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Donato Carrisi
Il maestro delle ombre
Ad Antonio, mio figlio.
Mia sostanza e quantità


A.D. 1521. Nove giorni prima di morire, papa Leone X
emette una bolla contenente un obbligo solenne.
Roma non deve «mai mai mai» rimanere al buio.
Il pontefice dispone che strade, chiese e palazzi siano
sempre illuminati durante la notte. Nelle lampade non deve
mancare l’olio e nei depositi non devono esaurirsi per nessuna
ragione le scorte di candele.
Per più di trecento anni, l’ordine papale viene rispettato.
Tuttavia, alla fine dell’Ottocento, con l’avvento dell’elettricità
la prescrizione contenuta nella bolla diventa superflua.
Storici e teologi si sono interrogati a lungo sui motivi che
hanno spinto Leone X a imporre una simile regola. Nei secoli
sono fiorite le teorie più varie e, a volte, fantasiose. Ma non si è
mai giunti a una vera spiegazione.
Ciononostante, la bolla papale non è mai stata ritirata e, a
tutt’oggi, il buio di Roma rimane un mistero insoluto.
 
L’ALBA

1
Il distacco dell’energia elettrica era previsto per le sette e
quarantuno del mattino. Da quel momento, Roma sarebbe
piombata in un nuovo Medioevo.
Un’eccezionale ondata di maltempo si stava abbattendo sulla
città da quasi settantadue ore. Un flagello ininterrotto di
nubifragi con raffiche di vento che superavano i trenta nodi.
Un fulmine aveva mandato in tilt una delle quattro centrali
che garantivano la fornitura energetica. Come in un effetto
domino, l’avaria si era ripercossa sulle altre tre, sottoponendole a
un pericoloso sovraccarico.
Per riparare il guasto era necessario interrompere l’erogazione
del servizio per ventiquattro ore.
L’annuncio del blackout era stato dato alla popolazione la
sera prima, con un preavviso brevissimo. Le autorità avevano
assicurato che i tecnici avrebbero lavorato alacremente per
tornare alla normalità entro la scadenza promessa. Ma, a causa
della mancanza di elettricità, sarebbero cessate tutte le
comunicazioni. Niente più linee telefoniche, Internet, cellulari.
Niente radio né tv.
Un totale azzeramento tecnologico. E nel bel mezzo di
un’emergenza meteo.
Alle sette e trenta, quando mancavano pochi minuti al
distacco, Matilde Frai era in cucina e stava sciacquando la
tazzina con cui aveva bevuto il primo caffè della giornata. La
ripose su uno scaffale e recuperò la sigaretta accesa, in bilico sul
marmo del lavello. Scoprì un alone giallastro lì dove l’aveva
appoggiata, lo fissò per un tempo lunghissimo.
Nelle cose più insignificanti dimorava una pace inaspettata.
Matilde vi si rifugiava per sfuggire ai propri pensieri.
Nell’angolo ripiegato della pagina di una rivista, nel lembo di
una piccola scucitura, in una goccia di condensa che scivolava sul
muro. Ma la quiete non durava mai abbastanza e, quando ormai
l’aveva prosciugata con lo sguardo, il suo demone tornava a
ricordarle che l’angusto inferno in cui era prigioniera non
l’avrebbe mai lasciata andare.
Non posso morire. Non ancora, si disse. Ma lo desiderava tanto.
L’espressione di Matilde tornò a indurirsi. Si portò alle
labbra la sigaretta e trasse una profonda boccata. Poi spinse la
testa all’indietro e, guardando il soffitto, sputò fuori una nuvola
di fumo bianco e, insieme, tutta la frustrazione. Un tempo era
stata bella. Ma, come avrebbe detto sua madre, si era lasciata
andare, e a soli trentasei anni era una donna irreversibilmente
sola. Nessuno avrebbe potuto immaginare che una volta era stata
una ragazza. Ciò che vedevano – quando riuscivano a vederla –
era una vecchia ancora troppo giovane.
L’orologio sul muro segnava le sette e trentadue.
Matilde sfilò una sedia da sotto il tavolo e si accomodò,
tirando a sé il telecomando del televisore, un pacchetto di Camel
e un posacenere di latta. Usò il mozzicone che aveva in mano per
accendersi un’altra sigaretta.
E guardò dritto davanti a sé.
«Dovrei…» Si interruppe. «Dovrei portarti dal barbiere a
tagliarti i capelli» disse poi, tutto d’un fiato, seria. «Sì, sono
troppo lunghi sui lati» e indicò anche il punto esatto allungando
per un attimo il braccio. «E quella frangetta non mi piace più.»
Annuì, come a voler confermare che era la cosa giusta da fare.
«Sì, domani ci andiamo, dopo l’asilo.» Tacque ma non distolse lo
sguardo.
Fissava la porta della cucina.
Al di là della soglia non c’era nessuno, ma sulla parete,
accanto al profilo della cornice di legno, c’erano dei segni,
all’incirca una ventina. Procedevano dal basso verso l’alto. Per
ogni tacca un colore diverso e una data.
L’ultimo in cima era verde, e accanto c’era scritto: «103 cm –
22 maggio».
Matilde si riebbe improvvisamente dal torpore, come liberata
da un incantesimo. Tornata alla realtà, afferrò il telecomando e lo
puntò verso la tv sulla credenza.
Apparve un’avvenente bionda con un tailleur rosa cipria,
ripresa a mezzobusto. Sotto di lei, in sovrimpressione, una
scritta: «Misure eccezionali per la città di Roma, in vigore dalle
ore 7.41 del 23 febbraio fino al termine del blackout
programmato». La speaker, con tono pacato e tranquillizzante,
stava leggendo un comunicato all’indirizzo della telecamera. «Per
evitare incidenti, le autorità hanno disposto il blocco totale del
traffico. Non sarà possibile circolare e nemmeno allontanarsi
dalla città. Vi ricordiamo che aeroporti e stazioni non sono più
operativi da ieri a causa del maltempo. Perciò, si raccomanda ai
cittadini di rimanere nelle proprie abitazioni. Ripeto: per la
vostra incolumità e quella dei vostri cari, non provate a lasciare la
città.»
Matilde pensò che tanto non aveva più nessuno, né un altro
posto dove andare.
«Di giorno uscite solo se necessario. In caso di bisogno,
esponete un lenzuolo bianco a una finestra così che i mezzi di
soccorso, che saranno di ronda senza sosta per le strade, possano
raggiungervi. Vi ricordiamo che di notte sarà obbligatorio
rispettare il coprifuoco che scatterà un’ora prima del tramonto.
Da quel momento, saranno sospese alcune libertà individuali.»
Il tono pacato e i modi cordiali della speaker avrebbero
dovuto infondere alla cosa un che di rassicurante, pensò Matilde,
ma ottenevano l’effetto opposto. C’era qualcosa di grottesco e di
inquietante. Come il sorriso sul volto delle hostess di un aereo
che sta precipitando.
«Le forze di polizia presidieranno i quartieri e avranno ampi
poteri per assicurare l’ordine pubblico e reprimere i reati: gli
agenti sono autorizzati a procedere all’arresto anche sulla base di
un semplice sospetto. Gli autori dei crimini commessi durante le
ore di buio verranno processati per direttissima e giudicati con
estrema severità. Ciononostante, le autorità vi esortano a
chiudervi bene in casa e adottare precauzioni per impedire a
sconosciuti e malintenzionati di accedere alle vostre abitazioni.»
A quella frase, un gelo improvviso colse Matilde Frai, che si
strinse nelle spalle.
La bionda annunciatrice appoggiò i fogli sul tavolo che aveva
davanti e guardò dritto in camera. «Sicuri della vostra
collaborazione, vi rimandiamo al prossimo bollettino che andrà in
onda al termine dello stato di emergenza, fra ventiquattro ore da
adesso. Fra pochi secondi, il suono delle sirene precederà
l’imminente distacco dell’energia e la sospensione di tutte le
comunicazioni. Subito dopo, entreranno in vigore le misure
straordinarie e il blackout programmato avrà ufficialmente
inizio.» La speaker non salutò gli spettatori, ma si limitò a
rivolgere un altro sorriso muto all’obiettivo. Poi sullo schermo il
suo volto fu sostituito dalla scritta «Fine delle trasmissioni».
In quel preciso istante, il potente richiamo delle sirene
cominciò a risuonare all’esterno.
Matilde spostò lo sguardo verso la finestra. Fuori era giorno,
anche se il maltempo oscurava il cielo e sembrava buio. La
plafoniera della cucina era accesa, però la luce non bastava a
confortare la donna, che si mise a fissare la lampadina,
aspettando che si spegnesse da un momento all’altro. Ma ancora
non accadeva. La pioggia continuava incessante, e i secondi si
dilatarono in un’eternità insopportabile. Matilde guardò di nuovo
l’orologio a parete. Le sette e trentotto. No, non poteva farcela ad
aspettare. Doveva zittire quelle maledette sirene che le
perforavano il cervello. Schiacciò nel posacenere la seconda
sigaretta, si alzò dal tavolo e si avvicinò a un vecchio frullatore
che non usava da anni, ma che era rimasto inspiegabilmente
collegato alla presa. Lo accese. Quindi fu il turno del tostapane a
cui abbassò entrambe le levette, azionando anche il timer. Poi
toccò alla cappa che sovrastava i fornelli. Alla lavatrice, alla
lavastoviglie. Senza un’apparente ragione, spalancò anche lo
sportello del frigo. Infine, la radio che teneva accanto all’acquaio,
da sempre sintonizzata su una stazione di musica classica. Bach
cercava disperatamente di crearsi un varco nella cacofonia di
rumori, ma finiva per soccombere. Così, dopo aver messo in
funzione tutti gli elettrodomestici e aver acceso ogni lampadina,
Matilde Frai tornò a sedersi con l’intenzione di fumare
l’ennesima sigaretta. Fissò di nuovo l’orologio a parete,
aspettando che ultimasse il conto alla rovescia prima del buio e
del silenzio.
Mentre la lancetta rincorreva affannosamente i secondi, il
telefono squillò.
Osservò l’apparecchio, impaurita. Era l’unico suono che non
aveva provocato lei. Da anni non conosceva più nessuno, e
nessuno si occupava di lei. Anzi, a pensarci bene, quell’aggeggio
non avrebbe nemmeno dovuto essere presente in casa, nel suo
nido di solitudine forzata. Nella clausura si era aperta una
breccia. Gli squilli erano urla nel frastuono, ed era come se
chiamassero il suo nome. Matilde aveva due possibilità: attendere
che il blackout di lì a poco mettesse fine alla tortura oppure farlo
lei, andando a rispondere.
Nessuno mi chiama più da anni. Nessuno ha il mio numero.
Non era semplice curiosità ciò che spinse le gambe a
sollevarsi dalla sedia. Era un presagio. Quando alzò il ricevitore
del vetusto apparecchio digitale, la mano impiegò un po’ a
portare la cornetta all’orecchio, tremando impercettibilmente.
Prima ancora di poter dire qualcosa, Matilde udì brevi scariche
elettriche, come un disturbo nella comunicazione. Poi, in mezzo
alle scosse stridule e fastidiose, apparve una voce.
La voce di un bambino.
«Mamma…» disse, raggelandola. «Mamma! Mamma! Vieni a
prendermi, mamma!» supplicò terrorizzato.
Gli aveva fatto imparare a memoria il numero di casa il primo
giorno d’asilo. Era sicura che fosse più facile da ricordare
rispetto a quello di un cellulare. Le tornò in mente la scena: era
seduto al tavolo di quella stessa cucina e aveva appena terminato
la colazione – latte, biscotti e marmellata d’uva. Matilde era in
ginocchio davanti a lui e gli allacciava le scarpe. Nel frattempo,
suo figlio ripeteva le cifre una alla volta e lei faceva lo stesso, a
fior di labbra però, per non aiutarlo troppo. Voleva essere sicura
che l’avesse memorizzato bene.
L’immagine del passato svanì così come era arrivata. Matilde
Frai si ritrovò proiettata di nuovo nel presente, sconvolta, ma
finalmente riuscì a dire qualcosa. «Tobia…» Si portò una mano
all’altro orecchio, perché il frastuono degli elettrodomestici
tutt’intorno le impediva di sentire bene.
«Non mi lasciare qui! Non mi lasciare solo!» Altre scariche,
disturbi nella linea. «Sono qui» disse la voce dall’altro capo del
filo. «Sono…»
Per prima cosa, cessarono tutti i rumori. Le luci della cucina
si spensero simultaneamente. La mannaia dell’ombra cadde sugli
oggetti, improvvisamente immobili.
Solo allora Matilde si rese conto che anche la cornetta era
inanimata.
Il silenzio che emetteva era innaturale, come se non avesse
mai prodotto alcun suono, come se ciò che aveva appena sentito
fosse solo frutto della sua immaginazione – o della follia.
Matilde tremava più forte adesso, e non riusciva a
impedirselo. Poi sollevò ancora lo sguardo sull’orologio a parete.
Le sette e quarantuno esatte.

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