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Il conformista


Alberto Moravia - Il conformista
PARTE PRIMA
CAPITOLO PRIMO
Il cappello in mano, togliendosi con l’altra gli occhiali neri dal naso e riponendoli nel taschino della giubba, Marcello entrò nell’atrio della biblioteca e domandò all’usciere dove si trovassero le collezioni dei giornali. Poi si avviò senza fretta per la larga scala in cima alla quale il fìnestrone del pianerottolo risplendeva della luce forte di maggio. Si sentiva leggero e quasi vacante, in una sensazione di perfetto benessere fìsico, di intatta vigoria giovanile; e il vestito nuovo che indossava, grigio e di taglio sempli- ce, aggiungeva a questa sensazione quella non meno piacevole di una eleganza seria e nitida, secondo i suoi gusti. Al secondo piano, dopo aver riempito la scheda nell’ingresso, si diresse verso la sala di lettura, ad un banco dietro il quale stavano un vecchio usciere e una ragazza. Aspettò che fosse il suo turno e poi consegnò la scheda, chiedendo la collezione del 1920 del principale giornale cittadino. Aspettò pazientemente, appoggiato al banco, guardando davanti a sé verso la sala di lettura. Parecchie file di scrittoi, ciascuno con un lume dal paralume verde, si allineavano fino in fondo alla sala. Marcello osservò attentamente questi scrittoi scarsamente popolati per lo piu da studenti e scelse mentalmente il suo, l’ultimo nella sala, in fondo, a destra. La ragazza riap83
parve reggendo con le due braccia il grande fascicolo rilegato del giornale richiesto. Marcello prese il fascicolo e andò allo scrittoio.
Posò il fascicolo sul piano inclinato dello scrittoio e sedette, avendo cura di tirare un poco i pantaloni sopra il ginocchio; quindi, con calma, apri il fascicolo e cominciò a sfogliarne le pagine. I titoli avevano perduto roriginaria lucentezza, erano diventati di un nero quasi verde; la carta era ingiallita; le fotografie apparivano sbiadite, confuse, senza rilievo. Osservò che piu i titoli erano grandi ed estesi e più davano un senso di futilità e di assurdità : annunzi di avvenimenti che avevano perduto importanza e significato la sera stessa del giorno in cui erano apparsi e che adesso, clamorosi e incomprensibili, ripugnavano non soltanto alla memoria ma anche aH’immaginazione.
I titoli più assurdi, come notò, erano quelli che portavano sotto la notizia un commento più o meno tendenzioso: facevano pensare con la loro mescolanza di vivacità suggestiva e di totale mancanza d’eco alle vociferazioni stravaganti di un pazzo, che assordano ma non toccano. Marcello paragonò il proprio sentimento di fronte a questi titoli a quello che immaginava avrebbe provato di fronte al titolo che lo riguardava e si domandò se anche la notizia che andava cercando avrebbe destato in lui lo stesso senso di assurdità e di vuoto. Questo era, dunque, il passato, pensò continuando a voltare le pagine, questo fracasso ormai muto, questa furia ormai spenta, cui la materia stessa del giornale, quella carta ingiallita che presto si sarebbe sbriciolata e sarebbe caduta in polvere, prestava un carattere volgare e spregevole.
II passato era fatto di violenze, di errori, di inganni, di frivolezze e di menzogne, pensò ancora leggendo
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uno dopo l’altro le notizie nelle pagine; e queste erano le sole cose che, giorno per giorno, gli uomini ritenevano degne di essere pubblicate e con le quali si raccomandavano alla memoria dei posteri. La vita normale e profonda era assente da quei fogli; ma lui stesso, mentre faceva queste riflessioni, che altro vi cercava se non la testimonianza di un delitto?
Non aveva fretta di trovare la notizia che lo riguardava, sebbene sapesse con precisione la data e potesse trovarla a colpo sicuro. Ecco il ventidue, il ventitré, il ventiquattro di ottobre del millenovecen- toventi: egli si avvicinava sempre piu, ad ogni pagina che voltava, a quello che considerava il fatto piu importante della sua vita; ma il giornale non ne preparava l’annunzio, non ne registrava i preliminari. Tra tutte quelle notizie che non lo toccavano in alcun modo, la sola che lo riguardasse sarebbe affiorata ad un tratto, senza preavviso, come affiora alla superficie, dalla profondità del mare, un pesce saltando dietro un’esca. Provò a scherzare, pensando: « Invece di questi grandi titoli sugli avvenimenti politici, avrebbero dovuto stampare: “Marcello incontra per la prima volta Lino, Marcello gli chiede la rivoltella, Marcello accetta di salire sulla macchina”»; ma tutto ad un tratto lo scherzo gli mori nella mente e un turbamento improvviso gli fece mancare il respiro: era giunto alla data che cercava. Voltò in fretta la pagina e, nella cronaca nera, come si aspettava, trovò la notizia, con un titolo su una colonna: mortale incidente.
Prima di leggere si ^guardò intorno, quasi avesse temuto di essere osservato. Poi abbassò gli occhi sul giornale. La notizia diceva : « Ieri, lo chauffeur Pasquale Seminara, abitante in via della Camilluccia
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numero trentatrè, mentre puliva una rivoltella, ne faceva partire inavvertitamente alcuni colpi. Prontamente soccorso, il Seminara veniva trasportato d’urgenza all’ospedale di Santo Spirito dove i sanitari gli riscontravano una ferita di arma da fuoco al petto, in direzione del cuore e giudicavano il caso disperato. Infatti, in serata, nonostante le cure prodigategli, il Seminara cessava di vivere». La notizia non avrebbe potuto essere piu concisa né più convenzionale, pensò subito, rileggendola. Tuttavia, pur con le formule logore del giornalismo più anonimo, rivelava due fatti importanti. Il primo che Lino era morto davvero, cosa di cui era stato sempre convinto ma che non aveva mai avuto il coraggio di accertare; il secondo che questa morte era stata attribuita, per evidente suggerimento del moribondo, ad una casuale disgrazia. Cosi egli era completamente al riparo di ogni conseguenza: Lino era morto e questa morte non avrebbe potuto mai essergli imputata.
Ma non era per rassicurarsi che si era deciso finalmente a ricercare nella biblioteca la notizia del fatto avvenuto tanti anni prima. La sua inquietudine, mai del tutto sopita durante quegli anni, non aveva mai considerato le conseguenze materiali del fatto. Per vedere, invece, quale sentimento gli ispirasse la conferma della morte di Lino, aveva varcato quel giorno la soglia della biblioteca. Da questo sentimento, come aveva pensato, avrebbe giudicato se egli era ancora il ragazzo di un tempo, ossessionato dalla propria fatale anormalità o l’uomo nuovo, del tutto normale, che aveva in seguito voluto essere ed era convinto che era.
Provò un singolare sollievo e, forse, più che sollievo, stupore accorgendosi che la notizia stampata
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sulla carta ingiallita di diciassette anni prima, non destava nel suo animo alcuna eco apprezzabile. Gli era avvenuto, pensò, come a chi, dopo aver tenuto per lunghissimo tempo una fasciatura intorno una profonda ferita, finalmente si decida a togliere le bende e scopra con meraviglia, là dove credeva di trovare almeno una cicatrice, la pelle liscia e unita, senza alcuna traccia di alcun genere. Ricercare la notizia nel giornale era stato come togliere le bende, pensò ancora; e scoprirsi insensibile voleva dire scoprirsi guarito. Come fosse avvenuta questa guarigione, non avrebbe saputo dirlo. Ma, senza dubbio, non era stato soltanto il tempo a produrre un tale risultato. Molto doveva anche a se stesso, alla sua consapevole volontà, attraverso tutti quegli anni, di uscire dall'anormalità e farsi eguale agli altri.
Con una specie di scrupolo, distogliendo gli occhi dal giornale e fissandoli nel vuoto, volle tuttavia pensare esplicitamente alla morte di Lino, cosa che, sin’allora, d’istinto, aveva sempre evitato. La notizia del giornale era scritta nel linguaggio convenzionale della cronaca, e questo poteva anche essere un motivo di indifferenza e di apatia; ma la sua rievocazione non poteva non essere viva e sensibile e, come tale, atta a ridestare nel suo animo gli antichi terrori, se ancora c’erano. Cosi, docilmente, dietro la memoria che, simile ad una guida impietosa c imparziale, lo conduceva a ritroso nel tempo, rifece il cammino di se stesso fanciullo : il primo incontro con Lino, sul viale; il suo desiderio di possedere una rivoltella; la promessa di Lino; la visita alla villa; il secondo incontro con Lino; le smanie pederastiche dell’uomo; lui che puntava la rivoltella; l’uomo che gridava, istrionescamente, le braccia aperte, inginocchiato presso il letto : « ammazzami Marcello... ammazzami co87
me un cane...»; lui che, quasi ubbidendo, sparava; l’uomo che cadeva contro il letto, si tirava su, restava immobile, reclinato sul fianco. Si accorse subito, esaminando parte a parte tutti questi particolari che l’insensibilità riscontrata di fronte alla notizia del giornale, si confermava e si allargava. Non soltanto, infatti, non provava alcun rimorso ma neppure sfioravano la superficie immobile della sua coscienza i sentimenti di compassione, di rancore e di ripugnanza per Lino che per molto tempo gli erano sembrati indi- visibili da quel ricordo. Non provava nulla, insomma, e un impotente disteso al fianco di un corpo nudo e desiderabile di donna, non era più inerte del suo animo di fronte a quel remoto avvenimento della sua vita. Fu contento di questa indifferenza, segno indubbio che tra il ragazzo che era stato e il giovane che era non correva ormai più alcun rapporto, neppure nascosto, neppure indiretto, neppure sopito. Egli era veramente un altro, pensò ancora chiudendo pian piano il fascicolo e levandosi dallo scrittoio, e sebbene la sua memoria fosse in grado di ricordare meccanicamente quanto era accaduto in quel lontano ottobre, in realtà tutta la sua persona, fin nelle fibre più segrete, l’aveva ormai dimenticato.
Senza fretta, andò al banco e restituì il fascicolo alla bibliotecaria. Quindi, sempre con la compostezza piena di misura e di vigore che era il suo atteggiamento preferito, uscì dalla sala di lettura e si avviò giù per lo scalone, verso l’atrio. Era vero, non potè fare a meno di pensare, affacciandosi dalla soglia alla forte luce della strada, era vero, la notizia stampata e poi la rievocazione della morte di Lino non avevano destato alcuna eco nel suo animo; e, tuttavia, non si sentiva più così sollevato come a tutta prima gli era sembrato. Ricordò la sensazione che
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aveva provato sfogliando le pagine del vecchio giornale: come di togliere le bende da una ferita e trovarla con sorpresa perfettamente guarita; e si disse che, forse, sotto la pelle intatta, l’antica infezione covava tuttora in forma di ascesso chiuso e invisibile. Questo sospetto gli era confermato non soltanto dal carattere effimero del sollievo avvertito per un momento quando aveva scoperto che la morte di Lino gli era indifferente, ma anche dalla leggera, tetra malinconia che, come un diafano velo funereo, si frapponeva tra i suoi sguardi e la realtà. Come se il ricordo del fatto di Lino, pur dissolto dagli acidi potenti del tempo, avesse tuttora steso un’ombra inspiegabile su tutti i suoi pensieri e i suoi sentimenti.
Camminando piano per le strade affollate e piene di sole, cercò di stabilire un paragone tra il se stesso di diciassette anni prima e quello di adesso. Ricordò che a tredici anni era stato un ragazzo timido, un po’ femminile, impressionabile, disordinato, fantastico, impetuoso, passionale; adesso, invece, a trenta, era un uomo per nulla timido anzi perfettamente sicuro di sé, del tutto maschile nei gusti e negli atteggiamenti, calmo, ordinato fino all’eccesso, quasi privo di immaginazione, controllato, freddo. Gli pareva, inoltre, di rammentare che c’era stata in lui, allora, una ricchezza tumultuosa e oscura. Adesso, invece, tutto in lui era chiaro sebbene, forse, un poco spento, e la povertà e rigidezza di poche idee e convinzioni avevano preso il posto di quella generosa e confusa abbondanza. Finalmente, era stato incline alla confidenza ed espansivo, talvolta addirittura esuberante. Adesso era chiuso, di umore sempre uguale, senza brio se non proprio triste, silenzioso. Il tratto, però, piu distintivo del radicale
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cambiamento intervenuto in quei diciassette anni, era la scomparsa di una specie di eccesso di vitalità costituito dal ribollire di istinti insoliti e, forse, anche anormali; in luogo del quale, adesso, era subentrata, come pareva, una certa mortificata e grigia normalità. Soltanto il caso, pensò ancora, aveva impedito allora che egli soggiacesse alle voglie di Lino; e, certamente, al suo contegno con l’autista, pieno di civetteria e di femminile dispotismo, aveva contribuito, oltre ad un’infantile venalità, anche un’inclinazione torbida e inconsapevole dei sensi. Ma adesso egli era veramente un uomo come tanti altri. Si fermò davanti allo specchio di un negozio e si guardò a lungo, osservandosi con un distacco obbiettivo e privo di compiacimento : si, era proprio un uomo come tanti altri, con il suo vestito grigio, la sua cravatta sobria, la sua figura alta e ben proporzionata, la sua faccia bruna e rotonda, i suoi capelli ben pettinati, i suoi occhiali neri. All’università, come ricordò, aveva ad un tratto scoperto, con una specie di gioia, che c’erano almeno mille giovani della sua età che si vestivano, parlavano, pensavano, si comportavano come lui. Adesso, probabilmente, quella cifra andava moltiplicata per un milione. Era un uomo normale, pensò con dispettosa e acre soddisfazione, questo era fuori dubbio, sebbene non potesse dire come fosse avvenuto.
Ricordò improvvisamente che aveva finito le sigarette ed entrò in una tabaccheria, nella galleria di Piazza Colonna. Andò al banco e chiese le sigarette preferite; in quel momento stesso, altre tre persone chiedevano le stesse sigarette e il tabaccaio rapidamente disseminò sul marmo del banco, davanti le quattro mani che tendevano il denaro, quattro pacchetti identici che con identico gesto le quattro mani
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ritirarono. Marcello notò che prendeva il pacchetto, lo palpava per vedere se fosse abbastanza morbido, e quindi ne lacerava l’involucro nella stessa maniera degli altri tre. Notò pure che due dei tre riponevano come lui il pacchetto in una piccola tasca interna della giubba. Finalmente, uno dei tre, appena uscito dalla tabaccheria si fermava ad accendere la sigaretta con un accendino d’argento, in tutto simile al suo. Queste osservazioni destavano nel suo animo un compiacimento quasi voluttuoso. Si, era eguale agli altri, eguale a tutti. A coloro che compravano le sigarette della stessa marca e con gli stessi gesti suoi; a coloro pure che, al passaggio di una donna vestita di rosso, si voltavano a sbirciare, e lui con loro, il fremito delle solide natiche sotto il tessuto sottile del vestito. Sebbene, come per quest’ultimo gesto, la somiglianza talvolta fosse in lui più voluta per imitazione che originata da analoga conformità di inclinazioni.
Un giornalaio basso e deforme gli venne incontro, un fascio di giornali sul braccio, sventolandone una copia e vociando forte, con il viso congestionato dallo sforzo, una frase incomprensibile in cui tuttavia erano riconoscibili le parole : « Vittoria » e « Spagna». Marcello comprò il giornale, e lesse con attenzione il titolo che copriva tutta la testata: ancora una volta, nella guerra di Spagna, i franchisti avevano riportato una vittoria. Si rese conto che leggeva questa notizia con una soddisfazione indubbia; la quale, come pensò, era un indizio di più della sua piena, assoluta normalità. Egli aveva visto nascere la guerra dal primo titolo ipocrita : « Che avviene in Spagna ?» ; e poi questa guerra si era allargata, ingigantita, era diventata una contesa, non soltanto di armi, ma anche di idee; e lui, via via, si era accorto di par91
teciparvi con un sentimento singolare, del tutto separato da ogni considerazione politica e morale (sebbene tali considerazioni gli si affacciassero spesso alla mente), molto simile a quello di uno sportivo entusiasta che parteggi per una squadra di pallone contro un’altra. Fin da principio, aveva desiderato che Franco vincesse, senza accanimento ma con un sentimento tenace e profondo, quasi che quella vittoria avesse dovuto portare una conferma della bontà e giustezza dei suoi gusti e delle sue idee non soltanto nel campo della politica ma anche in tutti gli altri. Forse aveva anche desiderato e desiderava tuttora la vittoria di Franco per amore di simmetria : come qualcuno che, arredando la propria casa, si preoccupi di collocarvi mobili tutti dello stesso stile. Questa simmetria, gli pareva di leggerla nei fatti degli ultimi anni, in progressivo accrescimento di chiarezza e di importanza: prima l’avvento del fascismo in Italia, poi in Germania, poi la guerra di Etiopia, poi quella di Spagna. Questo progresso gli piaceva, non sapeva perché, forse perché era facile ravvisarvi una logica piu che umana e saperla ravvisare dava un senso di sicurezza e di infallibilità. D’altra parte, come pensò ripiegando il giornale e mettendolo in tasca, non si poteva dire che egli si fosse convinto della bontà della causa di Franco per ragioni politiche o di propaganda. Questa convinzione gli era venuta dal nulla, come è da credersi che venga alla gente ignorante e comune; dall’aria, insomma, come si intende quando si dice che un’idea è nell’aria. Egli parteggiava per Franco come parteggiavano per Franco altre innumerevoli persone del tutto comuni, che poco o nulla sapevano della Spagna, che leggevano appena le testate dei giornali, che non erano colte. Per simpatia, insomma, dando a questa parola
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un senso tutto irriflesso, alogico, irrazionale. Una simpatia che si poteva dire soltanto per metafora che veniva dall’aria; ma in aria ci sono il polline dei fiori, i fumi delle case, la polvere, la luce, non le idee. Questa simpatia, dunque, veniva da zone più profonde e dimostrava una volta di più che la sua normalità non era né superficiale, né abborracciata razionalmente e volontariamente, con ragioni e motivi opinabili, ma legata ad una condizione istintiva e quasi fisiologica, ad una fede, insomma, che egli condivideva con altri milioni di persone. Egli faceva tutta una cosa sola con la società e il popolo in cui si trovava a vivere, non era un solitario, un anormale, un pazzo, era uno di loro, un fratello, un cittadino, un camerata; c questo, dopo aver tanto temuto che l’uccisione di Lino potesse separarlo dal resto dell’umanità, era in alto grado consolante.
Franco o un altro, del resto, pensò ancora, poco importava purché ci fosse un legame, un ponte, un segno di collegamento e di comunione. Ma il fatto che fosse Franco e non un altro, dimostrava che oltre ad essere un indizio di comunione e di compagnia, la sua partecipazione sentimentale alla guerra di Spagna era anche una cosa vera e giusta. Che altro poteva essere infatti la verità se non qualche cosa a tutti evidente, da tutti creduta e ritenuta inoppugnabile. Cosi la catena era ininterrotta, con tutti gli anelli ben saldati: dalla sua simpatia, anteriore ad ogni riflessione, alla consapevolezza che questa simpatia era condivisa da altri milioni di persone nella stessa maniera; da questa consapevolezza alla convinzione di essere nel vero; dalla convinzione di essere nel vero, all’azione. Perché, come pensò ancora, il possesso della verità non soltanto permetteva l’azione ma anche l’imponeva. Come una conferma da for93
nire a se stesso e agli altri della propria normalità che tale non era se non veniva, appunto, approfondita, ribadita e dimostrata continuamente.
Ormai era giunto. Il portone del ministero si spalancava al di là della strada, oltre una duplice fila di macchine e di autobus in movimento. Aspettò un momento e poi si avviò nella scia di una grossa automobile nera che si dirigeva, appunto, verso il portone. Entrò dietro la macchina, disse all’usciere il nome del funzionario col quale desiderava parlare e poi sedette nella sala d’aspetto, quasi contento di attendere come gli altri, tra gli altri. Non provava fretta, ne impazienza, né senso di intolleranza per l’ordine e l’etichetta del ministero. Anzi quell’ordine e quell’etichetta gli piacevano, come indizi di un’ordine e di un’etichetta più vaste e piu generali e vi si adattava volentieri. Si sentiva del tutto calmo, freddo; semmai, ma anche questo non gli era nuovo, un po’ triste. Di una tristezza misteriosa che considerava ormai inseparabile dal suo carattere. Sempre era stato triste a quel modo o meglio mancante di allegria, come certi laghi che hanno una montagna molto alta che si specchia nelle loro acque parando la luce del sole c rendendole nere e melanconiche. Si sa che se la montagna venisse rimossa, il sole farebbe sorridere le acque; ma la montagna è sempre là e il lago è triste. Egli era triste come quei laghi ; ma che cosa fosse quella montagna, non avrebbe saputo dire.
La sala d’aspetto, una stanzetta annessa alla portineria del palazzo, era piena di una gente eteroclita, proprio il contrario di quella che ci si sarebbe aspettato di trovare nell’anticamera di un ministero come quello, famoso per l’eleganza e la mondanità dei suoi funzionarii. Tre individui dall’aspetto crapu- loso e sinistro, forse informatori e agenti in bor94
ghese, fumavano e parlottavano a bassa voce accanto ad una donna giovane, dai capelli neri e dal viso bianco e rosso, dipinta e vestita chiassosamente, secondo ogni apparenza una donna di malaffare del genere piu basso. Poi un vecchio, vestito pulitamente seppure poveramente di nero, con i baffi e la barba bianchi, forse un professore. Poi una donnetta magra, dai capelli grigi, dall’espressione affannata e ansiosa, forse una madre di famiglia. Poi lui.
Egli osservò di sottecchi, con un vivo senso di ripugnanza, tutta questa gente. Sempre cosi gli succedeva: pensava di essere normale, simile a tutti gli altri, quando si raffigurava la folla in astratto, come un grande esercito positivo e accomunato dagli stessi sentimenti, dalle stesse idee, dalle stesse mete, del quale era consolante far parte. Ma appena affioravano fuori da quella folla gli individui, l’illusione della normalità si infrangeva contro la loro diversità, egli non si riconosceva affatto in loro e provava insieme ripugnanza e distacco. Che c’era di comune tra lui e quei tre biechi e volgari individui, tra lui e quella donna di strada, tra lui e quel vecchio canuto, tra lui e quella madre trafelata e dimessa? Nulla, salvo questo ribrezzo, questa pietà. « Clerici » gridò la voce dell’usciere. Egli trasalì e si levò in piedi. « La prima scala a destra ». Senza voltarsi, si avviò verso il luogo designato.
Salì un larghissimo scalone in mezzo al quale serpeggiava un tappeto rosso e si trovò, dopo la seconda rampa, in un vasto pianerottolo sul quale davano tre grandi porte a due battenti.

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