Italiano
index_italian_m
Il maestro delle ombre
| Donato Carrisi Il maestro delle ombre |
| L’ALBA |
| 2 Alle sette e quarantuno, le sirene cessarono di risuonare. Ma il momento esatto dell’inizio del blackout programmato sarebbe stato ricordato da tutti non per il simultaneo letargo di ogni genere di apparecchiatura elettrica – decenni di progresso tecnologico spazzati via in un solo istante –, né per l’improvvisa interruzione delle comunicazioni – e il claustrofobico isolamento che ne conseguì –, bensì per il silenzio irreale e sconosciuto apparso come uno spettro venuto dal passato. Una quiete a cui nessun abitante di Roma era abituato, resa più disturbante dal monotono scrosciare della pioggia. Tuttavia fu proprio quell’improvviso silenzio a riportarlo in vita. Riemerse dalle profondità di un sonno senza respiri alla disperata ricerca di una boccata d’aria. Gli occorsero tre tentativi prima di far entrare un po’ d’ossigeno nei polmoni. Non stava semplicemente dormendo, aveva perso i sensi e stava annegando in se stesso. Ma quando aprì gli occhi, trovò ad accoglierlo una seconda tenebra. Sono cieco. La difficoltà a respirare forse dipendeva dalla postura. Era prono ed entrambe le braccia erano ripiegate dietro la schiena, i polsi serrati in una fredda morsa. Manette? Per prima cosa, l’uomo si tirò su con l’intenzione di inginocchiarsi e mettere fine al supplizio dell’apnea. Sentì i muscoli che gemevano e le articolazioni che recuperavano faticosamente la mobilità. Fu un’operazione difficile e laboriosa. Sono nudo. Mi fa male il torace. L’ossigeno ricominciò a irrorargli il cervello, pallini luccicanti iniziarono a danzare dispettosi nel suo campo visivo. No, non aveva perso la vista: era il mondo intorno a essere stato inghiottito dal nulla. Dove mi trovo? Chi sono? Si sentì smarrito. La totale oscurità era fuori, ma anche dentro di lui. Chi sono, dove sono? A parte il lontano ticchettio della pioggia, l’unico riferimento era olfattivo. Il luogo puzzava. Di acqua stantia, ma anche di qualcos’altro. Morte. Era infreddolito e tossì. Fu sorpreso dal rimbombo. Tossì ancora e rimase in ascolto, contando il tempo che l’eco impiegava a restituirgli il suono. Nella disperazione, usò la voce come un sonar per capire quanto fosse ampio l’ambiente in cui si trovava. Ripeté l’esperimento facendo perno sulle ginocchia e ruotando col corpo. Non fu sufficiente. Allora diede un colpo di reni e provò a mettersi in posizione eretta. La prima volta ricadde su un fianco. Riprovò con maggior cautela, e ci riuscì. Affondava i piedi in una poltiglia viscida e umida, ma sotto di essa poteva percepire una consistenza di pietra dura, sicuramente lavorata. Il fatto di non essere in una fossa di terra lo rincuorò un poco. Perché da una fossa non si può scappare. Da un edificio, sì. C’è sempre un’entrata e, di conseguenza, anche un’uscita. Con l’intenzione di trovarla a ogni costo, avanzò nel buio. Il pavimento era sconnesso, ma lui riusciva lo stesso a conservare l’equilibrio. Nella speranza che nessun ostacolo interrompesse il suo cammino, procedette senza troppe cautele in attesa di incontrare la barriera del muro. Non potendo allungare le braccia davanti a sé, dovette rassegnarsi a sbatterci contro. L’urto, anche se leggero, gli scatenò ancora quel senso di costrizione al petto. Respirò e attese che passasse. Poi appoggiò la guancia sinistra alla parete. Al tatto percepì subito qualcosa di levigato. Tufo. Decise di strisciare lungo il perimetro finché non avesse trovato una porta o un’apertura. Mosse il primo passo, ma uno spuntone di pietra lo fece inciampare provocandogli un male acuto alle dita del piede. Avrebbe voluto scalciarlo perché fu più la rabbia del dolore, ma si trattenne e proseguì con maggiore attenzione. Man mano che si trascinava, acquisiva anche una percezione dell’ambiente in cui si trovava. Scoprì che non c’erano spigoli a interrompere il suo cammino. Era in una sala circolare. Il materiale usato per costruirla, diviso in grandi lastre sovrapposte, gli fece pensare a qualcosa di molto antico. Sulle prime non aveva previsto che fosse così ampia. Invece, più andava avanti, più si rendeva conto di quanto fosse errata quella percezione. Il muro sembrava non finire più. Dov’è la porta? Maledizione. Il freddo della pietra aveva cominciato a insinuarsi sotto la pelle. Brividi lo scuotevano e sentiva il proprio fiato condensarsi davanti alla faccia. Se non si fosse sbrigato a uscire, avrebbe potuto anche morire congelato. Ma smise di pensarci quando allungò il piede per compiere l’ennesimo passo. Si bloccò. Aveva toccato qualcosa di familiare. Lo spuntone urtato poco prima. Al principio fu solo un’intuizione. Avrebbe dato tutto perché rimanesse tale, per non dover fare i conti con quella cosa che gli toglieva ogni speranza. Invece, quasi subito, la «cosa» acquisì la consistenza atroce di un’agghiacciante certezza. Aveva girato in tondo. Non c’era alcuna apertura nella stanza. Come una tomba, pensò. La mia tomba. Non era logico: la sua presenza lì provava in modo inconfutabile che esisteva una via d’accesso. Ma la felice deduzione fu presto spazzata via da una altrettanto valida. Qualcuno l’aveva murato dentro. Murato vivo. Si appoggiò con un fianco contro la parete e si lasciò scivolare fino a rannicchiarsi sul pavimento. Avvertì un’ondata d’angoscia risalire lungo il corpo sotto forma di vampa di calore. Il panico era il veleno della ragione. Cercò di scacciarlo, di recuperare il controllo. Ma l’ansia montava. Chi sono, dove sono? Chi sono, dove sono? Chi sono, dove sono?… Avvertì un lieve tepore colare dal naso lungo il labbro. La goccia scavalcò l’orlo della bocca e lui sentì il sapore del liquido vischioso. Sangue. Il suo sangue. Epistassi. Non aveva mai saputo da cosa dipendesse né prevedere quando sarebbe capitato, poteva avvenire in qualsiasi momento. L’unica cosa certa era che, ormai, quel disturbo faceva parte di lui, come un tratto somatico o caratteriale. Un dettaglio difettoso con cui si era abituato a convivere. Non aveva mai compreso perché il Signore avesse voluto infliggergli quella piccola e fastidiosa imperfezione. Adesso, dopo tanto tempo, lo sapeva. L’aveva fatto perché in quel giorno di afflizione lui potesse aggrapparsi con tutte le forze a quel particolare e usarlo per trarre la sua memoria fuori dal buio. Il mio nome è Marcus, si disse. E soffro di epistassi. Il resto dei ricordi seguì come un flusso inarrestabile. Sono un prete. Appartengo all’ordine sacro dei Penitenzieri, che risponde al Tribunale delle Anime. Sono l’ultimo componente della mia congregazione. Nessuno sa di me, nessuno conosce la mia identità. E iniziò a ripetere ciò che gli era stato insegnato: «C’è un luogo in cui il mondo della luce incontra quello delle tenebre. È lì che avviene ogni cosa: nella terra delle ombre, dove tutto è rarefatto, confuso, incerto. Io sono il guardiano posto a difesa di quel confine. Perché ogni tanto qualcosa riesce a passare… Io sono un cacciatore del buio. E il mio compito è ricacciarlo indietro». Iniziò a tranquillizzarsi. Perché il suo peggiore incubo – più dell’essere sepolto vivo in una cripta – era dimenticare chi era… un’altra volta. Già anni prima si era ritrovato alla deriva nella propria mente, su un letto d’ospedale, a Praga, dopo che gli avevano sparato in testa in una camera d’albergo. L’amnesia era un oceano piatto, immobile, senza vento né correnti. Non si poteva navigare, e non accadeva mai nulla. Si stava fermi, in perenne attesa di un soccorso che non sarebbe mai arrivato. Ma poi, una notte, accanto a quel letto era apparso Clemente – la sua guida – e gli aveva offerto la verità sul suo passato, in cambio di una promessa solenne che l’avrebbe impegnato per il resto della sua vita. Lui aveva accettato. Nessuno avrebbe potuto restituirgli i vecchi ricordi, ma da quel momento avrebbe avuto modo di crearsene di nuovi. E così era stato. Per questo Marcus non voleva perdere pure quelli. Anche se, il più delle volte, erano dolorosi. Adesso, Clemente era morto. Lui aveva un nome – la cosa più preziosa che possedesse. Gli unici souvenir del passato prima di Praga erano una cicatrice sulla tempia sinistra… e l’epistassi – grazie a Dio. Una fitta al petto gli tolse nuovamente il respiro. Marcus si chinò istintivamente in avanti, sperando che fosse sufficiente a farla cessare. Non sapeva da cosa dipendesse, non aveva mai provato nulla di simile in tutta la vita – o almeno in quella parte che riusciva a ricordare. Funzionò. Così come era arrivato, il dolore scomparve all’improvviso. Non è ancora finita, si disse. Essersi risvegliato da un sonno che l’avrebbe dolcemente accompagnato fra le braccia della morte non bastava. Poteva ancora morire. Infatti, non c’era modo di liberarsi dalla morsa delle manette. Perciò, prima che la paura prendesse di nuovo il sopravvento privandolo di un elementare istinto di sopravvivenza, si sforzò di ricostruire cosa gli era accaduto. Accantonò per il momento il quesito relativo al dove si trovasse, perché c’era qualcos’altro da stabilire prima. Come era finito lì? Perché era ammanettato? Ma soprattutto: chi gli aveva fatto questo? Nella sua mente c’era una specie di muro nero, invalicabile. L’ultima cosa che ricordava era che c’era stato un guasto alla rete elettrica di Roma e che, probabilmente, sarebbe stato necessario interrompere temporaneamente l’erogazione di energia alla città. Ma non sapeva quanto tempo fosse passato da allora. Sicuramente non giorni, o settimane. La dimostrazione stava nel fatto che era ancora vivo. Prima ancora che là fuori, il blackout c’era stato nella sua mente. Anche se in fondo si trattava di un’amnesia alquanto breve e che non aveva compromesso la parte consistente della sua memoria, Marcus ne era lo stesso spaventato. Cosa l’aveva causata? Forse l’asfissia? Doveva ricostruire ciò che era accaduto. Proprio come quando, visitatore segreto delle scene del crimine, cercava di leggere i segni del male davanti a un cadavere sgozzato o fatto a pezzi o bruciato. Perché era ciò che sapeva fare, ciò che gli riusciva meglio. Cercare anomalie. Impercettibili strappi nel quadro della normalità. Difetti nella trama delle cose – come la sua epistassi. Spesso rivelavano un disegno nascosto. Erano piccole porte che conducevano a un’altra dimensione, un passaggio occulto verso una verità differente. Ma, in questo caso, non c’era un corpo silenzioso da interrogare con lo sguardo. Stavolta la vittima era lui. E non aveva a disposizione tutti i sensi per compiere l’indagine. A parte la memoria a breve termine, anche il tatto era compromesso dalle manette intorno ai polsi. Ma, soprattutto, gli mancava la vista. Provò a fare appello a udito e olfatto, e cominciò a setacciare l’oscurità. Il rumore della pioggia, che arrivava attutito come una leggera e costante percussione, e l’odore pungente di umidità gli dicevano che si trovava sottoterra. In una cisterna, o magari in un ipogeo. Ma, oltre a ciò, non riusciva a dedurre altro. Fu deconcentrato da una nuova fitta al torace che gli tolse il fiato, ancora una volta fu come se gli avessero lacerato il costato con una lama rovente. Perché provava un simile dolore? Come se avesse avuto qualcosa di tossico dentro di sé, e il suo stomaco stesse cercando di espellerlo. L’immagine che gli si formò in mente fu quella di un insetto malevolo che si scavava il nido nel suo sterno. Lo spasmo svanì. Anomalie, si disse. Era l’unica speranza che gli restava per non dover soccombere. E partì esattamente da questo: la propria morte. Chiunque l’avesse rinchiuso là sotto, gli aveva tolto i vestiti e l’aveva ammanettato. Tuttavia, a parte il crampo di origine ignota che avvertiva di tanto in tanto alla bocca dello stomaco, Marcus non era ferito in alcun modo. Vuole farmi morire d’inedia. Ripensò alle varie fasi che avrebbero condotto a fine certa. Dopo qualche giorno senza cibo, non trovando più sostanze e grassi con cui alimentare il metabolismo, l’organismo avrebbe iniziato a bruciare massa muscolare. In pratica, il corpo avrebbe cominciato a nutrirsi di se stesso. Gli organi interni avrebbero intrapreso una silenziosa ribellione fatta di pene indicibili, fino alla resa per sfinimento. Un lento supplizio che poteva durare anche settimane. Certo, Marcus avrebbe potuto alimentarsi della pappa putrida di terriccio e acqua che ricopriva il pavimento della prigione. Ciò avrebbe rallentato la disidratazione, ma in definitiva sarebbe servito solo a prolungare l’agonia. Forse era una fortuna che il suo carceriere gli avesse tolto i vestiti e l’avesse ammanettato. La costrizione degli arti superiori e l’ipotermia erano pene aggiuntive, ma avrebbero certamente contribuito ad accelerare il decesso. Perché ha scelto proprio questa morte per me? Il suo assassino voleva che impazzisse, che strappasse la propria carne a morsi nel vano tentativo di far cessare i crampi della fame. Marcus aveva letto di speleologi dispersi nelle viscere della terra che, privi di mezzi di sostentamento, col passare dei giorni sviluppavano un naturale impulso cannibale. I più deboli venivano mangiati dai più forti. Chi non riusciva a sopraffare gli altri attendeva di diventare cibo, ma nel frattempo provava l’istinto insopprimibile di azzannare parti del proprio corpo. Lo stomaco prendeva il sopravvento sul cervello – l’appetito irrefrenabile sulla ragione. Cosa ho fatto per meritarmi questo? «Meritare» era la parola chiave. Prima anomalia: il suo assassino non intendeva semplicemente ucciderlo. Voleva punirlo. Nella Roma antica, l’affamamento era una forma di tortura molto praticata. «Un carcere» disse il penitenziere alla tenebra. «Sono in un carcere.» La pietra di tufo di cui era fatta la sua prigione gli diceva che doveva trattarsi proprio di una costruzione millenaria. Ma a Roma c’erano decine di luoghi come quello. No, si disse. Lui mi ha portato qui con uno scopo. Voleva che mi risvegliassi, per questo non mi ha ucciso subito. Voleva che morissi lentamente ma, soprattutto, che sapessi. È un sadico, vuole che abbia cognizione del luogo in cui mi trovo. E, perciò, che non uscirò mai vivo da qui. Per questo Marcus doveva capire cosa distinguesse quel carcere dagli altri. Affondò ancora una volta i piedi nella poltiglia umida sotto di sé. Seconda anomalia: l’acqua. Era più fredda dell’acqua piovana. Non veniva dall’alto, sgorgava dal basso. Era una fonte. Tullius, tradusse subito in latino. La polla d’acqua che affiorava nelle cave di tufo accanto al colle del Campidoglio, lì dove sorgeva il Carcere Mamertino o Tulliano, per l’appunto. E lui doveva trovarsi proprio nel Tullianum, una camera sotterranea divisa in due parti. Quella superiore serviva ai carcerieri per interrogare, torturare o mettere a morte i detenuti. In quella inferiore, invece, i prigionieri venivano gettati dopo l’arresto, in attesa che arrivasse il loro turno. Nel frattempo, potevano ascoltare le urla dei compagni di sventura e ricevere un assaggio di ciò che avrebbero avuto in sorte. Se quello era il Tullianum, allora c’era anche un’entrata. Esisteva un solo modo per scoprirlo. Marcus appoggiò la schiena alla parete e, spingendo sui talloni, riuscì a mettersi in piedi. Quando fu sicuro del proprio equilibrio, si diresse lentamente verso quello che immaginava fosse il centro della sala. Visto che si trattava di un ambiente circolare, gli sarebbe stato sufficiente percorrerne il raggio, anche se al buio era difficile mantenere una direzione precisa. Non sapeva nemmeno quanti passi avrebbe dovuto compiere per trovarsi nel punto esatto. Ma, dopo una decina, avvertì qualcosa sopra la testa. Una leggerissima corrente d’aria. Si fermò. Sopra di lui doveva esserci l’apertura circolare che immetteva nell’ipogeo. Ma quanto era distante? Anche se avesse avuto le braccia libere per darsi uno slancio, non avrebbe mai potuto saltare così in alto. Oppure sì?… Forse era per questo che il suo assassino l’aveva ammanettato. Marcus gli lanciò una maledizione. Ma la rabbia non doveva vincere. La scelta del luogo, le manette: entrambi gli elementi avevano una motivazione. Cosa rimaneva da spiegare? Terza anomalia: la nudità. Perché mi ha lasciato qui senza vestiti? Per umiliarmi, fu la risposta. Mi ha tolto l’abito perché sono un prete, anche se non mi vesto come tale. Ma per lui non cambia nulla. La peggiore umiliazione per un uomo di Dio è essere spogliato e deriso. Cristo finì nudo sulla croce. Ma il fatto che lui fosse un uomo di Chiesa era anche la ragione per cui aveva riconosciuto subito il Carcere Mamertino: una leggenda narrava che proprio lì erano stati detenuti gli apostoli Pietro e Paolo. Il carceriere aveva previsto che Marcus sarebbe giunto a quella conclusione. Pietro e Paolo erano riusciti a lasciare quel luogo… Mi sta offrendo la possibilità di salvarmi, pensò il penitenziere con rinnovata speranza. Mi sta sottoponendo a una prova. I due apostoli avevano ritrovato la libertà convertendo i propri carcerieri e battezzandoli con l’acqua del Tullius. «Acqua… Battesimo… Lavacro dei peccati…» cominciò a elencare Marcus, provando a mettere insieme quel poco che aveva in cerca di un senso o anche solo di un legame. «L’acqua purifica l’anima. L’anima ripulita ascenderà al cielo, alla gloria di Dio.» Così come lui avrebbe potuto sollevarsi nell’apertura sulla propria testa e guadagnare la libertà. Ogni cosa era rivestita da un significato fortemente simbolico. Marcus sapeva di essere vicino alla soluzione dell’enigma. «L’anima è dentro di noi… La salvezza, perciò, è già dentro di noi.» Sentendosi pronunciare quell’ultima frase, tacque e spazzò ogni altro pensiero dalla mente, nel timore che scivolasse via il lembo di verità che aveva appena afferrato. Aveva un senso. Quarta anomalia: il dolore al torace. Non sono ferito, ripeté. L’unico malessere era quello che lo aveva colto già diverse volte per poi svanire subito. Com’era quel dolore? Lancinante. E gli toglieva il respiro. Il respiro, si disse. Il soffocamento che stava per ucciderlo se non si fosse risvegliato. L’asfissia che probabilmente aveva provocato anche la perdita di lucidità e, di conseguenza, di memoria. Gli tornò in mente l’immagine dell’insetto famelico che si scavava la tana nel suo petto. L’asfissia, il dolore, non sono patologici. Sono provocati da qualcosa. Allora seppe anche cosa doveva fare. Si inginocchiò nuovamente. Quindi si piegò in avanti. Iniziò a tossire, sempre più forte, con la speranza che lo spasmo tornasse a farsi sentire, lacerandogli il torace e il costato. Nudo e prono come un penitente, invocò un dolore salvifico. Contrasse il diaframma così che lo aiutasse a espellere ciò che aveva nello stomaco. Un crampo violentissimo, poi un secondo. Iniziò a rigettare. Cibo, liquidi. Risalendo lungo l’esofago gli fornirono la prova che non si era sbagliato. Mi ha costretto a ingoiare qualcosa. Un corpo estraneo – un insetto. La bestia era ferma, forse incastrata. Doveva stanarla. Continuò a provocarsi il vomito. Ogni volta che ci riusciva era straziante, però sentiva che quella cosa cominciava a risalire lentamente. Quando i residui di cibo terminarono, iniziò a sputare succhi gastrici. Quindi fu la volta del sangue. Ne riconobbe il sapore metallico sulla lingua, ma il timore di un’emorragia interna non lo fece desistere. Ogni tanto si fermava per riprendere fiato. Millimetro dopo millimetro, però, l’intruso stava venendo fuori. È il diavolo. Ha assunto le sembianze dell’insetto e mi possiede. Possiede la mia anima. Signore, aiutami. Dio onnipotente, aiutami. Gli occhi bruciavano nelle orbite, la mandibola sembrava spaccarsi. Sapeva che non avrebbe resistito a lungo. Se fosse svenuto di nuovo, non si sarebbe mai più risvegliato. Con la forza della disperazione, riuscì a provocarsi un conato più potente. Allora sentì la sua bocca espellere qualcosa di solido insieme al sangue. Come in un esorcismo, si era liberato dal demone. Ma non ne era ancora sicuro. Finché non udì un tintinnio. A poca distanza, davanti a lui. Non attese di stare meglio: affondò la faccia nella fanghiglia mettendosi a cercare l’intruso con la stessa bocca che l’aveva espulso. Le labbra sfiorarono il metallo. Era come aveva immaginato. L’insetto era una piccola chiave. L’afferrò tra i denti e strisciò nuovamente verso il muro. Quindi la lasciò cadere alla base della parete e si voltò per riprenderla con la punta delle dita. Era impaziente di liberarsi, per questo ci mise un po’ a completare l’operazione. Finalmente riuscì a infilare la chiave nella serratura delle manette e la fece scattare. Avendo di nuovo a disposizione le braccia, tornò verso il punto in cui aveva avvertito la corrente d’aria. Per evitare di scivolare, prima ripulì il pavimento della fanghiglia viscida. Poi si piegò, prese lo slancio e spiccò un salto tendendo le mani. Nulla. Poi un secondo tentativo. Niente. Ce ne vollero almeno sei prima che sfiorasse la roccia della volta. Altri dieci prima che riuscisse ad ancorarsi saldamente con le dita al bordo circolare dell’apertura. Si tirò su con un immenso sforzo, appoggiò i gomiti sul pavimento sovrastante e sentì la pelle graffiarsi. Ma non mollò. Avanzò sulla pietra con tutto ciò che aveva – le unghie, i muscoli, le ossa. Alla fine, era fuori. Ma ad attenderlo c’era ancora l’oscurità. Si distese supino per recuperare le forze. Teneva le braccia aperte e il torace era uno stantuffo che assecondava il respiro. Si fece il segno della croce per ringraziare d’essere sopravvissuto. Poi provò a riordinare i pensieri. Ricordava che dalla camera superiore del Tullianum si diramavano diverse gallerie che risalivano verso l’esterno. A tentoni, avrebbe trovato l’uscita. Mentre si rimetteva in piedi, urtò qualcosa col ginocchio. Tastò il terreno per capire cosa fosse. Trovò un oggetto allungato, di plastica. Lo riconobbe: si trattava di una torcia elettrica. L’accese. Il fascio di luce gli illuminò violentemente il volto, costringendolo a chiudere gli occhi. Poi lo puntò verso l’apertura che conduceva alla sala sottostante. Il buio alitava attraverso quella bocca nera. Marcus distolse il fascio e se ne servì per perlustrare l’ambiente. Fu allora che li vide. In un angolo c’erano i suoi abiti. Ciò che lo colpì fu che erano perfettamente ripiegati. Infreddolito, andò a prenderli. Erano zuppi di pioggia. Allora non è da molto che sono qui, si disse, altrimenti sarebbero asciutti. Li indossò lo stesso, non poteva fare altrimenti. E fece una seconda scoperta. Al posto delle sue solite scarpe nere, c’erano delle calzature di tela bianca. Da dove venivano? Quando terminò di rivestirsi, infilò una mano nella tasca destra dei pantaloni, alla ricerca della medaglietta con san Michele Arcangelo, protettore dei penitenzieri. Insieme a quella, trovò un foglietto ripiegato più volte. Lo osservò nel palmo della propria mano. Poi lo aprì. Era la pagina strappata di un taccuino. Riconobbe subito la propria grafia. Una delle regole dei cacciatori del buio era non lasciare tracce che potessero rivelare la loro esistenza. Lui non prendeva appunti, non registrava la propria voce, evitava di essere filmato o fotografato. Non possedeva alcun apparecchio elettronico che permettesse di tracciarlo o localizzarlo, nemmeno un cellulare. Per questo, quel ritrovamento gli sembrò strano più delle scarpe di tela bianche. Sul foglietto c’era una breve nota. Trova Tobia Frai. Un messaggio che lui aveva lasciato a se stesso. Il Marcus del passato, quello del momento precedente la breve amnesia che l’aveva fatto finire in fondo a un buco oscuro e maleodorante, aveva trovato il modo per mettersi in contatto col Marcus del presente. C’era un’urgenza in quelle parole. Chi era Tobia Frai? Lo conosceva? Quel nome era il solo indizio che aveva per ricostruire la memoria di ciò che era accaduto nelle ultime ore, durante la notte prima del blackout. Prima di andare in cerca di un’uscita, gettò ancora un’occhiata all’apertura della camera sottostante. Ebbe la sensazione di non essere solo. Come se là sotto, acquattato nella tenebra, ci fosse stato sempre qualcun altro con lui. Due occhi silenziosi capaci di vedere nel buio. |
Italiano index_italian_m Il maestro delle ombre