doveva affidarsi all’istinto che gli diceva di adoperare molta prudenza. Arrivato nei pressi dello stabile, si fermò all’angolo dall’altro lato della strada. Con discrezione, cominciò a guardarsi intorno. Nelle stradine del rione Monti si aggiravano solo ragazzi diretti verso i luoghi più affollati dove si stavano svolgendo gli assurdi festeggiamenti. Urlavano e ridevano, la loro esuberanza riecheggiava fra i palazzi, appena attenuata dallo scroscio della pioggia. Marcus attese una quindicina di minuti, infreddolito sotto una pensilina. Alla fine, stabilì che era sicuro: nulla di sospetto, nessuno lo stava attendendo. Si allontanò dal proprio nascondiglio. Si infilò rapidamente nel portone e salì le scale dell’antico stabile popolare, diretto alla soffitta. Negli anni, gli altri inquilini non avevano mai mostrato di domandarsi chi fosse l’enigmatico occupante dell’ultimo piano. Marcus si faceva vedere poco. Di giorno si chiudeva in casa ed evitava di fare qualsiasi rumore. Usciva di notte a svolgere le proprie missioni, per poi tornare soltanto all’alba. Giunto sulla soglia del piccolo rifugio, recuperò la chiave che teneva nascosta in una rientranza occultata accanto allo stipite, quindi aprì. Era tutto in ordine, così come ricordava di averlo lasciato. La valigia con gli abiti aperta sul pavimento, un materasso gettato in un angolo. Sulla parete accanto a quel giaciglio di lenzuola e coperte, sotto il crocifisso di legno, erano riportati appunti a penna. Risalivano alla prima volta che aveva contravvenuto al divieto di scrittura imposta ai penitenzieri – prima di quella mattina e prima del foglietto che si era ritrovato in tasca. Era accaduto dopo i fatti di Praga e la grave amnesia da cui era stato afflitto. Una volta giunto a Roma, nel disperato tentativo di ricordare il passato, aveva provato a segnare su quel muro i brandelli di memoria che riaffioravano nel sonno – i cadaveri del suo naufragio in se stesso, restituiti da un mare di oscurità, uno alla volta. Ormai erano scritte sbiadite, che appartenevano a un’ansia svanita. Adesso Marcus non temeva più ciò che gli era accaduto: aveva solo il timore che capitasse ancora. Come stanotte, si disse. L’idea di non riuscire a ricordare le ultime ore lo assillava. Era un episodio transitorio o sarebbe successo di nuovo? Mentre se lo domandava, si cambiò d’abito. Avrebbe voluto rimpiazzare anche le scarpe di tela bianca, zuppe di pioggia. Ma oltre a quelle scure, che non sapeva che fine avessero fatto, non ne possedeva altre. Per rinfilarsele, si sedette sull’unica sedia presente. E si bloccò. Qualcosa aveva attirato la sua attenzione. Appoggiata fra le coperte arrotolate del giaciglio c’era una foto che conosceva bene. Nessuno sa di me. Nessuno conosce la mia identità, aveva ripetuto a se stesso nella prigione del Tullianum. Ma non era vero. Una persona sapeva di lui. E la foto ne era la prova. Era l’immagine fugace di una donna, rubata con una macchinetta di cartone usa e getta comprata in un negozio di souvenir a Trastevere. Ricordava ancora il momento esatto in cui l’aveva scattata. Dopo il loro ultimo addio – e dopo un bacio che non avrebbe più dimenticato – la seguiva spesso di nascosto. A spingerlo era l’insopprimibile esigenza di occuparsi di lei, di sapere che stava bene. Solo quello, si diceva. Ma un giorno aveva voluto fotografarla. Aveva atteso che uscisse di casa, una mattina d’autunno. Su Roma soffiava un vento fresco. Raffiche rapide ma energiche. Marcus si trovava alle sue spalle, attendendo il momento giusto per scattare. Una folata più forte delle altre e lei si era voltata, come se il vento avesse pronunciato il suo nome – Sandra. Marcus aveva colto esattamente quell’istante. Quell’unico, prezioso fotogramma racchiudeva la sua essenza. La forza, la dolcezza. E la malinconia che portava nello sguardo. Marcus la custodiva sotto il cuscino. L’idea che la foto lo aspettasse in quella soffitta spoglia gli dava l’illusione di tornare a casa. Ma adesso non era nel posto che le aveva assegnato. E c’era soltanto una spiegazione. Aveva avuto un ospite. Qualcuno che però, andando via, aveva voluto lasciare una traccia evidente della propria visita. Marcus raccolse la foto con delicatezza. Sollevandola per un angolo, si svelò ai suoi occhi una piccola croce nera di ossidiana. Il significato dell’oggetto fu subito chiaro. Il penitenziere era stato convocato. |
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