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Il deserto dei tartari


Dino Buzzati
Il deserto dei tartari
22.

L'ultima compagnia che doveva partire era schierata nel cortile, tutti pensavano che il giorno dopo si sarebbe sistemata definitivamente la nuova vita a guarnigione ridotta, c'era una speciale impazienza di finire quella eterna storia dei saluti, quella rabbia di veder andarsene gli altri. La compagnia si era già schierata e si aspettava il tenente colonnello Nicolosi che la passasse in rivista, quando Giovanni Drogo, che assisteva, vide comparire il tenente Simeoni con una faccia strana.
Il tenente Simeoni si trovava da tre anni alla Fortezza e sembrava un buon ragazzo, un po' pesante, rispettoso delle autorità e amante degli esercizi fisici. Avanzatosi nel cortile, egli si guardava attorno quasi con ansia, in cerca di qualcuno a cui dire una cosa.
Probabilmente uno o l'altro sarebbe stato lo stesso, perché lui non aveva amicizie particolari.
Vide Drogo che lo osservava e gli si fece vicino: "Vieni a vedere" gli disse a bassa voce. "Fa presto, vieni a vedere.»
"Che cosa?" domandò Drogo.
"Sono di servizio alla terza ridotta, sono scappato giù un momento, vieni appena sei libero. C'è una cosa che non capisco" e ansimava un poco come se avesse fatto una corsa.
"Dove? Che cosa hai visto?" chiese Drogo incuriosito. In quel momento una tromba mandò un triplice squillo e i soldati si misero sull'attenti perché era arrivato il comandante della degradata Fortezza.
"Aspetta che siano partiti" disse ancora Simeoni perché Drogo si impazientiva di quel mistero, apparentemente senza ragione. "Voglio almeno vederli uscire. Sono cinque giorni che volevo dirlo, ma prima bisogna che tutti siano partiti.»
Finalmente, dopo le brevi parole di Nicolosi e le ultime fanfare, la compagnia equipaggiata da lunga marcia uscì a passi pesanti dalla Fortezza, avviandosi verso la valle. Era un giorno di settembre, il cielo era grigio e triste.
Allora Simeoni trasse Drogo per i lunghi corridoi solitari, fino all'ingresso della terza ridotta. Attraversarono il corpo di guardia, si affacciarono al cammino di ronda.
Il tenente Simeoni tirò fuori un cannocchiale e pregò Drogo di guardare verso quel piccolo triangolo di pianura che le montagne davanti lasciavano libero.
"Che cosa c'è?" domandò Drogo.
"Guarda prima, non vorrei sbagliarmi. Guarda tu prima e dimmi se vedi qualcosa.»
Appoggiati i gomiti al parapetto, Drogo guardò attentamente il deserto e attraverso il cannocchiale, uno strumento privato di Simeoni, distingueva benissimo i sassi, gli avvallamenti, le rade macchie di arbusti, benché fossero straordinariamente lontani.
Un pezzo dopo l'altro, Drogo perlustrò il triangolo visibile del deserto e stava per dire di no, che non riusciva a vedere niente, quando proprio in fondo, là dove ogni immagine svaniva entro alla cortina perenne di nebbia, gli parve di scorgere una piccola macchia nera che si muoveva. Era ancora appoggiato coi gomiti al parapetto e guardava nel cannocchiale, che sentì battere con furia il suo cuore.
Come due anni prima, pensò, quando si credeva che fossero arrivati i nemici.
"E' quella macchiolina nera che dici?" domandò Drogo.
"Sono cinque giorni che l'ho vista, ma non volevo dirlo a nessuno.»
"Perché" fece Drogo "di che cosa avevi paura?»
"Se parlavo, magari sospendevano le partenze. E così, dopo averci sfottuti, Morel e gli altri rimanevano a sfruttar l'occasione. Meglio essere in pochi.»
"Che occasione? Che cosa pensi che sia? Sarà come l'altra volta, sarà una pattuglia di ricognizione, o magari saranno pastori, o semplicemente una bestia.»
"Sono cinque giorni che l'osservo" disse Simeoni. "Se fossero pastori sarebbero andati via, e così se fossero bestie. C'è qualche cosa che si muove, ma rimane pressapoco sempre allo stesso punto.»
"E allora, che occasione vuoi che sia?»
Simeoni guardò Drogo sorridendo, come domandandosi se potesse rivelargli il segreto. Poi disse:
"Fanno una strada, io penso, fanno una strada militare. Questa è la volta buona. Due anni fa sono venuti a studiare il terreno, adesso arrivano sul serio.»
Drogo rise cordialmente.
"Ma che strada vuoi che facciano? Figurati se viene ancora qualcuno.
Non ne hai avuto abbastanza dell'ultima volta?»
"Tu sei forse un po' miope" disse Simeoni. "Tu forse non hai la vista buona, ma io riesco a distinguere benissimo, hanno cominciato a fare la massicciata. Ieri che c'era il sole si vedeva benissimo.»
Drogo scosse il capo, meravigliato di tanta ostinazione. Non si era dunque stancato di aspettare, Simeoni? E aveva paura di rivelare la sua scoperta come fosse un tesoro? Aveva paura che gliela portassero via?
"Una volta" disse Drogo "una volta ci avrei creduto anch'io. Ma adesso mi sembri proprio un illuso. Se io fossi in te me ne starei zitto, finiranno per riderti dietro.»
"Una strada fanno" replicò Simeoni guardando Drogo con compatimento.
"Ci metteranno dei mesi, si capisce, ma questa è la volta buona.»
"Ma anche se fosse" disse Drogo "anche se fosse come dici, tu credi che se facessero veramente una strada per portare le artiglierie dal nord, lascerebbero la Fortezza sguarnita? Lo saprebbero subito allo Stato Maggiore, l'avrebbero saputo già da anni.»
"Lo Stato Maggiore non la prende mai sul serio la Fortezza Bastiani; fin che non l'avranno bombardata, nessuno ci crederà a queste storie... Se ne persuaderanno troppo tardi.»
"Di' quel che vuoi" ripeté Drogo. "Se questa strada si facesse sul serio, lo Stato Maggiore sarebbe informatissimo, sta pur certo.»
"Lo Stato Maggiore ha mille informazioni, ma su mille una sola buona, e così non credono a nessuno. Del resto è inutile discutere, vedrai se non succederà come dico.»
Erano soli, sul ciglio del cammino di ronda. Le sentinelle, molto più distanziate di una volta, camminavano su e giù per il tratto rispettivamente fissato. Drogo guardò ancora verso il settentrione; le rocce, il deserto, le nebbie in fondo, tutto pareva vuoto di senso.
Più tardi, parlando con Ortiz, Drogo venne a sapere che il famoso segreto del tenente Simeoni era conosciuto praticamente da tutti.
Nessuno però ci aveva dato peso. Molti si stupivano anzi che un giovanotto serio come Simeoni avesse messo in giro quelle nuove storie.
In quei giorni c'erano altre cose da pensare. La diminuzione di organico obbligava a diradare, lungo il ciglione delle mura, le forze disponibili, e si continuavano a fare diverse prove per ottenere, con minori mezzi, un servizio di sicurezza quasi altrettanto efficace di prima. Si dovette abbandonare alcuni corpi di guardia, attrezzarne altri con più materiale, bisognò ricomporre le compagnie e dividerle nuovamente per camerate.
Per la prima volta da quando era stata costruita la Fortezza alcuni locali vennero chiusi e sprangati. Il sarto Prosdocimo dovette liberarsi di tre aiutanti, perché non gli era rimasto abbastanza lavoro. Ogni tanto capitava di entrare in cameroni o uffici completamente vuoti, con sui muri le macchie bianche dei mobili e dei quadri portati via.
Il puntino nero che si muoveva agli estremi confini della pianura continuò a essere considerato uno scherzo. Ben pochi si fecero prestare da Simeoni il cannocchiale per vedere anche loro, e questi pochi dissero di non avere scorto nulla. Lo stesso Simeoni, siccome nessuno lo prendeva sul serio, evitava di parlare della scoperta e per prudenza ci rideva su anche lui senza formalizzarsi.
Poi una sera Simeoni andò nella stanza di Drogo a chiamarlo. Già era scesa la notte e si era compiuto il cambio della guardia. Lo sparuto drappello della Ridotta Nuova era tornato e la Fortezza si disponeva alla veglia, un'altra notte inutilmente sprecata.
"Vieni a vedere, tu che non ci credi, ma vieni a vedere" diceva Simeoni. "O che io abbia le allucinazioni, o che io vedo una luce.»
Andarono a vedere. Salirono sul ciglione delle mura, all'altezza della quarta ridotta. Nel buio il compagno diede a Drogo il cannocchiale perché osservasse.
"Ma se è buio!" disse Giovanni. "Che cosa vuoi vedere con questo buio?»
"Guarda, ti dico" insistette Simeoni. "Te l'ho detto, non vorrei fosse un'allucinazione. Guarda dove ti ho mostrato l'altra volta, dimmi se vedi qualche cosa.»
Drogo portò il cannocchiale all'occhio destro, lo puntò verso l'estremo settentrione, vide nelle tenebre un piccolo lume, una punta infinitesima di luce che brillava sì e no ai limiti delle nebbie.
"Una luce!" esclamò Drogo. "Vedo un piccolo chiaro... aspetta..." (E continuava ad aggiustarsi il cannocchiale all'orbita.) "...Non si capisce se siano diversi o uno solo, in certi momenti sembra ce ne siano due.»
"Hai visto?" disse Simeoni trionfante. "Sono io il cretino?»
"Che cosa c'entra?" ribatté Drogo, anche se non troppo convinto. "Che cosa significa se c'è quel lume? Potrebbe essere un accampamento di zingari o di pastori.»
"E' il lume del cantiere" fece Simeoni. "Il cantiere per la nuova strada, vedrai se non ho ragione.»
A occhi nudi, per quanto fosse strano, il lume non si poteva distinguere. Neppure le sentinelle (e sì che ce n'erano di bravissime, cacciatori famosi) non riuscivano a vedere niente.
Drogo puntò ancora il cannocchiale, cercò il lontanissimo lume, lo stette a guardare qualche istante, poi alzò lo strumento e si mise a osservare per curiosità le stelle. In numero sterminato esse riempivano ogni parte del cielo, bellissimo a vedersi. A oriente però erano assai più rade, perché stava per sorgere la luna, preceduta da un vago chiarore.
"Simeoni!" chiamò Drogo, non vedendo più il compagno vicino. Ma l'altro non gli rispose; doveva essere sceso giù per una scaletta a ispezionare il ciglione delle mura.
Drogo si guardò attorno. Nel buio si riusciva a distinguere solamente il cammino di ronda vuoto, il profilo delle fortificazioni, l'ombra nera delle montagne. Giunse qualche rintocco dall'orologio. L'estrema sentinella di destra avrebbe ora dovuto lanciare il grido notturno, di soldato in soldato la voce sarebbe corsa lungo tutte le mura.
"All'erta! All'erta!" Poi l'appello avrebbe fatto il cammino inverso, si sarebbe spento alla base delle grandi rupi. Adesso che i posti di sentinella erano dimezzati — Drogo pensò — la voce, per le minori ripetizioni, avrebbe fatto il viaggio complessivo molto più svelto.
Invece restò il silenzio.
Vennero allora improvvisamente alla mente di Drogo pensieri di un mondo desiderabile e lontano, un palazzo per esempio sulla riva di un mare, in una molle notte di estate, graziose creature sedute vicino, ascoltare musiche, immagini di felicità che la giovinezza permetteva di meditare impunemente, e intanto l'orlo estremo del mare a levante farsi nitido e nero, cominciando quel cielo a impallidire per l'alba sopravveniente. E poter buttare via le notti, così, non rifugiarsi nel sonno, non paura di fare tardi, lasciare sorgere il sole, pregustare dinanzi a sé un tempo infinito, da non doversi angustiare. Fra tante cose belle del mondo, Giovanni si ostinava a desiderare questo improbabile palazzo mari no, le musiche, la dissipazione delle ore, l'attesa dell'alba. Per quanto sciocco, ciò gli sembrava esprimere nel modo più intenso quella pace che egli aveva perduto. Da qualche tempo infatti un'ansia, che lui non sapeva capire, lo inseguiva senza riposo: l'impressione di non fare in tempo, che qualche cosa di importante sarebbe successo e l'avrebbe colto di sorpresa.
Il colloquio col generale, giù in città, gli aveva lasciato poche speranze di trasferimento e brillante carriera, ma Giovanni capiva pure di non poter restare tutta la vita tra le mura della Fortezza.
Presto o tardi qualche cosa bisognava decidere. Poi le abitudini lo riprendevano nel solito ritmo e Drogo non pensava più agli altri, ai compagni che erano fuggiti in tempo, ai vecchi amici che diventavano ricchi e famosi, egli si consolava alla vista degli ufficiali che vivevano come lui nel medesimo esilio, senza pensare che essi potevano essere i deboli o i vinti, l'ultimo esempio da seguire.
Di giorno in giorno Drogo rimandava la decisione, si sentiva del resto ancora giovane, appena venticinque anni. Quell'ansia sottile lo inseguiva tuttavia senza riposo, adesso poi c'era la storia del lume nella pianura del nord, poteva anche darsi che Simeoni avesse ragione.
Pochi ne parlavano nella Fortezza, come di cosa senza importanza che non li poteva riguardare. Troppo vicina era la delusione per la guerra mancata, benché nessuno mai avesse avuto il coraggio di confessarlo. E troppo fresca la mortificazione di veder partire i compagni, di restare pochi e dimenticati a custodire le inutili mura. La riduzione del presidio aveva dimostrato ben chiaramente che lo Stato Maggiore non dava più importanza alla Fortezza Bastiani. Le illusioni una volta così facili e desiderate, ora si respingevano con rabbia. Simeoni, per non essere beffeggiato, preferiva tacere.
Nelle notti successive, del resto, non si vide più il lume misterioso, né di giorno si riuscì più a distinguere alcun movimento all'estremità della pianura. Il maggiore Matti, salito per curiosità sul ciglio della bastionata, si fece dare il cannocchiale da Simeoni e invano perlustrò il deserto. "Tenga pure il suo cannocchiale, tenente" disse poi a Simeoni in tono indifferente. "Forse sarebbe bene che invece di consumarsi gli occhi per niente, lei badasse un po' di più ai suoi uomini. Ho visto una sentinella senza bandoliera. Vada a vedere, deve essere quella là in fondo.»
Col Matti era il tenente Maderna che poi raccontò la storia alla mensa, fra grandi risate. Ormai tutti cercavano unicamente di far passare i giorni il più comodamente possibile e la faccenda del nord fu dimenticata.
Soltanto con Drogo Simeoni continuò a discutere il mistero. Per quattro giorni realmente non si erano più visti né lumi né macchie in movimento, ma al quinto erano di nuovo comparsi. Le nebbie settentrionali — credeva di poter spiegare Simeoni — si ampliavano o si ritiravano secondo le stagioni, il vento e la temperatura; in quei quattro giorni esse erano scese in direzione sud, avvolgendo il presunto cantiere.
Non solo ricomparve il lume, ma dopo circa una settimana Simeoni pretese ch'esso si fosse spostato, avanzando in direzione della Fortezza. Questa volta Drogo si oppose: come era possibile, nel buio della notte, senza alcun punto di riferimento, constatare un simile movimento, anche se fosse realmente avvenuto?
"Ecco" diceva Simeoni ostinato. "Tu dunque ammetti che se il lume si fosse spostato non si potrebbe dimostrarlo con sicurezza. Ho dunque tanta ragione io a dire che si è mosso quanto tu a dire che è rimasto fermo. Del resto vedrai: voglio osservare tutti i giorni quei puntini che si muovono; vedrai che a poco a poco vengono avanti.»
Il giorno dopo si misero a guardare insieme, alternandosi nell'uso del cannocchiale. In realtà non si vedeva altro che tre o quattro minime macchioline le quali si spostavano con grande lentezza. Era già difficile rendersi conto di questi movimenti. Bisognava prendere due tre punti di riferimento, l'ombra di un macigno, il ciglione di una collinetta, e fissarne le proporzionali distanze. Dopo parecchi minuti si vedeva che questa proporzione era cambiata. Segno che il puntino aveva mutato posizione.
Era cosa straordinaria che Simeoni avesse potuto accorgersene la prima volta. Né si poteva escludere che il fenomeno si andasse ripetendo da anni o da secoli; poteva esserci laggiù un villaggio o un pozzo presso il quale le carovane si attendassero, e fino allora nessuno aveva adoperato alla Fortezza un cannocchiale forte come quello di Simeoni.
Lo spostamento delle macchioline avveniva quasi sempre sulla medesima linea, in su e in giù. Simeoni pensava che fossero carri per il trasporto di sassi o ghiaia; gli uomini — lui diceva — sarebbero risultati troppo piccoli a quella distanza per poter essere visti.
Di solito si distinguevano soltanto tre o quattro puntini in contemporaneo movimento. Ammesso che fossero carri — ragionava Simeoni — su tre che si muovevano, dovevano essercene almeno altri sei fermi, per il carico e lo scarico, e questi sei non potevano essere identificati, confondendosi con le mille altre macchie immobili del paesaggio. In quel solo tratto dunque veniva manovrata una decina di veicoli, probabilmente a quattro cavalli ciascuno, come era uso per i trasporti pesanti. Gli uomini, in proporzione, dovevano essere centinaia.
Queste osservazioni, fatte da principio quasi per scommessa e per gioco, diventarono l'unico elemento interessante della vita di Drogo.
Sebbene Simeoni, per la mancanza di ogni allegria e la pedante conversazione, non gli fosse specialmente simpatico, Giovanni nelle ore libere stava quasi sempre insieme con lui e pure alla sera, nelle sale degli ufficiali, i due stavano alzati fino a tarda ora a discutere. Simeoni aveva già fatto un preventivo. Ammesso pure che i lavori procedessero a rilento e che la distanza fosse anche maggiore di quella comunemente ammessa, sarebbero bastati sei mesi, diceva, perché la strada si avvicinasse a un tiro di cannone dalla Fortezza.
Con ogni probabilità lui pensava — i nemici si sarebbero fermati a ridosso di un gradone che attraversava longitudinalmente il deserto.
Questo gradone di solito si confondeva col resto della pianura per l'identità di colore, ma talora le ombre della sera o banchi di nebbia ne rivelavano la presenza. Esso divallava verso il nord, non si sapeva se ripido né quanto profondo. Ignoto era quindi il tratto di deserto che esso toglieva alla vista di chi guardava dalla Ridotta Nuova (dai muri del forte, per via delle montagne davanti, il gradone non si scorgeva).
Dal ciglio superiore di questo avvallamento fino ai piedi delle montagne, là dove si alzava il cono roccioso della Ridotta Nuova, il deserto si stendeva uniforme e piatto, interrotto soltanto da qualche fessura, da mucchi di sfasciumi, da brevi zone di canneto.
Arrivati con la strada sotto il gradone — prevedeva Simeoni — i nemici avrebbero potuto senza difficoltà compiere il restante tratto quasi di un balzo, approfittando di una notte nuvolosa. Il terreno era abbastanza liscio e compatto per permettere anche alle artiglierie di procedere agevolmente.
I sei mesi previsti in linea di massima — aggiungeva il tenente, potevano però diventare sette, otto, e anche molti di più, secondo le circostanze. E qui Simeoni elencava le possibili cause del ritardo: un errore nel calcolo della complessiva distanza da superare; l'esistenza di altri valloni intermedi invisibili dalla Ridotta Nuova dove i lavori sarebbero riusciti più lunghi e difficili; un progressivo rallentamento della costruzione, mano mano che gli stranieri si allontanavano dalla fonte dei rifornimenti; complicazioni di carattere politico che consigliassero di sospendere l'opera per un certo periodo; la neve, che avrebbe potuto paralizzare anche totalmente i lavori per due o più mesi; le piogge, che trasformassero la pianura in pantano. Questi gli ostacoli principali. Simeoni ci teneva a prospettarli meticolosamente uno ad uno, per non sembrare un fissato.
E se la strada non avesse avuto alcun intento aggressivo? Se per esempio essa venisse costruita a scopi agricoli, per la coltivazione della sterminata landa fino allora sterile e disabitata? O semplicemente se i lavori si fossero fermati dopo uno o due chilometri? domandava Drogo.
Simeoni scuoteva il capo. Il deserto era troppo pietroso per poter essere coltivato, rispondeva. Il Regno del Nord aveva del resto immense praterie abbandonate che servivano solo da pascoli; il terreno qui sarebbe stato assai più propizio a un'impresa del genere.
Ma era poi detto che gli stranieri facessero veramente una strada?
Simeoni garantiva che in certe giornate limpide, verso il tramonto, quando le ombre si allungavano grandemente, era riuscito a distinguere la striscia rettilinea della massicciata. Drogo però non l'aveva vista, per quanto si fosse sforzato. Chi poteva giurare che quella striscia diritta non fosse una semplice piega del terreno? Il movimento dei misteriosi punti neri e il lume acceso di notte non erano affatto probanti; forse c'erano sempre stati; e negli anni precedenti forse nessuno li aveva visti perché coperti dalle nebbie (senza contare la insufficienza dei vecchi cannocchiali usati fino allora dalla Fortezza).
Mentre Drogo e Simeoni stavano così discutendo, un giorno cominciò a nevicare. "Non è ancora finita l'estate" fu il primo pensiero di Giovanni "ed ecco già arrivata la brutta stagione." Gli pareva infatti di essere appena tornato dalla città, di non avere avuto neanche il tempo di sistemarsi come prima. Eppure sul calendario c'era scritto 25 novembre, interi mesi si erano consumati.
Fittissima la neve scendeva dal cielo depositandosi sulle terrazze e facendole bianche. Guardandola, Drogo sentì più acuta la solita ansia, invano cercava di scacciarla pensando alla propria giovane età, ai moltissimi anni che gli rimanevano. Il tempo, inesplicabilmente, si era messo a correre sempre più veloce, inghiottiva uno sull'altro i giorni. Bastava guardarsi attorno che già scendeva la notte, il sole girava di sotto e ricompariva dall'altra parte a illuminare il mondo pieno di neve.
Gli altri, i compagni, sembravano non accorgersene. Facevano il solito loro servizio senza entusiasmo, si rallegravano anzi quando sugli ordini del giorno compariva il nome di un mese nuovo, quasi avessero fatto un guadagno. Tanto di meno da passare alla Fortezza Bastiani, calcolavano. Essi avevano dunque un loro punto di arrivo, mediocre o glorioso che fosse, di cui sapevano accontentarsi.
Lo stesso maggiore Ortiz, ch'era già sulla cinquantina, assisteva apatico alla fuga delle settimane e dei mesi. Egli aveva ormai rinunciato alle grandi speranze e "Ancora una decina d'anni" diceva "poi me ne vado in pensione". Sarebbe tornato alla sua casa, in una antica città di provincia — spiegava — dove vivevano alcuni suoi parenti. Drogo lo guardava con simpatia, senza riuscire a capirlo. Che cosa avrebbe fatto Ortiz, laggiù fra i borghesi, senza più nessuno scopo, solo?
"Ho saputo accontentarmi" diceva il maggiore accorgendosi dei pensieri di Giovanni. "Anno per anno ho imparato a desiderare sempre meno. Se mi andrà bene, tornerò a casa col grado di colonnello.»
"E dopo?" domandava Drogo.
"E dopo basta" fece Ortiz con un sorriso rassegnato. "Dopo aspetterò ancora... pago del dovere compiuto" conchiuse scherzosamente.
"Ma qui, alla Fortezza in questi dieci anni, non pensa che...»
"Una guerra? Lei pensa ancora a una guerra? Non ne abbiamo avuto abbastanza?»
Sulla pianura settentrionale, ai limiti delle nebbie perenni, non si vedeva più nulla di sospetto; anche il lume notturno era spento. E Simeoni ne era soddisfattissirno. Questo dimostrava che lui aveva ragione: non si trattava né di un villaggio né di un campo di zingari, ma soltanto di lavori, che la neve aveva interrotti.

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