Unità 1
L'italiano: una lingua, molte lingue




Lettura 3

LE TRASFORMAZIONI DELLA SITUAZIONE LINGUISTICA ITALIANA NEGLI ULTIMI DECENNI

Nella seconda metà del Novecento la società italiana ha vissuto, tra le altre, una trasformazione linguistica profonda, di portata storica. In termini un po' retorici, si può dire che la lingua italiana è diventata ciò che Ugo Foscolo, sul finire del Settecento, e Alessandro Manzoni, mezzo secolo dopo, sognavano che un giorno sarebbe diventata: una lingua realmente parlata da tutti, oltre che scritta e letta da pochi; una lingua, diceva il Manzoni, "viva e vera". In termini un po' più neutri, si può dire che la trasformazione avvenuta in poco più di trent'anni ha fatto della lingua italiana una lingua come le altre europee: una lingua non soltanto ufficiale dello Stato e dell'amministrazione, non soltanto scritta e letta
(beninteso da quanti - non molti, purtroppo - sapessero e sappiano ben leggere e scrivere), ma largamente parlata dalla generalità degli abitanti del Paese sia in ogni occasione della vita pubblica sia nella vita quotidiana e nelle occasioni anche più intime o spicciole e trite.

Non era così a inizio degli anni Cinquanta, quando un linguista fiorentino, Emilio Peruzzi, definiva l'italiano una lingua adatta a sonetti e trattati, ma non a parlare delle cose di ogni giorno; e quando un benemerito linguista svizzero, Robert Rüegg, doveva constatare che la maggioranza degli informatori della sua bella e fino ad oggi insostituita indagine sulla Umgangssprache (lingua comune, popolare) italiana gli dichiaravano (ed erano in prevalenza persone di buona istruzione, in grado comunque di leggere e scrivere) di parlare abitualmente soltanto il loro dialetto nativo, e solo in casi eccezionali l'italiano.

Come si sa, non dappertutto era così in Italia. A Firenze e nelle città ed aree toscane contermini l'italiano non era solo scritto e letto, ma parlato: qui l'italiano era nato, perché qui Dante, Boccaccio e Petrarca avevano fissato nei loro capolavori letterari gli essenziali tratti della loro parlata nativa e ne avevano fatto la prima testimonianza di quella lingua che si doveva poi chiamare dal Cinquecento "italiana". E per quanto tra il Cinquecento e il Novecento l'italiano si fosse arricchito di prestiti colti, di latinismi, di calchi da altre lingue europee, di tecnicismi, di apporti colloquiali da altre regioni, e per quanto a Firenze il parlato popolare fosse a sua volta andato assumendo modi e forme non note al fiorentino scritto del Trecento codificato nel Cinquecento, qui tuttavia rispetto a ogni altra area italiana, sussisteva una continuità e contiguità tra gli usi parlati e gli usi scritti della lingua sconosciuti a ogni altra regione, con l'eccezione della città di Roma.

Per un complesso di ragioni linguistiche e storiche, a partire dal tardo Quattrocento e poi più marcatamente nel secolo seguente, Roma fu l'unico centro italiano non toscano in cui la scelta del fiorentino come lingua nazionale non sia restata confinata nell'ambito dell'amministrazione, della vita pubblica più formale e delle scritture dei ceti colti, ma sia stata condivisa da strati sempre più larghi di popolazione e, infine, sorretta da una larga adesione effettiva e quotidiana della maggioranza dei parlanti, mentre i residui dell'antico dialetto andavano dileguando e il nuovo, influenzato fino alle radici dal toscano e, poi, dall'italiano, di generazione in generazione andava a sua volta riducendosi a poco più che una patina fonetica municipale, divergente dall'italiano colto più o meno tanto quanto ne diverge il vernacolo fiorentino più accentuatamente municipale. Roma fu un'eccezione, cui non sapremmo trovare attendibili eguali nell'Italia dell'epoca.

Ma, fuori di queste due aree e diversamente dalle altre maggiori lingue nazionali europee, l'italiano ha vissuto fin oltre la metà del secolo scorso in una condizione singolare, di lingua piuttosto scritta e letta che non parlata. Fuori dell'area fiorentina e della città di Roma, le lingue "vive e vere" erano i dialetti, eterogenei e distanti tra loro e rispetto all'italiano. Vivi e veri certamente, i dialetti, ma soggetti a pesanti limitazioni nell'uso, confinati cioè negli usi parlati e, nei centri di maggior prestigio e tradizione, come Palermo o Venezia, Milano o Napoli, impiegati anche nelle scritture creative del teatro e della poesia soprattutto lirica: troppo poco perché potessero contendere il ruolo di lingua di cultura e nazionale all'italiano, ma troppo perché per la generalità della popolazione l'italiano vivesse come le altre lingue nazionali europee la vita di una lingua comunemente usata sia scrivendo o leggendo, sia, soprattutto, parlando.

Questa situazione singolare è durata per secoli, fino ad anni recenti. La pattuglia di coloro che usavano l'italiano sia scrivendo e leggendo sia parlandolo di abitudine, era percentualmente esigua al momento dell'unificazione politica del 1861: il 2,5% o, secondo una valutazione più larga, circa l'8-10%. Essa si era accresciuta poi per i processi stessi di formazione dello Stato e della società unitari, ed era diventata, per restare nella metafora, una schiera: ma una schiera che a metà anni Cinquanta anzitutto era ancora inferiore a un quinto della popolazione, era inoltre in gran parte concentrata a Firenze e Roma e, infine, se aveva dalla sua a parole le ideologie dominanti, che affettavano disprezzo per la "malerba dialettale", non aveva dalla sua le azioni e i fatti reali. Soprattutto, come già la pattuglia degli italofoni al momento dell'unificazione, non aveva l'appoggio dei due grandi fattori che altrove, in Europa, avevano unificato vaste aree nazionali e statuali ciascuna intorno a una lingua: la presenza di una capitale egemone, soverchiante ogni altro centro nel conformare a sé nei fatti il costume, la vita produttiva, l'economia e la vita intellettuale, come Londra o Parigi o Madrid nei rispettivi Paesi; e l'azione di un sistema scolastico efficiente e di una diffusa conseguente pratica del leggere e scrivere.

Nell'Italia prima e dopo l'unificazione politica così come in quella degli anni Cinquanta e, del resto, nell'attuale, domina invece un accentuato policentrismo. È una terra ricca di capitali, ciascuna delle quali primeggia per qualche aspetto. Come già il Manzoni aveva paventato, la capitale linguistica, Firenze, non è stata (tranne pochi anni) e non è la capitale politica. E la capitale politica, Roma, è stata a più riprese ed è in questi anni il punching ball (palla di cuoio appesa a un supporrò che il pugile colpisce durante l'allenamento: metaforicamente, Roma è vista come bersaglio su cui scaricare le proteste e le critiche contro gli aspetti negativi dell'amministrazione pubblica) nazionale e popolare, legittimo o no che ciò sia, di diffuse avversioni contro le malefatte dell'amministrazione centrale dello Stato, e nell'oggettività dei fatti è stata soverchiata a lungo da Firenze (oggi affiancata anche da Milano) per prestigio linguistico, da Napoli per peso demografico, da Milano, Torino e Genova per peso economico, finanziario e produttivo, da Milano e Napoli, e dalla stessa Firenze, come centro editoriale e di vita intellettuale, pur continuando a contendere a ciascuna delle altre capitali il primato, in ragione della sua concentrazione demografica di italiani d'ogni regione e dell'indotto del suo essere a un tempo più largamente italofona di ogni altro centro (tranne Firenze, naturalmente) e più ricca di agenzie di diffusione nazionale di massa e capillare dello standard italiano. Sicché, in questa mancanza di un costante e unico riferimento unitario, anche altri centri ragguardevoli, spesso anch'essi altresì antiche capitali degli Stati preunitari, hanno potuto conservare una loro autonoma e specifica maniera di vita, da Palermo a Venezia, da Ferrara e Parma e Bologna a Cosenza, Catania, Cagliari.

E poiché ciascuno di questi centri fungeva anche da capitale dialettale, centro di una tradizione fiorente, spesso nobile e raffinata, comunque socialmente ben insediata e viva, il policentrismo ha pesato con la prepotenza delle cose nel cammino verso l'estensione e diffusione di un uso compattamente unitario della lingua nazionale fuori dell'area fiorentina e romana. [...]

Tre grandi fattori hanno determinato il cambiamento della situazione linguistica degli anni Cinquanta: le grandi migrazioni interne; la crescita dei livelli di istruzione delle classi più giovani e, quindi, dell'intera popolazione; l'avvento e la fortuna delle trasmissioni televisive.

A mano a mano che essi hanno agito, si sono venuti costituendo gruppi sempre più folti di abituali italofoni, che hanno potuto usare l'italiano in occasioni sempre più varie, sicché negli anni a noi più vicini si è ora venuto creando un quarto fattore di unificazione linguistica: la presenza di un uso parlato quotidiano, che nelle famiglie per i bambini, e nella vita di relazione, funge da stimolo e modello dell'italofonia, ovviamente con un'efficacia assai maggiore della televisione, povera di interattività. [...]

Le grandi migrazioni interne degli anni Cinquanta e Sessanta, legate alle cattive condizioni di vita nelle campagne specie del Sud e al bisogno di manodopera nei grandi centri urbani industriali del Nord-Ovest, hanno portato milioni e milioni di persone a spostarsi dal Sud, dal Veneto e dalle zone montane verso le città maggiori e le aree industrializzate del Paese. Al censimento del 1971 più di tre milioni di residenti nel Nord risultavano nativi del Sud del Paese. Negli anni Ottanta i nativi delle regioni meridionali residenti nel Nord del Paese sono leggermente diminuiti, ma continuano a rappresentare una quota imponente: oltre due milioni e duecentomila su una popolazione di circa 25 milioni, quasi un decimo. Si impongono alcune cifre: 583mila siciliani, 530mila pugliesi, 425mila campani, 408mila calabresi, 159mila sardi, 80mila abruzzesi e 30mila molisani. [...]

Lo spostamento dal Sud e dal Veneto verso il Nord-Ovest ha avuto un doppio effetto linguistico: ha costretto gli immigrati a mettere progressivamente da parte i loro dialetti nativi per potere intendere e farsi intendere dai già residenti; ma anche questi sono stati sospinti a cercare oltre i propri dialetti un terreno di intesa linguistica con i nuovi arrivati. I contatti hanno contribuito a indebolire progressivamente l'abitudine all'uso esclusivo del dialetto.

Mentre ciò cominciava ad avvenire, ha avuto inizio la tendenza a cercare livelli più alti di istruzione per le giovani generazioni con la speranza di un migliore inserimento nel mondo del lavoro. All'inizio degli anni Sessanta, la riforma della scuola postelementare fu un momento importante per creare le condizioni di un accesso all'istruzione per otto anni, così come la Costituzione chiedeva fin dal 1948. Nonostante la forte spinta sociale il processo è assai lento. Ancora nell'anno 1970 per più della metà le leve scolastiche giovani non riuscivano a ottenere la licenza media inferiore e, quindi, a completare l'obbligo scolastico. Soltanto a partire dai primi anni Ottanta ci si è avvicinati all'obiettivo della piena scolarità obbligatoria: ma ancora negli anni Novanta del secolo scorso, circa l'otto per cento delle ragazze e dei ragazzi non riesce a terminare l'obbligo, con percentuali molto elevate nel Sud, specie nei centri urbani maggiori. Inoltre una parte consistente dei giovani che ottengono la licenza media inferiore, circa il 25%, lascia la scuola senza una buona capacità di controllo dell'uso scritto della lingua. Tuttavia il progresso rispetto agli anni Cinquanta è enorme e sia pure lentamente si è sedimentato nella complessiva società adulta. Il fenomeno del no schooling (mancanza di scolarizzazione), negli anni Cinquanta esteso a due terzi della popolazione di oltre 15 anni, si è ristretto a meno di un quarto [...]. Oltre il quaranta per cento degli adulti è in possesso della licenza elementare ed è dunque capace di un discreto uso ricettivo della lingua, specie nel parlato.

Un terzo della popolazione ha la licenza media obbligatoria o titoli superiori: ha cioè alle spalle abbastanza scuola postelementare per avere accesso a un uso relativamente sicuro della lingua, indipendentemente dal luogo di origine e del dialetto nativo.

Mentre avvenivano le grandi migrazioni e cominciava la corsa a livelli più alti di istruzione, è entrato in gioco il terzo fattore: l'avvento e la rapida generalizzazione dell'ascolto televisivo. Con la varietà e il diffuso interesse dei suoi programmi, con la stretta connessione di immagini e di parlato (che era mancata e manca alla radiofonia), infine con il costo assai più basso di altre forme di comunicazione di massa (cinema, stampa) la televisione ha potuto portare masse enormi di popolazione a contatto con l'uso parlato della lingua in molte sue varietà. Le schiere di italofoni che migrazioni e scuole andavano creando hanno trovato nella televisione una formidabile scuola di lingua, che ha permesso loro di acquisire con maggiore rapidità l'uso quotidiano dell'italiano: in fatto di competenza linguistica l'ascolto abituale della televisione equivale (come poté calcolarsi negli anni Sessanta) a cinque anni di scuola in più rispetto ai livelli di scolarità formale già raggiunti. Infine, per valutare meglio la portata linguistica che hanno avuto e ancora hanno le trasmissioni televisive, si consideri che gli altri due grandi fattori di italianizzazione (migrazioni interne e scuola) hanno agito in misura e con modalità diverse dall'una all'altra area demografico-dialettologica del Paese, e anzi all'interno di ciascuna area: la scolarizzazione elementare ha proceduto assai più speditamente nelle regioni centro-settentrionali e ha invece incontrato vere e proprie resistenze nel Sud così come ha potuto ottenere risultati migliori nelle aree più intensamente urbanizzate e assai minori nelle zone agricole e montuose; le migrazioni interne, mentre hanno agito nel senso anzidetto di spinta alla italofonia nelle grandi città d'arrivo del Nord-Ovest, così come per secoli era già avvenuto a Roma, nelle zone di fuga migratoria dal Veneto ai centri minori e alle aree agricole del Sud hanno avuto come effetto una relativa maggiore concentrazione di popolazione dialettofona. In sostanza, questi due fattori di unificazione linguistica hanno agito in misura diversa nelle varie aree e il complesso processo di unificazione ha avuto diffrazioni differenziate nelle singole regioni e subregioni. Di contro le trasmissioni televisive, in virtù delle loro caratteristiche strutturali già accennate, dopo il decollo a metà anni Cinquanta, assai rapidamente hanno raggiunto in modo percentualmente omogeneo tutte le regioni e subregioni: sfondando il muro dei bassi redditi, si sono offerte all'accesso di tutte le classi sociali; infine, facilitando l'integrazione della parola con le immagini, e grazie a singole trasmissioni particolarmente facili e accattivanti, hanno sfondato anche le muraglie della bassa scolarità e hanno offerto una vera e propria scuola di italiano a tutti, in specie a quei due terzi di popolazione che negli anni Cinquanta erano bloccati nella condizione del no schooling.

Sondaggi di linguisti ed indagini demoscopiche hanno confermato che di anno in anno si è venuta restringendo la percentuale di coloro che dichiarano di non usare mai l'italiano, nemmeno nelle relazioni con estranei e in pubblico. Essa oggi è ristretta a una percentuale che i sondaggi più recenti stimano intorno al 12-13% della popolazione, e si concentra soprattutto nelle regioni del Nord-Est e del Sud estremo. All'opposto, supera ormai il 30% la percentuale di coloro che dichiarano di usare abitualmente solo l'italiano, concentrata soprattutto, oltre che in Toscana e a Roma, nelle maggiori città del Paese, specialmente a Milano. Una percentuale cospicua, di poco inferiore al 60%, dichiara di usare a seconda delle circostanze l'italiano (soprattutto fuori di casa, con estranei, e anche in casa parlando a bambini) o il dialetto (soprattutto in casa e parlando ad anziani). [...]

Si deve assumere per certo che l'uso dell'italiano parlato non è più minoritario. Insomma, l'italiano non è più una lingua di minoranza, ma è la lingua abituale sia scritta sia parlata di oltre venti milioni di persone ed è la lingua scritta e pubblica di almeno altrettanti: nessun altro dialetto e nessuno dei tredici negletti idiomi di minoranza può vantare una base sociale altrettanto consistente. Non ancora per tutti, ma per un gruppo estesamente maggioritario, l'italiano è finalmente una lingua "viva e vera" [...]: non ha più cioè un insediamento dominantemente toscano o romano e fuori di qui non è più appannaggio di ristrette minoranze colte di alcune città maggiori.

Insomma, non è più una bugia dovuta a retorica nazionalistica o a superficialità dire che in generale in Italia si parla italiano.

(adattato da T. De Mauro, E Mancini, M. Vedovelli, M. Voghera, Lessico di frequenza dell'italiano parlato, Etaslibri, Milano, 1993)