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Donato Carrisi
Il maestro delle ombre
L’ALBA
3

7 ore e 24 minuti al tramonto
Locali pubblici, negozi, uffici e scuole sarebbero rimasti
chiusi a tempo indeterminato. L’illuminazione stradale era spenta,
così come i semafori che sovrintendevano agli incroci. A parte le
ambulanze e i mezzi delle forze dell’ordine e dei vigili del fuoco,
nessun altro veicolo era autorizzato a circolare. Anche la
metropolitana era ferma.
Ci si poteva spostare soltanto a piedi.
La città avrebbe dovuto essere deserta. Ma, a dispetto
dell’emergenza, alcuni affrontavano diversamente la situazione.
Incuranti degli allarmi e delle raccomandazioni, in parecchi si
erano riversati nelle vie per sperimentare di persona quella
singolare condizione di una Roma svuotata dal caos quotidiano
di auto e turisti. Una strana euforia, simile a una follia collettiva,
si era impossessata di loro, spingendoli a gesti quasi inconsulti,
come riunirsi sui ponti e nelle piazze, sfidando le intemperie, per
festeggiare la fine imminente e beffarda della città che si credeva
«Eterna».
Marcus camminava in mezzo a loro, invisibile come sempre.
Teneva le mani infilate nelle tasche della giacca, il bavero alzato
per nascondere il viso, la schiena ricurva, e si muoveva rasente ai
muri dei palazzi per ripararsi dalla pioggia.
Era un alieno in mezzo a quell’improvvisato carnevale. Ma
nessuno se ne sarebbe accorto. Erano tutti troppo impegnati a
esorcizzare un timore di cui nessuno aveva voglia di parlare, che
era anche la vera ragione che li aveva spinti fuori di casa. Finché
era giorno, finché la debole luce del sole avesse garantito di
scorgersi in volto l’un l’altro, ogni cosa sarebbe apparsa ai loro
occhi solo come un’insperata e gioiosa novità. In realtà, Marcus
conosceva bene quella paura inconfessata.
Nessuno sapeva cosa sarebbe accaduto al calare del buio.
Nonostante le misure adottate per prevenire l’anarchia e le
rassicurazioni delle autorità, il tramonto rappresentava uno
spartiacque inconscio. Da quel momento la città sarebbe
diventata territorio delle ombre. Ancora se ne stavano acquattate
ai confini della luce, ma avrebbero approfittato delle tenebre per
uscire dai propri nascondigli e sfogare le pulsioni più pericolose.
Per questo Marcus accelerava il passo: aveva un brutto
presentimento. Altrimenti non si spiegavano le istruzioni
contenute nel foglietto che aveva rinvenuto nella propria tasca.
Trovare Tobia Frai.
In un frangente diverso, la prima cosa che avrebbe fatto
sarebbe stata entrare in un Internet Café e cercare dei riscontri in
rete. Ma il blackout cambiava tutto. Ciò che prima era semplice,
adesso era praticamente impossibile. Perciò la prima tappa del
penitenziere fu casa propria, in via dei Serpenti. L’idea era di
indossare abiti asciutti. Avrebbe fatto in fretta, anche perché
temeva che qualcuno potesse tenere d’occhio il palazzo per essere
sicuro che non fosse sopravvissuto alla tortura del Tullianum.
Non ricordando nulla del proprio nemico e non essendo
nemmeno in grado di ricostruire i motivi che avevano messo a
rischio la sua vita, doveva affidarsi all’istinto che gli diceva di
adoperare molta prudenza.
Arrivato nei pressi dello stabile, si fermò all’angolo dall’altro
lato della strada. Con discrezione, cominciò a guardarsi intorno.
Nelle stradine del rione Monti si aggiravano solo ragazzi diretti
verso i luoghi più affollati dove si stavano svolgendo gli assurdi
festeggiamenti. Urlavano e ridevano, la loro esuberanza
riecheggiava fra i palazzi, appena attenuata dallo scroscio della
pioggia.
Marcus attese una quindicina di minuti, infreddolito sotto
una pensilina. Alla fine, stabilì che era sicuro: nulla di sospetto,
nessuno lo stava attendendo. Si allontanò dal proprio
nascondiglio.
Si infilò rapidamente nel portone e salì le scale dell’antico
stabile popolare, diretto alla soffitta. Negli anni, gli altri inquilini
non avevano mai mostrato di domandarsi chi fosse l’enigmatico
occupante dell’ultimo piano. Marcus si faceva vedere poco. Di
giorno si chiudeva in casa ed evitava di fare qualsiasi rumore.
Usciva di notte a svolgere le proprie missioni, per poi tornare
soltanto all’alba.
Giunto sulla soglia del piccolo rifugio, recuperò la chiave che
teneva nascosta in una rientranza occultata accanto allo stipite,
quindi aprì.
Era tutto in ordine, così come ricordava di averlo lasciato. La
valigia con gli abiti aperta sul pavimento, un materasso gettato in
un angolo. Sulla parete accanto a quel giaciglio di lenzuola e
coperte, sotto il crocifisso di legno, erano riportati appunti a
penna. Risalivano alla prima volta che aveva contravvenuto al
divieto di scrittura imposta ai penitenzieri – prima di quella
mattina e prima del foglietto che si era ritrovato in tasca. Era
accaduto dopo i fatti di Praga e la grave amnesia da cui era stato
afflitto. Una volta giunto a Roma, nel disperato tentativo di
ricordare il passato, aveva provato a segnare su quel muro i
brandelli di memoria che riaffioravano nel sonno – i cadaveri del
suo naufragio in se stesso, restituiti da un mare di oscurità, uno
alla volta. Ormai erano scritte sbiadite, che appartenevano a
un’ansia svanita. Adesso Marcus non temeva più ciò che gli era
accaduto: aveva solo il timore che capitasse ancora.
Come stanotte, si disse. L’idea di non riuscire a ricordare le
ultime ore lo assillava. Era un episodio transitorio o sarebbe
successo di nuovo?
Mentre se lo domandava, si cambiò d’abito. Avrebbe voluto
rimpiazzare anche le scarpe di tela bianca, zuppe di pioggia. Ma
oltre a quelle scure, che non sapeva che fine avessero fatto, non
ne possedeva altre. Per rinfilarsele, si sedette sull’unica sedia
presente. E si bloccò. Qualcosa aveva attirato la sua attenzione.
Appoggiata fra le coperte arrotolate del giaciglio c’era una foto
che conosceva bene.
Nessuno sa di me. Nessuno conosce la mia identità, aveva
ripetuto a se stesso nella prigione del Tullianum. Ma non era
vero. Una persona sapeva di lui. E la foto ne era la prova.
Era l’immagine fugace di una donna, rubata con una
macchinetta di cartone usa e getta comprata in un negozio di
souvenir a Trastevere. Ricordava ancora il momento esatto in cui
l’aveva scattata.
Dopo il loro ultimo addio – e dopo un bacio che non avrebbe
più dimenticato – la seguiva spesso di nascosto. A spingerlo era
l’insopprimibile esigenza di occuparsi di lei, di sapere che stava
bene. Solo quello, si diceva. Ma un giorno aveva voluto
fotografarla. Aveva atteso che uscisse di casa, una mattina
d’autunno. Su Roma soffiava un vento fresco. Raffiche rapide ma
energiche. Marcus si trovava alle sue spalle, attendendo il
momento giusto per scattare. Una folata più forte delle altre e lei
si era voltata, come se il vento avesse pronunciato il suo nome –
Sandra.
Marcus aveva colto esattamente quell’istante.
Quell’unico, prezioso fotogramma racchiudeva la sua
essenza. La forza, la dolcezza. E la malinconia che portava nello
sguardo.
Marcus la custodiva sotto il cuscino. L’idea che la foto lo
aspettasse in quella soffitta spoglia gli dava l’illusione di tornare
a casa. Ma adesso non era nel posto che le aveva assegnato. E
c’era soltanto una spiegazione.
Aveva avuto un ospite. Qualcuno che però, andando via, aveva
voluto lasciare una traccia evidente della propria visita.
Marcus raccolse la foto con delicatezza. Sollevandola per un
angolo, si svelò ai suoi occhi una piccola croce nera di ossidiana.
Il significato dell’oggetto fu subito chiaro.
Il penitenziere era stato convocato.

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