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Il deserto dei tartari
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Dino Buzzati Il deserto dei tartari |
| 26. Perché adesso che era finita la strada gli stranieri erano scomparsi? Perché uomini, cavalli e carri avevano risalito la Grande Pianura. fin dentro le nebbie del nord? Tutto quel lavoro per niente? Effettivamente le squadre dei terrazzieri furono viste allontanarsi ad una ad una, fino a ridiventare minuscoli puntini visibili soltanto col cannocchiale, come quindici anni prima. La via era aperta ai soldati: avanzasse l'armata adesso, ad assaltare la Fortezza Bastiani. L'armata invece non fu vista avanzare. Attraverso il deserto dei Tartari rimaneva solo la striscia della strada, singolare segno di ordine umano nell'antichissimo abbandono. L'armata non scese all'assalto, tutto parve lasciato in sospeso, chissà mai per quanti anni. Così la pianura rimase immobile, ferme le nebbie settentrionali, ferma la vita regolamentare della Fortezza, le sentinelle ripetevano sempre i medesimi passi da questo a quel punto del cammino di ronda, uguale il brodo della truppa, una giornata identica all'altra, ripetendosi all'infinito, come soldato che segni il passo. Eppure il tempo soffiava; senza curarsi degli uomini passava su e giù per il mondo mortificando le cose belle; e nessuno riusciva a sfuggirgli, nemmeno i bambini appena nati, ancora sprovvisti di nome. Anche il volto di Giovanni cominciava a coprirsi di pieghe, i capelli diventavano grigi, il passo meno leggero; il torrente della vita lo aveva gettato oramai da una parte, verso i gorghi periferici, benché in fondo non avesse neppure cinquant'anni. Drogo naturalmente non faceva più servizio di guardia, ma aveva un ufficio proprio al Comando, attiguo a quello del tenente colonnello Ortiz. Quando calavano le tenebre, lo scarso numero degli uomini di guardia non bastava più a impedire che la notte si impadronisse della Fortezza. Vasti settori di mura erano incustoditi e di là penetravano i pensieri del buio, la tristezza di essere soli. Come una sperduta isola era infatti il vecchio Forte, attorniato da territori vuoti: a destra e a sinistra le montagne, a sud la lunga valle disabitata e dall'altra parte la pianura dei Tartari. Rumori strani, come non mai, risuonarono nelle ore più alte, attraverso i labirinti delle fortificazioni, e il cuore delle sentinelle si metteva a battere. Da un'estremità all'altra delle mura correva ancora il grido "All'erta! all'erta!", ma i soldati facevano grande fatica a trasmetterselo, tanta distanza separava l'uno dall'altro. Drogo assistette in quei tempi alle prime angustie del tenente Moro, come una fedele riproduzione della propria giovinezza. Anche Moro da principio era rimasto spaventato, era ricorso al maggiore Simeoni che sostituiva in un certo modo il Matti, era stato persuaso a rimanere quattro mesi, aveva finito per restare invischiato; anche Moro si era messo a guardare con troppa insistenza la pianura del nord, con la sua strada nuova e inutilizzata da cui scendevano le speranze guerriere. Avrebbe voluto parlargli, Drogo, dirgli di stare attento, di andarsene finché era in tempo; tanto più che Moro era un ragazzo simpatico e scrupoloso. Ma qualche stupidaggine interveniva sempre a impedire il colloquio e del resto sarebbe stato probabilmente tutto inutile. Cadendo l'una sull'altra le pagine grige dei giorni, le pagine nere delle notti, aumentava in Drogo ed Ortiz (e forse anche in qualche altro vecchio ufficiale) l'affanno di non fare più in tempo. Insensibili alla rovina degli anni, gli stranieri non si muovevano mai, come se fossero immortali e non gli importasse di sprecare per gioco lunghe stagioni. La Fortezza invece conteneva poveri uomini, indifesi contro il lavoro del tempo, e il cui termine ultimo si avvicinava. Date che una volta erano parse inverosimili, da tanto lontane, si affacciavano ora improvvisamente al vicino orizzonte, ricordando le dure scadenze della vita. Ogni volta, per poter continuare, bisognava farsi un sistema nuovo, trovare nuovi termini di paragone, consolarsi con quelli che stavano peggio. Fino a che pure Ortiz dovette andare in pensione (e nella pianura del nord non si scorgeva il minimo indizio di vita, neppure un minuscolo lume). Il tenente colonnello Ortiz diede le consegne al nuovo comandante Simeoni, riunì la truppa nel cortile, eccettuati naturalmente i drappelli in servizio di guardia, tenne con stento un discorso, montò sul proprio cavallo con l'aiuto dell'attendente e uscì dalla porta della Fortezza. Un tenente e due soldati gli erano di scorta. Drogo lo accompagnò fino al ciglione della spianata, dove si salutarono. Era il mattino di una grande giornata estiva, nel cielo passavano nuvole le cui ombre macchiavano stranamente il paesaggio. Sceso da cavallo, il tenente colonnello Ortiz stette in disparte con Drogo, ed entrambi tacevano non sapendo come darsi l'addio. Poi uscirono parole stentate e banali, quanto diverse e più povere da ciò ch'essi avevano in cuore. "Per me adesso cambia la vita" disse Drogo. "Vorrei venire via anch'io quasi. Ho quasi voglia di dare le dimissioni.» Ortiz disse: "Tu sei ancora giovane! Sarebbe una stupidaggine, tu farai ancora in tempo!". "In tempo a che cosa?» "In tempo per la guerra. Vedrai, non passeranno due anni" (così diceva ma in cuor suo sperava di no, in realtà egli si augurava che Drogo se ne tornasse come lui, senza avere avuto la grande fortuna; gli sarebbe parsa una cosa ingiusta. E sì che per Drogo aveva amicizia, e gli desiderava ogni bene). Ma Giovanni non disse niente. "Vedrai, non passeranno due anni, effettivamente" insistette allora Ortiz sperando di essere contraddetto. "Altro che due anni" fece finalmente Drogo. "Dei secoli passeranno, e non basta. Oramai la strada è abbandonata, dal nord non verrà più nessuno." E benché queste fossero le sue parole, la voce del cuore era un'altra: assurdo, refrattario agli anni, si conservava in lui, dall'epoca della giovinezza, quel fondo presentimento di cose fatali, una oscura certezza che il buono della vita fosse ancora da cominciare. Tacquero ancora, accorgendosi che quel discorso li andava separando. Ma che cosa potevano dirsi, vissuti insieme quasi trent'anni fra le stesse mura, con i medesimi sogni? Le loro due strade, dopo tanto cammino, ora si dividevano, una di qua e una di là si allontanavano verso paesi ignoti. "Che sole!" disse Ortiz e guardava, con gli occhi alquanto appannati dall'età, le mura della sua Fortezza da abbandonare per sempre. Esse apparivano sempre le stesse, con l'identico colore giallastro, il loro volto romanzesco. Ortiz le guardava intensamente e nessuno fuori che Drogo avrebbe potuto indovinare quanto soffrisse. "Fa caldo davvero" rispose Giovanni, ricordandosi di Maria Vescovi, di quel lontano colloquio nel salotto, mentre scendevano melanconici gli accordi del pianoforte. "Una giornata calda, effettivamente" aggiunse Ortiz e i due si sorrisero; un istintivo cenno di intesa come per dire che conoscevano bene il significato di quelle stupide parole. Ora una nuvola li aveva raggiunti con la sua ombra, per qualche minuto l'intera spianata divenne scura e balenò per contrasto il sinistro splendore della Fortezza, ancora immersa nel sole. Due grandi uccelli roteavano sopra la prima ridotta. Si udì lontano quasi impercettibile, un suono di tromba. "Hai sentito? la tromba" disse il vecchio ufficiale. "No, non ho sentito" rispose Drogo, mentendo poiché sentiva vagamente di fare così piacere all'amico. "Forse mi sarò sbagliato. Siamo troppo distanti, effettivamente» ammise Ortiz, tremandogli la voce, e poi aggiunse con fatica: "Ti ricordi la prima volta, quando sei arrivato qui e ti sei spaventato? Non volevi rimanere, ti ricordi?» Drogo riuscì a dire soltanto: "Molto tempo fa..." Un curioso nodo gli chiuse la gola. Poi Ortiz disse ancora una cosa, dopo essere corso dietro ai suoi pensieri: "Chi lo sa" disse "forse in una guerra potevo servire. Può darsi che riuscissi utile. In una guerra; e per il resto zero, come si è visto.» La nube era passata via, aveva già oltrepassato la Fortezza, ora scivolava attraverso la desolata pianura dei Tartari, sempre più a nord, silenziosa. Addio, addio. Ritornato il sole, i due uomini di nuovo facevano ombra. I cavalli di Ortiz e della scorta, una ventina di metri più in là, battevano con gli zoccoli sulle pietre a significare impazienza. |
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