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index_italian_m Il maestro delle ombre


Donato Carrisi
Il maestro delle ombre
L’ALBA
2

Alle sette e quarantuno, le sirene cessarono di risuonare.
Ma il momento esatto dell’inizio del blackout programmato
sarebbe stato ricordato da tutti non per il simultaneo letargo di
ogni genere di apparecchiatura elettrica – decenni di progresso
tecnologico spazzati via in un solo istante –, né per l’improvvisa
interruzione delle comunicazioni – e il claustrofobico isolamento
che ne conseguì –, bensì per il silenzio irreale e sconosciuto
apparso come uno spettro venuto dal passato. Una quiete a cui
nessun abitante di Roma era abituato, resa più disturbante dal
monotono scrosciare della pioggia.
Tuttavia fu proprio quell’improvviso silenzio a riportarlo in vita.
Riemerse dalle profondità di un sonno senza respiri alla
disperata ricerca di una boccata d’aria. Gli occorsero tre tentativi
prima di far entrare un po’ d’ossigeno nei polmoni. Non stava
semplicemente dormendo, aveva perso i sensi e stava annegando
in se stesso. Ma quando aprì gli occhi, trovò ad accoglierlo una
seconda tenebra.
Sono cieco.
La difficoltà a respirare forse dipendeva dalla postura. Era
prono ed entrambe le braccia erano ripiegate dietro la schiena, i
polsi serrati in una fredda morsa. Manette? Per prima cosa,
l’uomo si tirò su con l’intenzione di inginocchiarsi e mettere fine
al supplizio dell’apnea. Sentì i muscoli che gemevano e le
articolazioni che recuperavano faticosamente la mobilità. Fu
un’operazione difficile e laboriosa.
Sono nudo. Mi fa male il torace.
L’ossigeno ricominciò a irrorargli il cervello, pallini
luccicanti iniziarono a danzare dispettosi nel suo campo visivo.
No, non aveva perso la vista: era il mondo intorno a essere stato
inghiottito dal nulla.
Dove mi trovo? Chi sono?
Si sentì smarrito. La totale oscurità era fuori, ma anche dentro
di lui.
Chi sono, dove sono?
A parte il lontano ticchettio della pioggia, l’unico riferimento
era olfattivo. Il luogo puzzava. Di acqua stantia, ma anche di
qualcos’altro.
Morte.
Era infreddolito e tossì. Fu sorpreso dal rimbombo. Tossì
ancora e rimase in ascolto, contando il tempo che l’eco impiegava
a restituirgli il suono. Nella disperazione, usò la voce come un
sonar per capire quanto fosse ampio l’ambiente in cui si trovava.
Ripeté l’esperimento facendo perno sulle ginocchia e ruotando
col corpo. Non fu sufficiente. Allora diede un colpo di reni e
provò a mettersi in posizione eretta. La prima volta ricadde su un
fianco. Riprovò con maggior cautela, e ci riuscì.
Affondava i piedi in una poltiglia viscida e umida, ma sotto di
essa poteva percepire una consistenza di pietra dura, sicuramente
lavorata. Il fatto di non essere in una fossa di terra lo rincuorò un
poco. Perché da una fossa non si può scappare. Da un edificio, sì.
C’è sempre un’entrata e, di conseguenza, anche un’uscita.
Con l’intenzione di trovarla a ogni costo, avanzò nel buio. Il
pavimento era sconnesso, ma lui riusciva lo stesso a conservare
l’equilibrio. Nella speranza che nessun ostacolo interrompesse il
suo cammino, procedette senza troppe cautele in attesa di
incontrare la barriera del muro. Non potendo allungare le braccia
davanti a sé, dovette rassegnarsi a sbatterci contro.
L’urto, anche se leggero, gli scatenò ancora quel senso di
costrizione al petto. Respirò e attese che passasse.
Poi appoggiò la guancia sinistra alla parete. Al tatto percepì
subito qualcosa di levigato. Tufo. Decise di strisciare lungo il
perimetro finché non avesse trovato una porta o un’apertura.
Mosse il primo passo, ma uno spuntone di pietra lo fece
inciampare provocandogli un male acuto alle dita del piede.
Avrebbe voluto scalciarlo perché fu più la rabbia del dolore, ma si
trattenne e proseguì con maggiore attenzione. Man mano che si
trascinava, acquisiva anche una percezione dell’ambiente in cui si
trovava. Scoprì che non c’erano spigoli a interrompere il suo
cammino.
Era in una sala circolare.
Il materiale usato per costruirla, diviso in grandi lastre
sovrapposte, gli fece pensare a qualcosa di molto antico. Sulle
prime non aveva previsto che fosse così ampia. Invece, più andava
avanti, più si rendeva conto di quanto fosse errata quella
percezione. Il muro sembrava non finire più. Dov’è la porta?
Maledizione. Il freddo della pietra aveva cominciato a insinuarsi
sotto la pelle. Brividi lo scuotevano e sentiva il proprio fiato
condensarsi davanti alla faccia. Se non si fosse sbrigato a uscire,
avrebbe potuto anche morire congelato. Ma smise di pensarci
quando allungò il piede per compiere l’ennesimo passo. Si
bloccò. Aveva toccato qualcosa di familiare.
Lo spuntone urtato poco prima.
Al principio fu solo un’intuizione. Avrebbe dato tutto perché
rimanesse tale, per non dover fare i conti con quella cosa che gli
toglieva ogni speranza. Invece, quasi subito, la «cosa» acquisì la
consistenza atroce di un’agghiacciante certezza.
Aveva girato in tondo. Non c’era alcuna apertura nella stanza.
Come una tomba, pensò. La mia tomba. Non era logico: la
sua presenza lì provava in modo inconfutabile che esisteva una
via d’accesso. Ma la felice deduzione fu presto spazzata via da
una altrettanto valida.
Qualcuno l’aveva murato dentro. Murato vivo.
Si appoggiò con un fianco contro la parete e si lasciò
scivolare fino a rannicchiarsi sul pavimento. Avvertì un’ondata
d’angoscia risalire lungo il corpo sotto forma di vampa di calore.
Il panico era il veleno della ragione. Cercò di scacciarlo, di
recuperare il controllo. Ma l’ansia montava. Chi sono, dove
sono? Chi sono, dove sono? Chi sono, dove sono?… Avvertì un
lieve tepore colare dal naso lungo il labbro. La goccia scavalcò
l’orlo della bocca e lui sentì il sapore del liquido vischioso.
Sangue. Il suo sangue.
Epistassi.
Non aveva mai saputo da cosa dipendesse né prevedere
quando sarebbe capitato, poteva avvenire in qualsiasi momento.
L’unica cosa certa era che, ormai, quel disturbo faceva parte di
lui, come un tratto somatico o caratteriale. Un dettaglio difettoso
con cui si era abituato a convivere. Non aveva mai compreso
perché il Signore avesse voluto infliggergli quella piccola e
fastidiosa imperfezione. Adesso, dopo tanto tempo, lo sapeva.
L’aveva fatto perché in quel giorno di afflizione lui potesse
aggrapparsi con tutte le forze a quel particolare e usarlo per trarre
la sua memoria fuori dal buio.
Il mio nome è Marcus, si disse. E soffro di epistassi.
Il resto dei ricordi seguì come un flusso inarrestabile. Sono
un prete. Appartengo all’ordine sacro dei Penitenzieri, che
risponde al Tribunale delle Anime. Sono l’ultimo componente
della mia congregazione. Nessuno sa di me, nessuno conosce la
mia identità. E iniziò a ripetere ciò che gli era stato insegnato:
«C’è un luogo in cui il mondo della luce incontra quello delle
tenebre. È lì che avviene ogni cosa: nella terra delle ombre, dove
tutto è rarefatto, confuso, incerto. Io sono il guardiano posto a
difesa di quel confine. Perché ogni tanto qualcosa riesce a
passare… Io sono un cacciatore del buio. E il mio compito è
ricacciarlo indietro».
Iniziò a tranquillizzarsi. Perché il suo peggiore incubo – più
dell’essere sepolto vivo in una cripta – era dimenticare chi era…
un’altra volta.
Già anni prima si era ritrovato alla deriva nella propria mente,
su un letto d’ospedale, a Praga, dopo che gli avevano sparato in
testa in una camera d’albergo. L’amnesia era un oceano piatto,
immobile, senza vento né correnti. Non si poteva navigare, e non
accadeva mai nulla. Si stava fermi, in perenne attesa di un
soccorso che non sarebbe mai arrivato.
Ma poi, una notte, accanto a quel letto era apparso Clemente
– la sua guida – e gli aveva offerto la verità sul suo passato, in
cambio di una promessa solenne che l’avrebbe impegnato per il
resto della sua vita. Lui aveva accettato. Nessuno avrebbe potuto
restituirgli i vecchi ricordi, ma da quel momento avrebbe avuto
modo di crearsene di nuovi. E così era stato. Per questo Marcus
non voleva perdere pure quelli. Anche se, il più delle volte, erano
dolorosi.
Adesso, Clemente era morto. Lui aveva un nome – la cosa più
preziosa che possedesse. Gli unici souvenir del passato prima di
Praga erano una cicatrice sulla tempia sinistra… e l’epistassi –
grazie a Dio.
Una fitta al petto gli tolse nuovamente il respiro. Marcus si
chinò istintivamente in avanti, sperando che fosse sufficiente a
farla cessare. Non sapeva da cosa dipendesse, non aveva mai
provato nulla di simile in tutta la vita – o almeno in quella parte
che riusciva a ricordare. Funzionò. Così come era arrivato, il
dolore scomparve all’improvviso.
Non è ancora finita, si disse. Essersi risvegliato da un sonno
che l’avrebbe dolcemente accompagnato fra le braccia della morte
non bastava. Poteva ancora morire. Infatti, non c’era modo di
liberarsi dalla morsa delle manette. Perciò, prima che la paura
prendesse di nuovo il sopravvento privandolo di un elementare
istinto di sopravvivenza, si sforzò di ricostruire cosa gli era
accaduto. Accantonò per il momento il quesito relativo al dove si
trovasse, perché c’era qualcos’altro da stabilire prima.
Come era finito lì? Perché era ammanettato? Ma soprattutto:
chi gli aveva fatto questo?
Nella sua mente c’era una specie di muro nero, invalicabile.
L’ultima cosa che ricordava era che c’era stato un guasto alla rete
elettrica di Roma e che, probabilmente, sarebbe stato necessario
interrompere temporaneamente l’erogazione di energia alla città.
Ma non sapeva quanto tempo fosse passato da allora.
Sicuramente non giorni, o settimane. La dimostrazione stava nel
fatto che era ancora vivo. Prima ancora che là fuori, il blackout
c’era stato nella sua mente. Anche se in fondo si trattava di
un’amnesia alquanto breve e che non aveva compromesso la parte
consistente della sua memoria, Marcus ne era lo stesso spaventato.
Cosa l’aveva causata? Forse l’asfissia?
Doveva ricostruire ciò che era accaduto. Proprio come
quando, visitatore segreto delle scene del crimine, cercava di
leggere i segni del male davanti a un cadavere sgozzato o fatto a
pezzi o bruciato. Perché era ciò che sapeva fare, ciò che gli
riusciva meglio. Cercare anomalie. Impercettibili strappi nel
quadro della normalità. Difetti nella trama delle cose – come la
sua epistassi. Spesso rivelavano un disegno nascosto. Erano
piccole porte che conducevano a un’altra dimensione, un
passaggio occulto verso una verità differente.
Ma, in questo caso, non c’era un corpo silenzioso da
interrogare con lo sguardo.
Stavolta la vittima era lui.
E non aveva a disposizione tutti i sensi per compiere
l’indagine. A parte la memoria a breve termine, anche il tatto era
compromesso dalle manette intorno ai polsi. Ma, soprattutto, gli
mancava la vista. Provò a fare appello a udito e olfatto, e
cominciò a setacciare l’oscurità. Il rumore della pioggia, che
arrivava attutito come una leggera e costante percussione, e
l’odore pungente di umidità gli dicevano che si trovava sottoterra.
In una cisterna, o magari in un ipogeo. Ma, oltre a ciò, non
riusciva a dedurre altro.
Fu deconcentrato da una nuova fitta al torace che gli tolse il
fiato, ancora una volta fu come se gli avessero lacerato il costato
con una lama rovente. Perché provava un simile dolore? Come se
avesse avuto qualcosa di tossico dentro di sé, e il suo stomaco
stesse cercando di espellerlo.
L’immagine che gli si formò in mente fu quella di un insetto
malevolo che si scavava il nido nel suo sterno.
Lo spasmo svanì. Anomalie, si disse. Era l’unica speranza che
gli restava per non dover soccombere. E partì esattamente da
questo: la propria morte. Chiunque l’avesse rinchiuso là sotto, gli
aveva tolto i vestiti e l’aveva ammanettato. Tuttavia, a parte il
crampo di origine ignota che avvertiva di tanto in tanto alla bocca
dello stomaco, Marcus non era ferito in alcun modo.
Vuole farmi morire d’inedia.
Ripensò alle varie fasi che avrebbero condotto a fine certa.
Dopo qualche giorno senza cibo, non trovando più sostanze e
grassi con cui alimentare il metabolismo, l’organismo avrebbe
iniziato a bruciare massa muscolare. In pratica, il corpo avrebbe
cominciato a nutrirsi di se stesso. Gli organi interni avrebbero
intrapreso una silenziosa ribellione fatta di pene indicibili, fino
alla resa per sfinimento. Un lento supplizio che poteva durare
anche settimane. Certo, Marcus avrebbe potuto alimentarsi della
pappa putrida di terriccio e acqua che ricopriva il pavimento della
prigione. Ciò avrebbe rallentato la disidratazione, ma in
definitiva sarebbe servito solo a prolungare l’agonia. Forse era
una fortuna che il suo carceriere gli avesse tolto i vestiti e
l’avesse ammanettato. La costrizione degli arti superiori e
l’ipotermia erano pene aggiuntive, ma avrebbero certamente
contribuito ad accelerare il decesso.
Perché ha scelto proprio questa morte per me?
Il suo assassino voleva che impazzisse, che strappasse la
propria carne a morsi nel vano tentativo di far cessare i crampi
della fame. Marcus aveva letto di speleologi dispersi nelle viscere
della terra che, privi di mezzi di sostentamento, col passare dei
giorni sviluppavano un naturale impulso cannibale. I più deboli
venivano mangiati dai più forti. Chi non riusciva a sopraffare gli
altri attendeva di diventare cibo, ma nel frattempo provava
l’istinto insopprimibile di azzannare parti del proprio corpo. Lo
stomaco prendeva il sopravvento sul cervello – l’appetito
irrefrenabile sulla ragione.
Cosa ho fatto per meritarmi questo?
«Meritare» era la parola chiave.
Prima anomalia: il suo assassino non intendeva
semplicemente ucciderlo. Voleva punirlo. Nella Roma antica,
l’affamamento era una forma di tortura molto praticata.
«Un carcere» disse il penitenziere alla tenebra. «Sono in un carcere.»
La pietra di tufo di cui era fatta la sua prigione gli diceva che
doveva trattarsi proprio di una costruzione millenaria. Ma a
Roma c’erano decine di luoghi come quello.
No, si disse. Lui mi ha portato qui con uno scopo. Voleva che
mi risvegliassi, per questo non mi ha ucciso subito. Voleva che
morissi lentamente ma, soprattutto, che sapessi.
È un sadico, vuole che abbia cognizione del luogo in cui mi
trovo. E, perciò, che non uscirò mai vivo da qui.
Per questo Marcus doveva capire cosa distinguesse quel
carcere dagli altri. Affondò ancora una volta i piedi nella poltiglia
umida sotto di sé.
Seconda anomalia: l’acqua.
Era più fredda dell’acqua piovana. Non veniva dall’alto,
sgorgava dal basso. Era una fonte. Tullius, tradusse subito in
latino. La polla d’acqua che affiorava nelle cave di tufo accanto al
colle del Campidoglio, lì dove sorgeva il Carcere Mamertino o
Tulliano, per l’appunto. E lui doveva trovarsi proprio nel
Tullianum, una camera sotterranea divisa in due parti. Quella
superiore serviva ai carcerieri per interrogare, torturare o mettere
a morte i detenuti. In quella inferiore, invece, i prigionieri
venivano gettati dopo l’arresto, in attesa che arrivasse il loro
turno. Nel frattempo, potevano ascoltare le urla dei compagni di
sventura e ricevere un assaggio di ciò che avrebbero avuto in
sorte.
Se quello era il Tullianum, allora c’era anche un’entrata.
Esisteva un solo modo per scoprirlo. Marcus appoggiò la
schiena alla parete e, spingendo sui talloni, riuscì a mettersi in
piedi. Quando fu sicuro del proprio equilibrio, si diresse
lentamente verso quello che immaginava fosse il centro della sala.
Visto che si trattava di un ambiente circolare, gli sarebbe stato
sufficiente percorrerne il raggio, anche se al buio era difficile
mantenere una direzione precisa. Non sapeva nemmeno quanti
passi avrebbe dovuto compiere per trovarsi nel punto esatto. Ma,
dopo una decina, avvertì qualcosa sopra la testa.
Una leggerissima corrente d’aria.
Si fermò. Sopra di lui doveva esserci l’apertura circolare che
immetteva nell’ipogeo. Ma quanto era distante? Anche se avesse
avuto le braccia libere per darsi uno slancio, non avrebbe mai
potuto saltare così in alto. Oppure sì?… Forse era per questo che
il suo assassino l’aveva ammanettato. Marcus gli lanciò una
maledizione. Ma la rabbia non doveva vincere. La scelta del
luogo, le manette: entrambi gli elementi avevano una
motivazione. Cosa rimaneva da spiegare?
Terza anomalia: la nudità.
Perché mi ha lasciato qui senza vestiti?
Per umiliarmi, fu la risposta. Mi ha tolto l’abito perché sono
un prete, anche se non mi vesto come tale. Ma per lui non cambia
nulla. La peggiore umiliazione per un uomo di Dio è essere
spogliato e deriso. Cristo finì nudo sulla croce. Ma il fatto che
lui fosse un uomo di Chiesa era anche la ragione per cui aveva
riconosciuto subito il Carcere Mamertino: una leggenda narrava
che proprio lì erano stati detenuti gli apostoli Pietro e Paolo. Il
carceriere aveva previsto che Marcus sarebbe giunto a quella
conclusione.
Pietro e Paolo erano riusciti a lasciare quel luogo… Mi sta
offrendo la possibilità di salvarmi, pensò il penitenziere con
rinnovata speranza. Mi sta sottoponendo a una prova.
I due apostoli avevano ritrovato la libertà convertendo i propri
carcerieri e battezzandoli con l’acqua del Tullius.
«Acqua… Battesimo… Lavacro dei peccati…» cominciò a
elencare Marcus, provando a mettere insieme quel poco che aveva
in cerca di un senso o anche solo di un legame. «L’acqua purifica
l’anima. L’anima ripulita ascenderà al cielo, alla gloria di Dio.»
Così come lui avrebbe potuto sollevarsi nell’apertura sulla
propria testa e guadagnare la libertà. Ogni cosa era rivestita da un
significato fortemente simbolico. Marcus sapeva di essere vicino
alla soluzione dell’enigma. «L’anima è dentro di noi… La
salvezza, perciò, è già dentro di noi.»
Sentendosi pronunciare quell’ultima frase, tacque e spazzò
ogni altro pensiero dalla mente, nel timore che scivolasse via il
lembo di verità che aveva appena afferrato. Aveva un senso.
Quarta anomalia: il dolore al torace.
Non sono ferito, ripeté. L’unico malessere era quello che lo
aveva colto già diverse volte per poi svanire subito. Com’era quel
dolore? Lancinante. E gli toglieva il respiro.
Il respiro, si disse. Il soffocamento che stava per ucciderlo se
non si fosse risvegliato. L’asfissia che probabilmente aveva
provocato anche la perdita di lucidità e, di conseguenza, di
memoria. Gli tornò in mente l’immagine dell’insetto famelico che
si scavava la tana nel suo petto.
L’asfissia, il dolore, non sono patologici. Sono provocati da
qualcosa. Allora seppe anche cosa doveva fare.
Si inginocchiò nuovamente. Quindi si piegò in avanti. Iniziò
a tossire, sempre più forte, con la speranza che lo spasmo
tornasse a farsi sentire, lacerandogli il torace e il costato. Nudo e
prono come un penitente, invocò un dolore salvifico. Contrasse il
diaframma così che lo aiutasse a espellere ciò che aveva nello
stomaco. Un crampo violentissimo, poi un secondo. Iniziò a
rigettare. Cibo, liquidi. Risalendo lungo l’esofago gli fornirono
la prova che non si era sbagliato.
Mi ha costretto a ingoiare qualcosa. Un corpo estraneo – un insetto.
La bestia era ferma, forse incastrata. Doveva stanarla.
Continuò a provocarsi il vomito. Ogni volta che ci riusciva era
straziante, però sentiva che quella cosa cominciava a risalire
lentamente. Quando i residui di cibo terminarono, iniziò a
sputare succhi gastrici. Quindi fu la volta del sangue. Ne
riconobbe il sapore metallico sulla lingua, ma il timore di
un’emorragia interna non lo fece desistere. Ogni tanto si fermava
per riprendere fiato. Millimetro dopo millimetro, però, l’intruso
stava venendo fuori.
È il diavolo. Ha assunto le sembianze dell’insetto e mi
possiede. Possiede la mia anima. Signore, aiutami. Dio
onnipotente, aiutami.
Gli occhi bruciavano nelle orbite, la mandibola sembrava
spaccarsi. Sapeva che non avrebbe resistito a lungo. Se fosse
svenuto di nuovo, non si sarebbe mai più risvegliato. Con la forza
della disperazione, riuscì a provocarsi un conato più potente.
Allora sentì la sua bocca espellere qualcosa di solido insieme al
sangue. Come in un esorcismo, si era liberato dal demone. Ma
non ne era ancora sicuro.
Finché non udì un tintinnio. A poca distanza, davanti a lui.
Non attese di stare meglio: affondò la faccia nella fanghiglia
mettendosi a cercare l’intruso con la stessa bocca che l’aveva
espulso. Le labbra sfiorarono il metallo. Era come aveva
immaginato.
L’insetto era una piccola chiave.
L’afferrò tra i denti e strisciò nuovamente verso il muro.
Quindi la lasciò cadere alla base della parete e si voltò per
riprenderla con la punta delle dita. Era impaziente di liberarsi,
per questo ci mise un po’ a completare l’operazione. Finalmente
riuscì a infilare la chiave nella serratura delle manette e la fece
scattare.
Avendo di nuovo a disposizione le braccia, tornò verso il
punto in cui aveva avvertito la corrente d’aria. Per evitare di
scivolare, prima ripulì il pavimento della fanghiglia viscida. Poi
si piegò, prese lo slancio e spiccò un salto tendendo le mani.
Nulla. Poi un secondo tentativo. Niente. Ce ne vollero almeno sei
prima che sfiorasse la roccia della volta. Altri dieci prima che
riuscisse ad ancorarsi saldamente con le dita al bordo circolare
dell’apertura. Si tirò su con un immenso sforzo, appoggiò i
gomiti sul pavimento sovrastante e sentì la pelle graffiarsi. Ma
non mollò. Avanzò sulla pietra con tutto ciò che aveva – le
unghie, i muscoli, le ossa.
Alla fine, era fuori. Ma ad attenderlo c’era ancora l’oscurità.
Si distese supino per recuperare le forze. Teneva le braccia
aperte e il torace era uno stantuffo che assecondava il respiro. Si
fece il segno della croce per ringraziare d’essere sopravvissuto.
Poi provò a riordinare i pensieri. Ricordava che dalla camera
superiore del Tullianum si diramavano diverse gallerie che
risalivano verso l’esterno. A tentoni, avrebbe trovato l’uscita.
Mentre si rimetteva in piedi, urtò qualcosa col ginocchio.
Tastò il terreno per capire cosa fosse. Trovò un oggetto allungato,
di plastica. Lo riconobbe: si trattava di una torcia elettrica.
L’accese. Il fascio di luce gli illuminò violentemente il volto,
costringendolo a chiudere gli occhi. Poi lo puntò verso l’apertura
che conduceva alla sala sottostante.
Il buio alitava attraverso quella bocca nera.
Marcus distolse il fascio e se ne servì per perlustrare
l’ambiente. Fu allora che li vide. In un angolo c’erano i suoi abiti.
Ciò che lo colpì fu che erano perfettamente ripiegati.
Infreddolito, andò a prenderli. Erano zuppi di pioggia. Allora
non è da molto che sono qui, si disse, altrimenti sarebbero
asciutti. Li indossò lo stesso, non poteva fare altrimenti. E fece
una seconda scoperta.
Al posto delle sue solite scarpe nere, c’erano delle calzature
di tela bianca. Da dove venivano?
Quando terminò di rivestirsi, infilò una mano nella tasca
destra dei pantaloni, alla ricerca della medaglietta con san
Michele Arcangelo, protettore dei penitenzieri. Insieme a quella,
trovò un foglietto ripiegato più volte. Lo osservò nel palmo della
propria mano. Poi lo aprì.
Era la pagina strappata di un taccuino.
Riconobbe subito la propria grafia. Una delle regole dei
cacciatori del buio era non lasciare tracce che potessero rivelare
la loro esistenza. Lui non prendeva appunti, non registrava la
propria voce, evitava di essere filmato o fotografato. Non
possedeva alcun apparecchio elettronico che permettesse di
tracciarlo o localizzarlo, nemmeno un cellulare. Per questo, quel
ritrovamento gli sembrò strano più delle scarpe di tela bianche.
Sul foglietto c’era una breve nota.
Trova Tobia Frai.
Un messaggio che lui aveva lasciato a se stesso. Il Marcus del
passato, quello del momento precedente la breve amnesia che
l’aveva fatto finire in fondo a un buco oscuro e maleodorante,
aveva trovato il modo per mettersi in contatto col Marcus del
presente.
C’era un’urgenza in quelle parole. Chi era Tobia Frai? Lo
conosceva? Quel nome era il solo indizio che aveva per
ricostruire la memoria di ciò che era accaduto nelle ultime ore,
durante la notte prima del blackout.
Prima di andare in cerca di un’uscita, gettò ancora
un’occhiata all’apertura della camera sottostante. Ebbe la
sensazione di non essere solo. Come se là sotto, acquattato nella
tenebra, ci fosse stato sempre qualcun altro con lui. Due occhi
silenziosi capaci di vedere nel buio.

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